Stiamo assistendo in pochi mesi a un enorme salto di
quantità e qualità del fenomeno “immigrazione”. Il numero di persone che fugge,
che si imbarca e che sbarca, che cerca rifugio e un futuro, innanzitutto: sta
salendo e, con l’avanzare dell’estate, crescerà ancora esponenzialmente. Già
ora non si riesce ad accoglierli e ad assisterli, figuriamoci a breve… La chiamiamo emergenza, ogni volta.
Ma è solo perché ogni volta siamo impreparati, facciamo finta che non accadrà,
aspettiamo che accada, e ogni volta fingiamo sorpresa. Eppure sappiamo quel che
abbiamo combinato e stanno combinando in Nord Africa e in Medio Oriente, negli
anni.
Ma, al di là della ressa e dei numeri, sta cambiando la qualità del processo.
Da un lato, una buona parte dei
migranti non accetta più di essere identificato e recluso nei Centri,
non si fa più irregimentare e rinchiudere nei lager nostrani. Si gettano a corpo morto sugli scogli,
alle frontiere, nelle stazioni, per le strade, tra di noi. Divengono
visibili, fastidiosi, seccanti. Ostacolano
e inquietano i nostri viaggi da pendolari, da turisti, d’affari. Si
gettano a fianco a negozi, gentili commerci, panchine dei parchi e dei
giardinetti. Se devono morire, se sono già morti, stanno lì, qui, non più
altrove. “Non torneremo indietro!”, gridano. Stanno
in mezzo alle nostre vite di ogni giorno, e le assediano. A Milano,
l’Expo si deve confrontare con la fame vera, quella che creiamo noi e che non
siamo mai stati capaci di nutrire. E ne esce con le ossa rotte, non solo in
termini di immagine, ma di sostanza.
D’altro lato, la reazione degli Stati, a tutti i
livelli. L’israelizzazione del mondo procede: si
ergono muri, si ritorna alla difesa dei confini nazionali, ci si affida
inutilmente a ridicole distinzioni in punta di diritto: sì ai profughi che
scappano dalle guerre e dalle persecuzioni, no ai migranti economici, che
scappano solo dalla fame e dalla totale assenza di lavoro e di prospettive. E
chi può distinguerli e separarli davvero? E poi, a partire da quale principio,
si permette l’accesso agli uni e non agli altri? Gli immigrati italiani, e di
tutto il mondo, da sempre non sono stati della seconda categoria? E quelli che
provavano a scappare da Berlino Est verso l’Ovest meraviglioso? Con quale
credibilità ci mettiamo oggi a fare cavillosi distinguo?
Saremo costretti a prenderli tutti, ad aprire le frontiere, ad accettare
la globalizzazione dei corpi, delle nude
vite, dei poveri e degli appestati. Ma, prima, ci chiuderemo ancora
intorno ai nostri privilegi, faremo ancora guerra, costruiremo ancora muri e
argini contro lo straniero, contro chi non ha diritti, non ha libertà (se non
quella di morire, e a casa sua, possibilmente…).
La secessione dei ricchi non
è più una parola d’ordine di leghisti e lepenisti, ma sta avvolgendo la stessa
politica ex-liberale ed ex-solidale che, in
stato di stress, rivela la sua natura profonda: la soglia sta per essere
oltrepassata e la tolleranza è finita.
È decisivo che si arrivi a questo, che il conflitto
per la vita e per la morte si manifesti in tutta la sua crudezza e
spietatezza. È urgente che la
palude sia smossa. Noi occidentali non lo faremo mai, da noi e da soli.
Ma, al di là della nostra pigra volontà, i processi catastrofici avanzano e ci
costringeranno a tenerne conto e a cambiare.
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