Il 20 giugno è la Giornata
internazionale del rifugiato ed è l’occasione per rammentare a
opinioni pubbliche distratte (quelle dei paesi occidentali e benestanti) che
nel mondo circa 68,5 milioni di persone si trovano costrette a vivere lontano
da casa perché costrette alla fuga (un
abitante del pianeta ogni 110). Un rapido esame delle cifre offre
informazioni che sembrano confliggere con l’idea corrente dei flussi
migratori: l’85% dei rifugiati si trova nei paesi del sud del mondo (di
solito limitrofi a quelli di origine); oltre 40 milioni sono sfollati
interni; due terzi provengono da soli cinque stati: Siria,
Afghanistan, Sud Sudan, Somalia e Myanmar, cioè paesi devastati da guerre
pluriennali, più l’ex Birmania alle prese con la tragedia del popolo
rohingya.
Dunque l’Europa non è affatto
il cuore dei flussi migratori, nonostante la drammatizzazione politica
in corso da tempo. Basta alzare lo sguardo per constatare che siamo parte di un
mondo complesso e che dovremmo considerare questa materia senza dimenticare che
la Giornata cade il 20 giugno per un preciso motivo: ricordare la firma nel 1951 della
Convenzione Onu per la protezione, appunto, dei rifugiati, un documento che
è parte integrante del sistema di
tutela dei diritti umani scaturito dalla carneficina della seconda
guerra mondiale.
In Europa stiamo celebrando – diciamo così – questa ricorrenza civile
con gesti violenti e regressivi quali
la chiusura dei porti alla nave
Aquarius e un dibattito politico ormai a senso unico, volto cioè
a blindare le frontiere esterne
dell’Unione. E’ una regressione che costituisce di per sé un
arretramento delle nostre democrazie, sempre meno disposte a onorare i princìpi
fondanti della civiltà giuridica occidentale di cui tanto – a parole – andiamo
orgogliosi, in testa l’uguaglianza
fra le persone e tutto quanto ne consegue.
La Giornata è anche l’occasione per mettere a nudo una mistificazione corrente nel discorso
pubblico. Si sta cercando di affermare l’idea che ci siano due categorie
di immigrati: i potenziali “rifugiati” in quanto richiedenti asilo perché in
fuga dalle guerre e/o perseguitati politicamente – non proprio graditi ma in qualche modo “buoni” – e gli
emigranti economici, per definizione “cattivi” perché in Europa non ci sarebbe
posto per loro. Il nostro governo in questi giorni fornisce anche delle cifre –
10% i primi, 90% i secondi – che però non corrispondono a quelle ufficiali di
Unhcr e altri enti (i richiedenti asilo sono in realtà il 40% del
totale).
Questa distinzione somiglia a un’altra pretesa separazione fra “buoni” e
“cattivi” in voga fino a poco tempo fa: “clandestini”
da una parte, “regolari“ dall’altra. Sono linee di demarcazione utili ad
alimentare la retorica xenofoba che
ben conosciamo ma del tutto inadatte a descrivere la realtà della vita. Così
come tutti i “regolari” buoni sono stati in precedenza “clandestini” cattivi
per la semplice ragione che none esistono in Italia sistemi di accesso legali per gli stranieri,
così la distinzione fra rifugiati veri e rifugiati falsi è irrealistica e
falsata da premesse sbagliate.
A sentire i nostri ministri (in
particolare un ministro) i rifugiati “veri” sarebbero esclusivamente le
persone in fuga da guerre guerreggiate (grossomodo da Siria e Afghanistan):
solo loro, si sostiene, possono ambire al diritto asilo, quindi alla condizione
tecnica di rifugiato. Quest’accezione è in realtà riduttiva e ormai superata. Da un lato è ormai molto difficile distinguere le motivazioni
dell’esodo di persone che vivono in paesi non solo dilaniati dai
conflitti bellici, ma anche con economie e società distrutte da crisi
ambientali e sistematica predazione economica; dall’altro lato, va considerato
che alla nozione iniziale di rifugiato si sono aggiunti almeno altri due
status: la “protezione
sussidiaria” e la “protezione umanitaria”, allargando quindi le maglie
dell’accoglienza. Negli anni ’50 l’idealtipo del rifugiato corrispondeva
all’esule politico, al dissidente (specie nei paesi del blocco sovietico), poi
la storia ha determinato un necessario aggiornamento, fino alla magmatica
condizione odierna.
In definitiva certe distinzioni hanno senso solo per chi vuole utilizzarle per limitare diritti e
opportunità. Si dice: possiamo arrivare ad accettare gli uni,
che sono oltretutto pochi (i “regolari”, i “rifugiati veri”) ma dobbiamo
respingere gli altri, che oltretutto sono molti (i “clandestini”, i “migranti
economici”). Su questa mistificazione si gioca – oggi, nella lotta politica di queste settimane e
mesi – il nostro futuro e quello della stessa Europa.
Si tratta di capire che tipo di società e di democrazie vogliamo, quanto le
immaginiamo vicine all’idea di
solidarietà transnazionale implicita nella Convenzione del 1951 o
quanto, viceversa, siamo disposti a costruire muri fisici e normativi per
chiudere i nostri piccoli mondi.
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