«Con gli occhi per terra la gente prepara la guerra». Mi
è tornata in mente, quella strofa lontana, in questi giorni feroci dell’odissea
dell’Aquarius, da ieri elevata ufficialmente a sistema – con Salvini che
reitera la chiusura dei porti alle ultime navi di profughi in arrivo – in cui
tutto, ma davvero tutto, sembra perduto: la politica, l’umanità, l’elementare
senso di solidarietà, noi stessi, il nostro rispetto di noi e degli altri
cancellato da un ministro di polizia che fa della pratica disumana della
chiusura dei porti un metodo di governo… Mi è tornata in mente perché è quello
che sento nell’aria, che leggo nelle facce, negli sguardi, nei cattivi pensieri
di (quasi) tutti. Odore di guerra, e occhi a terra (lo sguardo del rancore che
promette sventura).
Alla velocità della luce, in poche mosse da parte di
giocatori cinici e spregiudicati, questione migratoria e logica bellica,
politica dei flussi e politica delle armi si sono saldate intorno alla coppia
nefasta «amico-nemico». E il confronto impari, spaventosamente asimmetrico, tra
l’Italia e quel microscopico frammento di nuda vita in balia delle onde nel
Canale di Sicilia si è saldato, come le due facce del medesimo foglio, col
confronto muscolare, «di potenza» e «tra potenze».
Con la resa dei conti tra il Governo italiano e gli altri Stati coinvolti, Malta, Francia, paesi «alleati» e paesi «ostili».
Mentre si parla sempre più spesso, e con sempre meno pudore, di azioni militari per il controllo diretto delle coste libiche come «soluzione finale» al problema dei profughi.
Con la resa dei conti tra il Governo italiano e gli altri Stati coinvolti, Malta, Francia, paesi «alleati» e paesi «ostili».
Mentre si parla sempre più spesso, e con sempre meno pudore, di azioni militari per il controllo diretto delle coste libiche come «soluzione finale» al problema dei profughi.
È BASTATO che
un rozzo capopopolo rionale o regionale come Matteo Salvini irrompesse come un
bufalo nella cabina di regia governativa di un Paese non di secondo piano in
Europa, perché questa saldatura tra demografia e geopolitica (tra «movimenti di
popolazione» e «conflitti inter-statali») si coagulasse istantaneamente. Perché
il disagio sociale virasse in nazionalismo… E nel contempo perché si rivelasse
in tutta la sua estensione e profondità lo «sfondamento antropologico»,
chiamiamolo così, o «etico-politico» consistente nella diffusa incapacità di
riconoscimento «dell’uomo per l’uomo». Nell’evaporazione di ogni pietas,
com-patimento, identificazione nel dolore altrui: le basi della socievolezza
che ha permesso la sopravvivenza della specie umana sostituita ora da un
mortifero atteggiamento di rifiuto, diffidenza, indifferenza ostile. I cattivi
sentimenti, appunto, che da sempre preparano la guerra perché dicono che la
guerra è già dentro le persone, e le ha fatte proprie.
CERTO COLPISCE, nella
via crucis dell’Aquarius – in questo spettacolo crudele messo in piedi per
ostentare, sul palcoscenico grande come il mare, la caduta catastrofica
dell’umano nel segno della «politica nuova» – la figura dell’attore
protagonista: l’uomo che dopo aver assorbito in sé tutti i ruoli di governo (le
gouvernement c’est moi) si permette di prendere in ostaggio centinaia di
bambini, donne, uomini per giocarseli sulla scacchiera politica (come strumento
di negoziazione all’esterno e di consenso all’interno) indifferente alle loro
sofferenze, lasciandoli in balia del mare, come fossero cose e non persone
(«tortura» è stata definita). Ma colpisce ancor di più – se possibile – questo
pubblico che balza in piedi ad applaudire a ogni battuta truce, a ogni
dichiarazione di disprezzo, che si emoziona per le vessazioni, l’irrisione dei
valori di solidarietà e condivisione, addirittura la messa in stato d’accusa
della solidarietà, come colpa o reato. E se si guarda quella platea dal di
fuori, non potrà sfuggire che solo in pochi, sparsi qua e là, se ne stanno a
braccia conserte, senza unirsi all’orgia. E quasi nessuno si alza per
fischiare.
PRENDIAMONE ATTO. Un
argine si è rotto, persino tra noi, di quella comunità non grande che si è
definita “sinistra”. Siamo diventati irriconoscibili a noi stessi. O meglio:
tra noi stessi. Sempre più spesso, se s’incontra un compagno con cui si è
condiviso (quasi) tutto e il discorso cade sui migranti e sul caso
dell’Aquarius, non scatta immediata, istintiva l’indignazione, ma s’incrocia
uno sguardo vacuo. Un cambiar discorso. O addirittura un moto di condivisione
della politica dei respingimenti. Una voglia di limiti. Di barriere (perché
«così non si può andare avanti»). O perché convertiti a un qualche
«neo-sovranismo», nell’illusione falsa che ripristinando i confini possa
ritornare il welfare di un tempo, le garanzie, i diritti sociali sottratti
anche da parte e per colpa di chi oggi, per lavarsi la coscienza, difende a
parole l’«apertura». O perché affascinati da quella vera e propria «troiata»
(mi si permetta il temine caro a Cesare Pavese) che è la categoria
dell’«esercito di riserva»: l’idea che i migranti siano lo strumento occulto di
un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza
negoziale dei lavoratori nostrani, ignorando che quello si chiamava, non per
nulla «esercito industriale», appartenente cioè a un’altra era geologica, prima
che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i
corpi ma col denaro. E che quella «narrativa» serve solo a giustificare la
vessazione dei più poveri tra i poveri, non certo a contrastare i più ricchi
tra i ricchi.
BASTA D’ALTRA parte
uno sguardo alla cronologia per vedere che il vero «sfondamento» della forza
del lavoro è avvenuto fin dal passaggio agli anni ’80, ben prima che
iniziassero i flussi di popolazione, e ha usato come ariete non i corpi dei
poveri ma la tecnologia dei ricchi, elettronica, informatica,
smaterializzazione del lavoro, frammentazione della componente «manuale» che
sopravviveva. Fu allora che si consumò la «sconfitta storica» del lavoro in
Occidente. E il conseguente «disallineamento» tra diritti sociali e diritti
umani, che invece il movimento operaio novecentesco, almeno da noi, aveva
saputo tenere «in asse». Da allora quelle due famiglie di diritti – questione
sociale e questione morale (o «umana») – sono andate divaricandosi sempre più,
fino a oggi, quando finiscono per contrapporsi, quasi che per stare vicino ai
nostri «proletari» occorresse respingere gli altri riconfigurati per
l’occasione come «non-proletari». Col risultato che rischiamo di avere oggi
«socialisti senza umanità» (sono quelli che stanno squassando la sinistra in
Europa, fin dal cuore della Linke tedesca) e «umanitari senza socialità» (senza
solidarietà sociale).
UNA SCISSIONE cui
si può rimediare solo con un colpo d’ala. Con la consapevolezza, da una parte,
che si possono difendere efficacemente le ragioni universali dell’umanità solo
se si dimostra di voler difendere con le unghie e con i denti la ragioni
sociali locali di chi, nel proprio territorio, è deprivato di reddito e diritti
(se si disinnesca la trappola mortale del «perché a loro sì e a me no»). E
dall’altra riuscendo a capire che mai come oggi la difesa dei migranti si salda
alla difesa della pace, perché la guerra a loro finirà per trasformarsi in
guerra tra noi.
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