martedì 31 agosto 2021

Il sorriso come atto di resistenza nella Palestina occupata - Mahmoud Soliman

 I palestinesi che vivono nella Palestina occupata hanno subito pulizia etnica e sfollamenti forzati dai loro villaggi per più di sette decenni. Tutto questo è stato perseguito attraverso demolizioni di case, restrizioni di movimento, coprifuoco, arresti e detenzioni arbitrarie, confische di terre e la negazione dell’accesso all’acqua, all’elettricità, alla salute e all’istruzione. Eppure i palestinesi hanno resistito con l’obiettivo di ricostruire le case distrutte, porre fine all’occupazione israeliana e riconquistare finalmente la loro libertà.

Nell’aprile 2021, una nuova ondata di rivolte è iniziata contro lo sfratto di 28 famiglie palestinesi (circa 500 residenti) nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Durante gli avvenimenti, alcune riprese in cui giovani palestinesi venivano picchiati e umiliati prima di essere ammanettati dai soldati israeliani sono diventate virali sui social media. Si può solo immaginare la miserabile angoscia dopo un trattamento così disumanizzante. Eppure, con sorpresa dei soldati israeliani e del mondo, i giovani detenuti palestinesi hanno risposto alle oscenità con dei bellissimi sorrisi, interrompendo l’apparato di intimidazione di Israele.

Una di queste foto ha catturato l’arresto di Meryam Afifi, una giovane donna palestinese che vive a Sheikh Jarrah. La sua famiglia è una delle 28 minacciate di sfratto. Durante un’intervista con Afifi, pochi giorni dopo il suo rilascio, ha detto:

Mi hanno arrestato mentre cercavo di proteggere il mio amico… il soldato mi ha provocato quando mi ha detto: “Ora voglio vedere cosa sai fare”. Come se mi dicesse: “Ti ho sconfitto e non puoi farci niente. Sei impotente”. In quel momento ho sorriso. In quel momento ho sentito la vittoria. Era chiaro che era stato sconfitto nel momento in cui si è infuriato. Poi, il sorriso si è diffuso tra i giovani e l’esercito ha iniziato a coprire i volti dei detenuti per impedire [ai fotografi] di catturare i loro sorrisi.

Alcuni spettatori, specialmente quelli pro-Israele, percepiscono i sorrisi dei detenuti come un’espressione di noncuranza per la loro situazione. Nulla di più sbagliato. Guardando attraverso una lente stretta la situazione dei palestinesi, questa audience non capisce il contesto in cui si svolge la vita quotidiana degli abitanti di Gerusalemme, sotto l’occupazione israeliana. I palestinesi, quindi, hanno spiegato attraverso discorsi, conversazioni e testimonianze postate sui social media che sorridere durante l’arresto può trasmettere tanti messaggi diversi ed è un potente atto di resistenza.

LA STORIA DI SHEIKH JARRAH

I membri delle 28 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono rifugiati espulsi dalle loro case nel 1948. Vivono a Sheikh Jarrah dal 1956. A quel tempo, fu fatto un accordo tra il ministero giordano dell’Edilizia e dello Sviluppo e l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA), il quale stabiliva che il governo giordano fornisse la terra mentre l’UNRWA avrebbe coperto i costi di costruzione degli alloggi. Ma il dominio giordano della Cisgiordania durò solo fino al 1967, quando Israele la conquistò. Nel 1972, due organizzazioni di coloni israeliani rivendicarono la proprietà della terra e a questo punto iniziò la battaglia delle famiglie all’interno dei tribunali penali di Israele per impedire l’espulsione dalle loro case.

Nel 2008, le autorità israeliane hanno sfrattato la prima famiglia palestinese da Sheikh Jarrah. Da allora, i residenti hanno organizzato diverse forme di resistenza nonviolenta, tra cui sit-in e azioni collettive. Nel frattempo, le autorità di occupazione israeliane hanno iniziato a intensificare il processo di annessione delle terre e la costruzione di insediamenti in tutta la parte occupata della Palestina. Nell’aprile 2021, Israele ha costruito, in una sola settimana, un insediamento composto da più di 20 unità abitative per 50 famiglie di coloni nel villaggio di Beita, a sud della città di Nablus. Con il sostegno di molti attivisti, i residenti di Beita hanno organizzato una campagna di resistenza continua per riprendersi la loro terra. Nello stesso periodo, Israele ha intensificato le demolizioni di case e i furti nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est, e anche in quella occasione i residenti hanno condotto una campagna di resistenza.

Le azioni di Israele hanno rafforzato la mobilitazione dei palestinesi a Gerusalemme e altrove nella Palestina storica. I palestinesi interpretano lo sfratto delle famiglie come un ulteriore atto di pulizia etnica che perpetua la loro Nakba (catastrofe), e le proteste si sono diffuse nella città vecchia di Gerusalemme, in Cisgiordania e nella stessa Israele, coinvolgendo decine di migliaia di palestinesi.

Le forze di occupazione israeliane hanno brutalmente soppresso queste proteste non violente. Per reprimere i manifestanti e privare i palestinesi del loro spirito di resistenza, le campagne di detenzione sono tra gli strumenti più efficaci. Durante il mese di Ramadan, le forze di occupazione israeliane hanno arrestato più di 400 partecipanti per impedire loro di organizzare proteste e sit-in nelle piazze della Città Vecchia di Gerusalemme, come la piazza della Porta di Damasco.

GIOVANI SOTTO OCCUPAZIONE

I giovani palestinesi di oggi sono nati sotto l’occupazione israeliana. Hanno vissuto sulla loro pelle la quotidiana oppressione sistematica e le discriminazioni. Hanno costruito le loro case, e, se vogliono trasferirsi, sono obbligati dalle autorità israeliane a demolirle, altrimenti sono costretti a pagare il governo israeliano quando Israele le demolisce con la forza. Sono cresciuti agli arresti domiciliari; da bambini, all’età inferiore di 12 anni, non avevano il permesso di andare a scuola e rischiavano l’arresto se ci provavano. La quotidianità degli abitanti di Gerusalemme è difficile, anche solo da immaginare, per chi non la vive.

Lo spirito della gioventù di Gerusalemme può essere riassunto dalle parole di un palestinese di mezza età che, frapponendosi tra un soldato israeliano e un giovane, si è rivolto al primo: “Senti, tu non conosci la gioventù di Gerusalemme, forse vieni da un’altra città per servire qui. Qui, ai giovani non importa se li arrestate. Rideranno se li arrestate. Ti consiglio di lasciare la città e di non provocare”.

Per incoraggiare la mobilitazione locale, nazionale e internazionale ed elevare la copertura mediatica della loro lotta, i giovani palestinesi stanno usando una serie di tattiche creative. Sorridere è una tattica creativa che trasferisce il potere dall’oppressore all’oppresso in modi che il primo non può semplicemente ignorare. Sorridere aumenta l’efficacia di qualsiasi rifiuto di cooperare con le autorità di occupazione israeliane e sostiene azioni positive che aiutano a costruire alternative. Come mi ha spiegato un giovane detenuto: “L’esercito vuole farci sentire soli e colpevoli. Sorridendo sfidiamo l’esercito, e questa è resistenza”.

Sorridere durante un arresto è dimostrazione di grande coraggio. Lo scopo della detenzione è quello di spaventare i partecipanti, punirli per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni o nei sit-in e impedire loro di prendere parte a qualsiasi nuova protesta. In passato, si diceva ai detenuti: “Non preoccupatevi, siate forti”. Ma in quest’ultima rivolta, ai detenuti viene ricordato di sorridere. Incoraggiandoli a sorridere, viene detto a chi è affranto dal terrore e dal dolore, “Non abbiate paura”. Pertanto, il sorriso è diventato una nuova norma per i detenuti; e viene ricordato a tutti coloro che se ne dimenticano, facendo in modo che impavidità e coraggio diventino collettivi.

Il sorriso rientra nella cultura della resistenza degli abitanti di Sheikh Jarrah, dove l’occupazione e la repressione dei coloni ha reso la vita quotidiana insostenibile. Come ha spiegato Mariam Afifi ai giornalisti: “Ho sorriso mentre ero in arresto per mostrare all’esercito che non ho paura e non sono stata sconfitta, nonostante l’oppressione usata contro di me. Quando sorridiamo l’esercito si imprigiona e noi ribaltiamo l’equilibrio del potere”.

Come residente in Cisgiordania, io stesso sono stato detenuto molte volte ma non sono mai riuscito a sorridere. Sorridere durante la detenzione richiede un coraggio e una forza interiore grande quanto la gioventù di Gerusalemme. Esprime l’importante messaggio che gli attivisti non hanno paura e che la detenzione non è riuscita a intimidirli.

CAMBIARE L’IMMAGINE DEI DETENUTI PALESTINESI

Sorridere durante il momento dell’arresto trasmette vari messaggi – uno specificamente diretto ai media. Gli attivisti stanno cercando di cambiare l’immagine che spesso ritrae i palestinesi con volti abbattuti e occhi bassi. Sebbene i media locali palestinesi mostrano frequentemente la brutalità dell’occupazione israeliana e l’illegalità delle sue politiche, questo tipo di raffigurazione perpetua il ruolo dei palestinesi come vittime. Nel frattempo, i media israeliani ignorano la resistenza nonviolenta palestinese e rappresentano i palestinesi come violenti, al fine di prevenire il tipo di solidarietà israeliana che si è verificata durante la Prima Intifada. I media mainstream internazionali generalmente ignorano l’oppressione israeliana e rappresentano i palestinesi come persone violente, povere e arrabbiate.

Smiling ha sfidato queste rappresentazioni nei media locali, israeliani e internazionali, plasmando una nuova immagine della gioventù palestinese e creando un cambiamento nell’opinione internazionale e israeliana. Due giovani palestinesi di Sheikh Jarrah, i gemelli Mohammed e Muna El Kurd, sono stati intervistati molte volte dai media mainstream occidentali, come CNN e BBC.

La preoccupazione per il fenomeno del sorriso sta crescendo tra le forze di occupazione israeliane. Molti attivisti sono stati interrogati dopo aver sorriso mentre venivano arrestati. La preoccupazione di Israele è di mantenere la sua immagine nel mondo come un paese potente con uno dei più forti eserciti del Medio Oriente.

Sorridere trasmette anche un messaggio alle famiglie di Sheikh Jarrah che i detenuti stanno bene. Le politiche coloniali israeliane hanno a lungo cercato di smantellare l’identità collettiva e l’indigenità degli abitanti di Gerusalemme, frammentando e isolando il popolo attraverso posti di blocco, restrizioni e piazzando nuovi coloni a Sheikh Jarrah che attaccano le famiglie palestinesi locali. Ogni palestinese deve avere un telefono cellulare per rimanere in contatto con le proprie famiglie perché una volta lasciata casa si rischia di non tornarci più. I genitori sono sempre preoccupati per i loro figli, anche quando vanno a scuola.

Quando le forze israeliane arrestano un giovane, lo isolano e gli impediscono di contattare la sua famiglia, con lo scopo di aumentare la paura dei familiari su ciò che gli accadrà. Quando avevo 18 anni e sono stato arrestato per la prima volta, mio padre ha dormito tre notti davanti alla prigione, aspettando di vedere qualsiasi prigioniero rilasciato per chiedere loro se mi avevano visto o sentito parlare di me. I primi momenti dell’arresto sono i più difficili per la famiglia, perché la vita dei detenuti è incerta. Come spiega un giovane: “[Sorridere] era un messaggio per la mia famiglia: sto bene e sono forte. Quando sono stato detenuto e ho visto tutti gli attivisti che mi guardavano, ho pensato che il modo migliore per comunicare con loro e per dire loro che sto bene è sorridere, perché sapevo che i soldati mi avrebbero picchiato se avessi parlato”.

I residenti di Sheikh Jarrah si conoscono da decenni. Hanno forti legami sociali e ogni sera si riuniscono nei cortili per mangiare insieme. Il sorriso rappresenta la solidarietà che li unisce e li fa sentire protetti.

L’AMORE PER LA VITA E LA LOTTA PER LA LIBERAZIONE

Il sorriso è di solito un’espressione di felicità, un modo per le persone di trasmettere la loro gioia in un preciso momento. Ma in tempi difficili, sorridere è anche un modo potente per trasmettere messaggi contraddittori. I detenuti palestinesi di Gerusalemme hanno trasformato il sorriso in un atto di resistenza. In queste situazioni, ci si aspetta che i detenuti siano confusi, spaventati e tristi. Eppure, loro sono capaci di preservare il loro orgoglio anche nei momenti più bui.

A volte un sorriso da solo può ottenere una vittoria. I sorrisi degli attivisti palestinesi distruggono l’immagine dell’occupazione e scuotono i suoi agenti dall’interno. Questo spiega perché l’esercito di occupazione israeliano cerca di coprire i loro volti in modo che i loro sorrisi non incoraggino gli altri o siano catturati dalle telecamere. Come ha riassunto un attivista durante un incontro:

“Il mio sorriso era una risposta e una presa in giro del mio arresto… Quando siamo afflitti dal dolore, come esseri umani dovremmo piangere e questo è un segno di sconfitta di fronte ai soldati israeliani. Ma quello che facciamo noi è esattamente il contrario. Voi mirate a spezzarci, ma noi ci facciamo beffe del vostro sistema, tanto da farlo apparire inutile, inefficace… e i soldati che trascinano una persona sorridente sembrano così stupidi.”

Il governo israeliano ha mantenuto la sua supremazia militare dotando il suo esercito di armi moderne, comprese le armi di distruzione di massa. Ma la sua supremazia militare non è in grado di contrastare il sorriso della resistenza e della speranza. Come mi ha detto un altro attivista: “Il nostro sorriso batte la loro brutalità”.

Molti gruppi che non conoscono questo contesto storico e la cultura palestinese pensano che i palestinesi debbano essere arrabbiati – come se la felicità non fosse pensata per i palestinesi e ciò che si adatta ai popoli oppressi è la rabbia e la tristezza. L’ho sperimentato quando degli internazionali hanno visitato il mio villaggio e hanno partecipato alle nostre manifestazioni contro il muro di separazione. Alcuni di loro hanno iniziato a piangere di fronte alla violenza dei soldati israeliani; altri si sono subito arrabbiati e hanno iniziato a urlare contro i soldati. Sono stati ispirati dal modo in cui i palestinesi amano la vita e rubano un sorriso in mezzo al buio.

Questa passione per la vita e la speranza per il futuro si riflette nella letteratura palestinese, ad esempio nella poesia di Mahmoud Darwish:

Amiamo la vita ogni volta che possiamo.
Rubiamo un filo da un baco da seta per tessere un cielo e un recinto per il nostro viaggio.

Nei sorrisi dei giovani di Sheihk Jarrah si riflette una visione felice per il futuro della generazione palestinese che ama la vita e lotta per la propria liberazione. I loro sorrisi rappresentano il fallimento dell’occupazione.

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Manifesto per la nuova scuola

 

Manifesto per la nuova scuola

1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale

La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano – intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea – tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.

L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.

2) Per una scuola della conoscenza

Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione – a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione – gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.

3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini

Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni – al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica – e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.

In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale – che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi – sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici, fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza  e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.                        

4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni

Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva – insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori – e non con i rappresentanti di associazioni private – Fondazione Agnelli, Treelle, Anp – che rappresentano e perseguono appunto interessi privati. 

5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti

 La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari, – solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline – la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.

6) Restituire centralità all’ora di lezione

Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento – e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” – sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residualeSe davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento: 

– via  gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe; 

– via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità; 

– via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;

– via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla; 

– via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia,  della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica…non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre; 

– via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:

7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”

L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, – “organo  costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei – in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista  della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.

8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti

Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata – richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo – e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.

C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.

https://www.change.org/p/manifesto-per-la-nuova-scuola

https://nostrascuola186054220.wordpress.com/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/



Appello per creare dal basso e collegialmente una nuova scuola per un futuro inedito - Davide Viero

Si vuole qui fare un appello in vista dell’inizio dell’anno scolastico; un tempo in cui si definiscono le linee programmatiche per l’intero anno.

È un appello rivolto a insegnanti e genitori affinché facciano sentire la propria voce negli organi collegiali, che formalmente hanno voce in molte questioni fondamentali riguardanti la scuola. Ora come ora questi organi sono svuotati di senso nella loro funzione meramente ratificante. Si tratta di ridare sostanza e vita alla loro ormai vuota forma.

Oggi vediamo la scuola destinataria di una miriade di atti normativi e legislativi con circolari, note ministeriali che ne stanno ridefinendo il ruolo: non più quello di emancipare in vista del compimento soggettivo di ognuno attraverso il sapere e la cultura affrontati rigorosamente e con passione, bensì quello di attagliare, conformare ed adattare le soggettività degli uomini di domani al canone dominante di oggi, così che questi stessi uomini lo implementino senza mai metterlo in discussione. L’uniformazione del soggetto nella sua totale inconsapevolezza è la cambiale per avere i benefici pre-disposti da altri.

Nel versante interno alla scuola, l’artificio con cui si ottiene il cambiamento istituzionale è l’atomizzazione dei suoi elementi costitutivi e il conseguente smarrimento dell’identità. Con l’autonomia scolastica il centro è diventato l’esterno a cui conformarsi attraverso la concorrenza. Il dirigente non è più un primus inter pares, ma un imprenditore che tratta gli insegnanti da suoi operai invece di stare dalla parte di allievi ed insegnanti per il bene dei primi. Il tutto in una crescente burocratizzazione verticista che sta lentamente soppiantando la sfera umana e collegiale e che dovrebbe portare a chiedersi quale sia il fine stesso dell’organizzazione perseguita strenuamente dai dirigenti e dagli uffici territoriali; un fine che sembra assolutamente autoreferenziale.

Questa ricercata disgregazione ha frammentato l’identità della scuola rendendola plastica e malleabile rispetto alle esigenze ad essa eterogenee della sfera economica, la quale ha colonizzato la scuola con i suoi principi della concorrenza, della meritocrazia, della misurabilità e del raggiungimento di obiettivi sempre più precisi ma allo stesso insignificanti per gli uomini che la popolano. Un’insignificanza che allontana passione ed interesse profondi, sostituiti dai belletti del successo, da una competizione e da una distribuzione di identità preconfezionate (per docenti ed alunni) che fanno strame della sfera umana nel suo mutevole darsi e costruirsi. Una scuola che deve essere una efficiente emanazione della sfera economica nella precisa conformazione di stampo mercantilistico-finanziario. Un modello che, è bene ricordare, non estende i suoi benefici a tutti ma, al netto della retorica inclusiva, oramai elemento della concorrenza stessa, produce innumerevoli scarti che sono sotto gli occhi di tutti. Perché se tutto diviene una competizione, per uno che vince ci sarà una schiera di perdenti. Che resteranno tali anche al netto delle stesse politiche “inclusive”: scarti passati di mano in mano come tali per estrarre l’ultima stilla di valore e non destinatari di amorevole attenzione. Una scuola serva di questo nuovo padrone e indifferente verso gli uomini a cui essa si rivolge.

Questo appello vuole essere una chiamata ad agire contro questa forma che si sta imponendo a macchia d’olio, proprio a partire dagli organi collegiali: Collegio docenti e Consiglio di istituto.

I temi sui quali agire nelle riunioni degli organi collegiali sono molteplici. Vediamone alcuni.

– L’orario delle lezioni, con la cosiddetta settimana corta che ormai è generalizzata. Sappiamo che il lavoro intellettuale non è assimilabile a quello di fabbrica e che concentrando le ore su meno giorni non è possibile accrescere l’efficacia. Questo perché la sfera culturale abbisogna di tempi brevi e costanti: solo questi infatti permettono al sapere di lasciare traccia interiore nel soggetto. Altrimenti con le molte ore giornaliere il fare diventa compilativo, esecutivo e meccanico, conformando su tale canone le generazioni future.

– Insegnanti come oggetti e non soggetti di formazione. Ricordiamo che un insegnante, se vuole insegnare, deve essere autonomo perché riceve linfa vitale tanto dagli alunni quanto dai saperi con cui si confronta; sono queste le fonti di un rinnovamento continuo e non eteronomo. Ora purtroppo si sta affermando una figura di insegnante vuoto e sempre in attesa di istruzioni; un insegnante inteso come facilitatore, esecutore di ordini di altri che di volta in volta gli dicono cosa deve essere fatto, non apertamente, ma attraverso l’imposizione del come. Un fare oggi improntato su una concezione di stampo economicista.

– Le figure organizzative e le commissioni nei singoli istituti. Figure e commissioni che sono corpi estranei rispetto all’attività educativa dal momento che sono afferenti alla sfera organizzativa. Una sfera che diventa sempre più complicata e necessaria a causa della frammentazione e dell’iperspecializzazione. Senza più il controllo dell’intero processo da parte del singolo, scrive S. Weil, sale alla ribalta la burocrazia come forma di controllo del generale. Ma più che aggiungere figure organizzative, nella scuola è giunto il momento di semplificare. Il docente e i suoi alunni. E l’universalità in questa relazione mediata dalla cultura. Il resto è in più.

– Rifiutare tutta la gran messe di progetti e interferenze del territorio sulla scuola. Tutte iniziative che sono la conseguenza dell’universalità che è stata espunta a seguito della specializzazione e dell’oggettivazione. Un’universalità che però ritorna a bussare, da fuori, sotto forma di millanta iniziative, dallo yoga all’educazione finanziaria e altre amenità; tutti sintomi di come la scuola ridotta al punto e all’attimo si senta debole e sperduta e per farsi forte e di nuovo universale accolga queste “universalità” di volta in volta, come la somma dei numeri naturali anziché affidarsi al simbolo dell’infinito. Che dovrebbe essere la porta in comunicazione con qualunque contenuto culturale affrontato a scuola. Perché l’universalità va coltivata nell’ora di lezione e in ogni contenuto, non attesa dall’esterno dopo che la si è rifiutata aprendo la porta all’iperspecialismo.

– L’esproprio della valutazione. Con l’INVALSI a guidare le procedure valutative, si sta costruendo una valutazione per test su modelli eteronomi che, come scrive lo storico Mauro Boarelli, sono di matrice economicista. Test che misurano l’interiorizzazione di stereotipie da applicare come psitacismi nelle condizioni date. La metrica di tutto deve essere sostituita dallo sguardo attento e preciso dell’insegnante, che non può essere espropriato del giudizio relativo all’alunno, oggi ridotto a poche frasi preconfezionate da scegliere da un elenco predisposto.

– I curricula verticali, che vengono affrontati nella direzione sbagliata. Perché invece che essere i gradi-scuola successivi a tenere conto delle basi costruite precedentemente, sono i gradi inferiori che si attagliano su ciò che verrà richiesto poi e lo anticipano senza dare prima le basi delle discipline; creando una scuola che non istruisce perché si accontenta di offrire vacue formule. Che solo pochi comprendono e una gran massa esegue dimenticandole poco dopo.

Tutto ciò va contrastato negli organi collegiali, che devono riappropriarsi delle questioni con la consapevolezza del proprio ruolo e attraverso deliberazioni collegiali e non ratificative. Importante a tal proposito è richiedere il rispetto della normativa e della legge che, molte volte non essendo ancora state riformate, possono fungere da solide barriere alla deriva scolastica.

Se noi insegnanti e genitori abbiamo questa consapevolezza, votando per il bene dei nostri alunni e figli e rifiutando incarichi in contrasto a ciò, sicuramente saremo sulla via per una scuola umana attraverso la cultura. Che è libertà nella rigorosità attenta all’universale.

Iniziare a contrastare con altre proposte tutti i punti citati. Sarebbe un ottimo inizio di anno. Per una nuova scuola.

da qui

 

Gli Usa sono il Paese più terrorista del mondo

La definizione di terrorismo per la Treccani è la seguente: “L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine”.


Introduzione

Seguendo la definizione  citata proverò a dimostrare che gli Stati Uniti d’America sono il Paese più terrorista della storia (va da sé che quando si parla di Usa si intende chi detiene il potere, non i singoli abitanti).

 

En passant ricordiamo che un Paese considerato moderno, civile e occidentale, Israele, ha come elemento fondativo del suo Stato il terrorismo (leggi, per esempio, qui: https://comedonchisciotte.org/i-massacri-del-terrorismo-sionista-che-fondarono-israele/ e qui  http://www.bocchescucite.org/il-patrimonio-terrorista-del-sionismo-di-bradley-burston/); e non sarà un caso che Usa e Israele sono alleati d’acciaio (o di piombo), e che chi non è d’accordo con le politiche di quei governi siano apostrofati non come oppositori, ma come antisemiti o antiamericani.

 

Gli Stati Uniti d’America, che spesso si autoproclamano antagonisti dei fondamentalisti nel mondo, sono attraversati al loro interno da fondamentalismi, come quello cristiano, a partire dal XIX secolo (vedi https://www.uaar.it/libri/fondamentalismo-cristiano-negli-stati-uniti-d-america/); dal che si deduce che la realtà è che gli Usa combattono i fondamentalismi diversi dai loro.

 

 

1 – Il terrorismo verso i nativi americani



I primi a subire il terrorismo degli Usa sono stati i nativi americani, quasi completamente sterminati (vedi anche il libro di Giorgio Stern  https://www.labottegadelbarbieri.org/tribu-indiane-capitale-proletari-nella-storia-del-nord-america-giorgio-stern/)

Molti sono stati costretti in riserve, con alcool e case da gioco; fra i rimasti, quelli dell’American Indian Movement la stanno pagando cara, la storia di Leonard Peltier dice tutto (https://www.conoscenzealconfine.it/leonard-peltier-da-40-anni-in-prigione-lindiano-damerica-che-difendeva-il-suo-popolo/  e  https://www.pressenza.com/it/2021/08/leonard-peltier-il-presidente-del-parlamento-europeo-chiede-la-sua-liberazione/ )

Gli Usa, nei confronti dei nativi, hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne l’ordine, cioè sono stati  terroristi.

A proposito vi ricordate cosa accadde durante la premiazione degli Oscar del 1973, quando Marlon Brando aveva vinto per la sua interpretazione ne “Il Padrino” ? (nota 1)

 

 

2 – Il terrorismo verso gli schiavi neri

 

    


(ecco tre avvisi/taglie per recuperare i neri  e le nere schiave fuggiti dalle piantagioni, certe volte il ricompensa era dead or alive, si pagava anche se moriva, un avvertimento per gli altri)

Visto che i nativi erano indisponibili a fare gli schiavi, i territori che facevano parte e avrebbero fatto parte degli Stati Uniti d’America iniziarono a (im)portare dall’Africa milioni di neri e comprarli come fossero bestie, venduti in aste e in catene, per usarli come schiavi.

Segnalo alcuni libri e un film per ricordare o sapere cosa significa(va) la schiavitù.

https://stanlec.blogspot.com/2021/06/amatissima-toni-morrison.html

https://www.labottegadelbarbieri.org/12-anni-schiavo-steve-mcqueen/

https://stanlec.blogspot.com/2018/09/la-ferrovia-sotterranea-colson-whitehead.html

https://stanlec.blogspot.com/2017/02/un-conto-ancora-aperto-quanto-valgono.html


Gli Usa, nei confronti dei neri schiavi, hanno usato violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività, gli schiavi, che per le loro leggi dell’epoca era una razza inferiore, cioè sono stati terroristi.

 

 

I primi a subire il terrorismo degli Usa sono stati i nativi americani, quasi completamente sterminati (vedi anche il libro di Giorgio Stern  https://www.labottegadelbarbieri.org/tribu-indiane-capitale-proletari-nella-storia-del-nord-america-giorgio-stern/)

Molti sono stati costretti in riserve, con alcool e case da gioco; fra i rimasti, quelli dell’American Indian Movement la stanno pagando cara, la storia di Leonard Peltier dice tutto (https://www.conoscenzealconfine.it/leonard-peltier-da-40-anni-in-prigione-lindiano-damerica-che-difendeva-il-suo-popolo/  e  https://www.pressenza.com/it/2021/08/leonard-peltier-il-presidente-del-parlamento-europeo-chiede-la-sua-liberazione/ )

Gli Usa, nei confronti dei nativi, hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne l’ordine, cioè sono stati  terroristi.

A proposito vi ricordate cosa accadde durante la premiazione degli Oscar del 1973, quando Marlon Brando aveva vinto per la sua interpretazione ne “Il Padrino” ? (nota 1)

 

  

 

3 – Il terrorismo verso gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki

 

http://www.ossin.org/rubriche/19-inchieste/1811-cinque-domande-per-capire-la-verita-sugli-attacchi-terroristi-contro-hiroshima-e-nagasaki

https://it.wikipedia.org/wiki/Bombardamenti_atomici_di_Hiroshima_e_Nagasaki


Nei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki gli Usa hanno usato violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne l’ordine, cioè sono stati terroristi.

 

 

4 – Il terrorismo verso Stati sovrani

Gli Usa – tramite le forze armate e la CIA – è intervenuto in Iran, nel 1953, in Indonesia, nel 1965, in Ghana, nel 1966, Corea 1950-53, Vietnam 1953-75, Repubblica Domenicana 1965, Grenada 1983, Libia 1986, Panama 1989-1990, Iraq 1990-1991, Somalia 1992-1994, Haiti 1994, Bosnia 1995, Kosovo 1999, Afghanistan 2001-2021 (?), Yemen 2002-2010, Iraq 2003-2011, Libia 2011, Siria 2014-2015   (un elenco parziale, a puro titolo di esempio; pensateci e aggiungete voi Cile, Guatemala e…)

Dunque gli Usa hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne l’ordine, cioè sono stati, e sono, terroristi.

per ricordarlo:

https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Ajax

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-memoria_i_colpi_di_stato_appoggiati_dagli_stati_uniti_in_america_latina_dal_1948_ad_oggi/82_27279/

https://www.agoravox.it/Golpe-tutti-i-paesi-rovesciati-da.html

https://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/il-genocidio-indonesiano-del-1965/

http://aurorasito.altervista.org/?p=15533   colpo di Stato in Ghana, nel 1966, contro il dottor Kwame Nkrumah

https://www.agoravox.it/Golpe-tutti-i-paesi-rovesciati-da.html

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-memoria_i_colpi_di_stato_appoggiati_dagli_stati_uniti_in_america_latina_dal_1948_ad_oggi/82_27279/

https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Condor

Se qualcuno si chiede come mai l’Africa è troppo spesso un disastro politico, economico, civile, culturale, militare basterebbe vedere le politiche palesi, e occulte degli Usa, e degli Stati europei (Francia e Belgio in primis), in ogni parte del continente africano.

Qualcuno potrebbe anche chiedersi se i Paesi non allineati – Indonesia, Jugoslavia, Egitto – abbiano pagato quel non essere allineati: la risposta è sì, chissà se gli Usa hanno avuto qualche ruolo. Per esempio in Indonesia ci fu (almeno) un milione di morti ammazzati, dopo il colpo di stato del 1965-66 (leggi qui)

 

 

5 – Il terrorismo verso le persone nere, fino ad oggi

 

dopo la formale eliminazione della schiavitù, dopo la guerra “di secessione”, i neri sono sempre stati trattati da persone di serie B, anzi di serie Z.

nel 1955 essere nero, soprattutto negli Stati del Sud era molto pericoloso: la storia di Emmett Till lo ricorda ancora: https://www.labottegadelbarbieri.org/63150-2/

almeno un paio di film e un libro per ricordarlo:

https://www.labottegadelbarbieri.org/13th-xiii-emendamento-ava-duvernay/

https://www.labottegadelbarbieri.org/selma-la-strada-per-la-liberta-ava-duvernay/

https://www.labottegadelbarbieri.org/tra-me-e-il-mondo-ta-nehisi-coates/

se non bastassero le statistiche (https://www.giornalettismo.com/violenza-polizia-usa-neri-statistiche/) potreste chiedere, ad esempio, ad Adam ToledoSandra Bland e Tamir Rice–  se fossero vivi – come mai i neri (tutti) hanno terrore della polizia.

 

Gli Usa, hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività (i non bianchi) cioè sono stati, e sono, terroristi

 

 

 

5 – Il terrorismo verso le Pantere Nere, Martin Luther King, Malcolm X, ecc. ecc.

 

E come il potere Usa si è comportato con le Pantere nere?

leggete il programma delle Pantere Nere, oggi diremmo che è un programma quasi socialdemocratico (ma gli Usa aborriscono le parole che iniziano con social…)

https://stanlec.blogspot.com/2017/05/10-punti.html

https://www.labottegadelbarbieri.org/15-ottobre-1966-le-pantere-nere/

un grandissimo e giovanissimo leader, Fred Hampton, fu ammazzato nel sonno dai militari Usa, senza regolare processo.

http://www.misteriditalia.it/terrorismo-internazionale/usa-nemicointerno/integralismo-nero/bpp/PANTERENERE(Uccidetelepanterenere).pdf

 

e avete mai saputo perché i neri hanno  cognomi da bianchi? (nota 2)

 

Gli Usa, hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività (gli afroamericani) cioè sono stati, e sono, terroristi.

 

 

6 – Colpisci e terrorizza

 

Shock_and_awe (colpisci e terrorizza) è da molti, troppi, anni la strategia degli Usa nel mondo.







Gli Usa, hanno usato, e continuano ad usare, violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di molte collettività (nel medio Oriente soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan) cioè sono stati, e sono, terroristi.

 

Perchè Julian Assange è il nemico pubblico numero 1 degli Usa (ma anche Edward Snowdwn, fra quelli che ancora sono vivi)?

Il motivo è semplice. Nella fiaba I vestiti nuovi dell’Imperatore Hans Christian Andersen racconta di un bambino che ha il coraggio di esclamare a voce alta che l’imperatore, è nudo. Assange ha raccontato e documentato che gli Usa sono terroristi e questo è intollerabile per l’Impero.

Che crepino in cella, Assange come Peltier, di solitudine e pazzia.

 

 

7 – Come mai il paese più terrorista del mondo viene percepito come un paese tranquillo e buono, un paese che ha sempre ragione?

Dopo la forza delle armi, c’è un’altra risposta:

Hollywood e la diffusione nel mondo della bellezza dell’american way of life.

 

Il cinema ha colonizzato le menti degli spettatori ignoranti dei fatti (quasi tutti), a partire da “Nascita di una nazione”, di D.W. Griffith, del 1915 (il Ku Klux Klan trasse nuova linfa dal film), passando per tutti i film di cowboys e indiani, e sulla frontiera (gli indiani, i nativi, erano, e sono, pessimi, i coloni brave persone; se ci pensate è la narrazione israeliana, uguale, i palestinesi, i nativi, erano, e sono, pessimi, i coloni brave persone).

Chi non ha visto un film nel quale gli indiani sono delle pessime persone?

Ma a partire dagli anni ’60 e sopratutto ’70 gli indiani iniziano a venire rappresentati anche in modo diverso, vi ricordate “Piccolo grande uomo”?

Anche la guerra in Vietnam non fece bella figura al cinema, per colpa di qualche regista indipendente e coraggioso.

Vorrei dire invece di Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow, del 2012 (criticato dalla CIA, leggi qui). Ammesso, e non concesso (vedi qui), che Bin Laden fosse ancora vivo nel 2011, il fatto che per ammazzarlo, in Pakistan (che fosse lui o un suo sostituto adesso non è importante) sia stata sufficiente un’operazione di intelligence, con elicotteri e marines, chi vede il film avrà la dimostrazione che l’invasione dell’Afghanistan, la guerra e il “ritorno al futuro” dei talebani siano stati totalmente inutili, dannosi, e non necessari. con centinaia di migliaia di morti in mezzo, se, come adesso dicono, Biden per primo, il loro obiettivo, degli Usa (e anche dei loro alleati, vogliamo pensare), era Bin Laden, non la costruzione di una nazione libera e democratica.

Quando alla CIA non piace un film è un buon segno, per quel film.

 

 

8 – C’è una via d’uscita al terrorismo?

la risposta è no, fino a che i governi occidentali non cominceranno a rifiutarsi di essere complici del terrorismo Usa, e quindi la risposta è no.

 


 

(nota 1)

Littlefeather (non) riceve l’Oscar per Marlon Brando, nel 1973:




Il discorso scritto da Marlon Brando, per la serata cerimoniale degli Oscar (1973)

Per 200 anni abbiamo detto alle popolazioni indiane, che combattono per la loro terra, la loro vita, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: “abbassate le vostre armi, amici miei, e allora noi resteremo insieme. Solo se abbasserete le vostre armi, amici miei, allora noi potremo parlare di pace e giungere ad un accordo che sarà buono per voi.“

Quando loro abbassarono le armi, noi li abbiamo sterminati. Gli abbiamo mentito. Li abbiamo traditi e gli abbiamo rubato le loro terre. Li abbiamo fatti morire di fame fino a fargli firmare accordi fraudolenti, che noi chiamiamo trattati, che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita da sempre. E da qualsiasi interpretazione si dia della storia, per quanto contorta, non abbiamo agito in modo giusto. Non siano stati né rispettosi né giusti: abbiamo attaccato i loro diritti, abbiamo preso tutto quello che possedevano, abbiamo preso le loro vite quando loro stavano cercando di difendere le loro terre e la loro libertà, abbiamo trasformato le loro virtù in crimini e i nostri vizi in virtù.

Ma c’è una cosa che è supera la portata di questa perversità, ed è il tremendo verdetto della storia. E la storia certamente ci giudicherà. Ma a noi interessa? Che tipo di schizofrenia morale è quella che ci consente di gridare all’apice della nostra voce nazionale affinché tutto il mondo possa sentire che siamo all’altezza del nostro impegno, quando ogni pagina della storia e quando tutti i giorni e le notti assetate, affamate, umilianti degli ultimi 100 anni nelle vite degli Indiani Americani, contraddicono quella voce?

Sembra che il rispetto per i principi e l’amore per il vicino diventino disfunzionali in questo nostro paese, e che tutto quello che abbiamo fatto, tutto quello che siano riusciti ad ottenere con il nostro potere, sta semplicemente annientando le speranze dei paesi neonati in questo mondo, così come amici e nemici, che non siamo umani e che non rispettiamo i nostri accordi.

Forse in questo momento stai dicendo a te stesso “ma che diavolo ha a che fare tutto questo con gli Academy Awards? Perché questa donna se ne sta qui, in piedi, a rovinare la nostra serata, a invadere le nostre vite con cose che non ci riguardano e che non ci interessano, a sprecare il nostro tempo e i nostri soldi e intromettendosi nelle nostre case?”

Io penso che la risposta a queste tacite domande sia che la comunità cinematografica è stata altrettanto responsabile nella degradazione degli Indiani, facendo beffa delle loro caratteristiche, descrivendoli come selvaggi ostili e malvagi. È già abbastanza dura per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini Indiani guardano la televisione e guardano i film, quando loro vedono la loro comunità raffigurata come lo è nei film, le loro menti vengono ferite in modi che non possiamo minimamente comprendere.

Recentemente ci sono stati alcuni passi esitanti in avanti nel cercare di correggere la situazione, ma sono troppo incerti e troppo pochi, quindi io, come membro di questa professione e come cittadino degli Stati Uniti, non me la sento di accettare un premio, qui, stanotte. Io penso che i premi, in questo paese e in questi tempi, siano inappropriati e non debbano essere ricevuti o donati, finché le condizioni degli Indiani d’America non siano cambiate drasticamente. “Se non siamo il custode di nostro fratello, almeno non facciamo il carnefice.”

Stasera sarei venuto qui a parlarvi direttamente, ma sentivo che forse avrei potuto essere di maggior utilità se fossi andato a Wounded Knee per aiutare a impedire, in qualunque modo possibile, la creazione di una pace che sarebbe disonorevole “fino a quando i fiumi scorreranno e l’erba crescerà” (citazione del Trattato di Fort Laramie del 1951).

Spero che quelli che stanno ascoltando non considerino questo come una maleducata intrusione, ma piuttosto come uno sforzo serio per focalizzare l’attenzione su una questione che potrebbe benissimo determinare se questo paese abbia o meno il diritto di dire, da questo momento in avanti, che crediamo nei diritti inalienabili di tutte le persone di rimanere libere e indipendenti su terre che hanno sostenuto la loro vita da quando se ne ha memoria.

Grazie per la vostra generosità e cortesia verso Miss Littlefeather. Grazie a tutti e buonanotte.

http://www.me-dia-re.it/quando-marlon-brando-rifiuto-loscar-perche-non-siamo-umani/

 

(NOTA 2) Malcolm X lo spiega bene, perché il suo cognome è X, e anche Cassius Clay ha cambiato il suo nome in Muhammed Alì.

Ironia della sorte, Denzel Washington, che interpreta Malcolm X in un gran bel film, ha un cognome che magari è lo stesso del proprietario di schiavi di nome George Washington, che ne possedeva 124 alla sua morte (https://it.wikipedia.org/wiki/George_Washington_e_la_schiavit%C3%B9),

infatti i cognomi di tutti i neri di oggi sono quelli dei padroni dei loro antenati schiavi, una sorta di marchiatura.