Interessanti
le interviste realizzate da “BACK TO THE G8” con diversi protagonisti dell’esperienza di
lotta nonviolenta al G8 di Genova 2001.
In
particolare, quella con Carlo Schenone, che fino all’inizio delle giornate
promosse dal Genova Social Forum è stato coordinatore dei gruppi di
azione diretta nonviolenta che si stavano preparando per affrontare
l’evento.
Dall’intervista
emerge che già dal gennaio 2001 era iniziata la preparazione
(training) attraverso simulazioni di quello che
sarebbe potuto succedere (e che poi è successo). L’obiettivo era di fare
‘vivere’ attraverso queste simulazioni le situazioni che si sarebbero potuto
incontrare.
Due erano le
principali tematiche che sono state oggetto della
formazione-preparazione:
- gestire situazioni di tensione
e scontri;
- utilizzare processi
decisionali (partecipati, consensuali).
Durante i
giorni di mobilitazione promossi dal Genova Social Forum c’è stato un
grosso successo, (oscurato dai media), il BLOCCO
REALE del varco di piazza Portello, dove
- non ci sono stati scontri con
le forze dell’ordine;
- i manifestanti hanno
fatto da schermo, intermediazione, tra la polizia e i black
block quando questi hanno tentato di attaccare.
Se dovessi
riflettere su cosa ho appreso da questa esperienza Carlo
Schenone si sofferma sul fatto che una lotta nonviolenta va preparata
correttamente va investito tempo e risorse e organizzata
in modo coerente (mezzi e fini non sono separabili) Le pratiche di
nonviolenza possono arrivare anche alla coercizione. Le persone che vi
partecipano debbono fare delle scelte circa le cose che si: possono
fare (es. violare una legge quando è ingiusta);è disposti a fare (accettare
i rischi, come ad esempio farsi arrestare).
Di seguito
una descrizione degli accadimenti in piazza Portello e in piazza Marsala, come
raccontata in Genova nome per nome. Le violenze, i responsabili, le
ragioni: inchiesta sui giorni e i fatti del G8 (pag 200-205), di
Carlo Gubitosa, edizioni Altraeconomia, pubblicato nel 2011.
Azione nonviolenta in piazza Portello
I gruppi
di azione diretta nonviolenta si radunano attorno alle 11 del mattino
davanti a un varco utilizzato dai residenti come punto di passaggio per entrare
e uscire dalla zona rossa. Il luogo dell’azione è piazza del Portello,
una piazza che non rientra nell’elenco dei luoghi autorizzati dalla
Questura per lo svolgimento di manifestazioni stanziali.
Dopo aver
effettuato i loro “training” di allenamento nei giorni
precedenti, un gruppo di circa 200 persone è pronto per
un sit-in basato su regole chiare e precise, che mi vengono descritte
la sera prima dell’azione: il blocco vale per tutti (tranne che per i mezzi di
soccorso), due portavoce hanno il compito di spiegare
l’azione e le sue modalità di svolgimento alle forze dell’ordine presenti in
piazza, se la polizia vuole trascinare via qualcuno non bisogna
trattenere i compagni, né reagire o fare resistenza, se arrivano gruppi con
intenzioni aggressive bisogna affrontarli a mani alzate per far capire
che «che non siamo il loro scudo e non vogliamo essere strumentalizzati» [1].
Marco
Forlani, un membro dell’associazione milanese “Pace e dintorni”, ha diffuso in
rete un dettagliato resoconto del sit-in nonviolento di piazza Portello, dove si
descrive «un’esperienza ‘fantasma’ che nessuna testata giornalistica si è
degnata di citare: non un articolo (nemmeno un trafiletto), non una foto,
non un’immagine in TV. Lo sappiamo bene: fanno notizia gli scontri, la
violenza, il sangue, ma la nonviolenza no, non è roba da audience».
Il testo prosegue con una cronaca dettagliata degli
eventi:
in
prossimità di piazza Portello i due portavoce incaricati intavolano un dialogo
con le forze dell’ordine, comunicando l’intenzione pacifica e determinata di
bloccare il varco [2], senza alcuna azione di impedimento attivo, solo con
l’interposizione dei loro corpi. All’arrivo del gruppo il varco è ancora
utilizzato: passano macchine, motorini, passanti. Dopo una breve riunione
del “consiglio degli speaker” i manifestanti si dispongono in un sit-in
ordinato. La polizia sembra capire, c’è un clima disteso,
vengono intonati canti con le mani alzate dipinte di bianco, mentre arrivano
notizie di scontri più a monte; elicotteri che passano veloci, cellulari che
squillano. Proseguono intanto le riunioni del “consiglio degli speaker”: 15-20
persone che rappresentano i vari gruppi di affinità presenti.
La prima
decisione è quella di coprire anche la parte del varco che dà su un vicolo
laterale dal quale arrivano alcuni passanti: lentamente viene effettuato lo
spostamento. Il blocco ora è veramente totale. […] Due “addetti stampa”
gestiscono i rapporti con i giornalisti presenti per spiegare le motivazioni
e le modalità del blocco, mentre un’altra persona ha il compito di
intervenire nel caso in cui gruppi estranei arrivino nella piazza.
Intanto
arrivano i primi civili che hanno bisogno di oltrepassare il varco, poiché
abitano o lavorano di là. La polizia è attenta, pronta a cogliere un
gesto di trattenimento fisico. Un ragazzo con borsone scavalca allegramente i
corpi, senza rabbia, e quando un manifestante gli trattiene furbescamente
il manico della borsa, lo speaker lo richiama, lui smette, il
ragazzo raggiunge il varco, grande applauso, allegria. Parecchi passanti tenteranno
di entrare in zona rossa, ma diversi di loro dopo qualche
tentativo rinunceranno, convinti dai manifestanti che instaurano
con loro una dinamica scherzosa (es. slogan ritmati: “con noi, con noi, con
noi”; gli offrono da bere, ecc.). Qualcuno addirittura si siederà con gli altri
del sit-in. Qualcuno si arrabbierà e se ne andrà.
Nel
pomeriggio iniziano i cambi della guardia del presidio di polizia. Il
colonnello fa presente la necessità che il blocco si apra per far passare i
militari. Il consiglio degli speaker si riunisce; la risposta è: il
blocco, sempre nonviolento, è totale, riguarda anche i poliziotti. Un
agente particolarmente arrabbiato s’infila i guanti, tira giù
la visiera, impugna il manganello, gli altri lo fermano. La prima
squadra di poliziotti sfila via, attenta a non calpestare i manifestanti,
quelli che subentrano sono invece più duri e arrabbiati. Solo alcuni di loro
evitano di fare del male ai manifestanti.
Due
addirittura battono i piedi a passo di marcia mentre passano tra le persone
sedute per terra. Intanto la tensione cresce, da sopra via Caffaro
arrivano le notizie delle staffette: un gruppo di 200 black bloc si sta
avvicinando, infilano la via in discesa. I poliziotti si preparano alla battaglia:
si chiudono i guanti, tirano giù la visiera, impugnano i manganelli e chiedono
di aprire un varco per farli passare. Uno furbescamente dice che i black
bloc hanno le molotov e che senz’altro stanno per apprestarsi a tirarle
contro le persone del sit-in.
Per un
attimo regna l’incertezza: una parte del sit-in crea un varco convinta che i
poliziotti siano là per difenderci, mentre l’altra parte – la maggioranza –
urla agli altri di chiudere il varco: bisogna fare interposizione
tra black bloc e
Polizia. […] La
polizia approfitta del momento di confusione e passa. Il presidio laterale
di polizia lancia alcuni lacrimogeni, dà il via a una carica correndo in salita
per via Caffaro e li disperde. […]
Verso le 17
arrivano le notizie delle violenze incredibili, delle cariche continue, della
morte di Carlo Giuliani. Il Genova Social Forum (GSF) chiede di sospendere le
diverse azioni e di convergere in piazzale Kennedy per un’assemblea. Si
riunisce il consiglio degli speaker che decide di anticipare alle 18 la chiusura
del blocco (si era previsto di continuare fino alle 20). La proposta è quella
di concludere con un’azione simbolica: appendiamo alla rete gli
striscioni, le mutande, le magliette colorate, tra canzoni e slogan. Alla fine
il blocco si scioglie ordinatamente.
Nel
comunicato stampa diramato dalla “Comunità Papa Giovanni XXIII” alla fine del
vertice, i volontari di questa associazione cattolica presenti alle
manifestazioni di Genova invitano a «ricordare come segno di speranza
l’immagine di Luca, un uomo in sedia a rotelle, che durante il sit-in
nonviolento in piazza Portello riceve la bandana da un commosso
poliziotto che ci ringrazia per la testimonianza». In piazza del Portello
c’è anche Maria Serafina Corbascio, un vicequestore aggiunto della
Polizia di Stato impiegata presso la Questura di Padova, che il 9
agosto redige una relazione di servizio in cui è documentata la sua esperienza.
Maria Serafina racconta che il 20 luglio
[…] veniva
impegnata, con ordinanza scritta di cui non ricorda il numero di protocollo,
non possedendone attualmente copia, in un servizio di Ordine Pubblico presso
piazza del Portello, con turno 6.00 – fine, ove erano stati istituiti due
varchi di accesso alla zona rossa, già presidiata all’interno da personale del
Reparto Mobile e dell’Arma dei Carabinieri e dove era previsto il transito
della manifestazione del GSF. La forza impiegata era costituita,
complessivamente, da n. 50 unità appartenenti ai Reparti Mobili di Napoli e
Firenze. Intorno alle 10.00, giungevano in piazza del Portello circa un
centinaio di Manifestanti con intenzioni asseritamente pacifiche, i quali
organizzava- no un sit-in davanti al varco delimitante la zona rossa.
Dalla
circostanza, tuttavia, non scaturiva alcuna problematica di Ordine Pubblico. Intorno alle 16.30, mentre era
ancora in corso la suddetta manifestazione, la scrivente, avendo udito, via
radio, notizie allarmanti circa gli scontri avvenuti tra le forze dell’ordine e
i cd. Brackloch in
altre zone della città, anche vicine a piazza del Portello, contattava la
Centrale Operativa, al fine di richiedere l’avvicinamento alla zona interessata
dal servizio di una pattuglia della Digos, allo scopo di reperire informazioni
circa un eventuale rischio di transito in quel luogo di gruppetti sparsi di
anarchici. La richiesta, tuttavia, non veniva soddisfatta, verosimilmente per
il sovraccarico di impegni sostenuti, in quel particolare frangente, dal
personale Digos.
Nel
frattempo, tra l’altro, la scrivente era stata contattata dal portavoce
del gruppo dei manifestanti pacifici, presenti in quella piazza, il
quale aveva espresso motivi di preoccupazione circa alcune notizie, già diffuse
dagli organi di stampa, sulla presenza di manifestanti violenti che, per le vie
di Genova, avevano già saccheggiato esercizi commerciali e incendiato diverse
autovetture. La stessa provvedeva, pertanto, a tranquillizzare
l’interlocutore, sottolineando che la presenza delle forze dell’ordine in
quel luogo era stata prevista non solo per ragioni di sicurezza inerenti il
presidio della zona rossa, bensì anche allo scopo di salvaguardare l’incolumità
dei manifestanti contro eventuali atti violenti operati da frange estremiste,
presenti all’interno dell’organizzazione del GSF.
Intorno alle
17,00, un gruppo di circa 50 individui travisati e armati di spranghe
di ferro e bastoni, iniziava la marcia verso piazza del Portello, partendo
da una traversa della stessa, che, essendo in di- scesa, consentiva alla banda
di facinorosi il lancio all’indirizzo della Polizia di cassonetti con, all’interno,
materiale incendiato. Pertanto, allo scopo di respingere l’attacco violento dei
manifestanti, palesemente intenzionati a procedere senza mezzi termini verso il
varco della zona rossa, si rendeva necessario effettuare un lancio di gas
lacrimogeni, anche allo scopo di proteggere l’incolumità dei manifestanti
pacifici (tra cui figuravano anche persone anziane e bambini), ancora presenti
sul posto.
La scrivente
ritiene opportuno sottolineare che non vi è stato alcun contatto fisico
tra forze dell’ordine e facinorosi, i quali si sono dispersi nel giro di
pochi minuti, dopo aver intentato una breve sassaiola contro lo schieramento
del Reparto Mobile. Tuttavia, nel corso dell’operazione, veniva bloccato e
accompagnato in Questura un individuo travisato, di nazionalità straniera,
intento a lanciare contro la Polizia un cassonetto incendiato. Cessata la
situazione di allarme la manifestazione pacifica riprendeva in tutta
tranquillità terminando intorno alle 20,00. Il tutto si riferisce per dovere
d’ufficio.
Piazza Marsala
Durante gli
scontri tra violenti e poliziotti, in piazza Marsala si verifica un
interessante episodio di collaborazione tra un gruppo di manifestanti
pacifici e una squadra di poliziotti, una pagina di civiltà dimenticata già
a pochi giorni di distanza dal vertice di Genova. Il Questore Colucci dichiara
al Comitato parlamentare d’indagine che
quando, in
circostanze diverse, si è trattato di intervenire su gruppi violenti frammisti
ad altri gruppi, ci siamo sempre trovati di fronte ad una totale non
collaborazione. […] Non mi risulta che il Genoa Social Forum abbia mai
collaborato con le forze dell’ordine per isolare i gruppi che
entravano e uscivano dai cortei per le loro azioni di guerriglia, né mi
risulta che i partecipanti non violenti abbiano mai denunciato qualcuno
dei componenti dei gruppi organizzati di guerriglia.
Una nota di
agenzia dell’Ansa e un articolo pubblicato dal regista Davide Ferrario, dal
titolo Quando i celerini si sono arresi smentiscono il questore,
poiché almeno in una circostanza i cittadini pacifici e i poliziotti animati di
buona volontà sono riusciti ad abbandonare i loro ruoli di assedianti e
guardiani per fare fronte comune all’emergenza in corso. In quell’episodio non
c’è stata una “resa” o una sconfitta dei “celerini”, ma un
utilizzo intelligente del dialogo e della collaborazione tra cittadini e
polizia in una delicata situazione di ordine pubblico.
Questo
esperimento “istintivo” e improvvisato sul campo andrebbe studiato e assimilato
dalle istituzioni, per completare la professionalità delle forze
dell’ordine con quelle conoscenze di psicologia e di dinamiche relazionali che
a volte si possono rivelare più efficaci di un lancio di
lacrimogeni per disperdere un gruppo di violenti senza coinvolgere i
manifestanti pacifici. Ecco il testo diramato dall’Ansa:
«Devo
ringraziare quei quindici che si sono messi in ginocchio e ci hanno
salvato». A parlare è un poliziotto. Esprime gratitudine nei
confronti di un gruppo di pacifisti che, all’arrivo del corteo degli anarchici,
si sono inginocchiati in fondo a via Palestro, davanti allo schieramento dei
poliziotti, invitando il gruppo a fermarsi. Si era appena conclusa la
manifestazione pacifica e colorata degli ambientalisti e della Rete Lilliput
partita da piazza Manin.
Il corteo si
era sciolto, dopo le azioni simboliche davanti alla grata di protezione alla
zona rossa di via Assarotti, e una parte dei manifestanti si era riversata su
piazza Marsala per un sit-in. «Toglietevi il casco» ripetevano i
giovani all’ indirizzo dei poliziotti in assetto antisommossa. Gianluca, 21
anni, ha raccolto l’invito e subito dopo tutti gli altri lo hanno seguito. A
quel punto una ragazza entusiasta si è alzata ed è andata ad abbracciare
il poliziotto. «Noi ci siamo tolti il casco – dice un
altro poliziotto – e loro ci hanno dimostrato solidarietà». Gli
anarchici di fronte a loro hanno desistito.
Il regista Davide Ferrario descrive la situazione
ancora più dettagliatamente:
venerdì 20
luglio ore 15,30 circa, Genova, Piazza Marsala. Il corteo dei pacifisti
sta assediando la zona rossa. C’è stato qualche momento di tensione e una
carica della polizia con lancio di lacrimogeni. Ma la folla non si è
dispersa e i manifestanti cominciano a riaffacciarsi sulla piazza. I
poliziotti si sono attestati un centinaio di metri indietro. Il megafono
gracchia l’annuncio regolamentare (l’unico che mi ricordi di aver sentito in 48
ore di scontri): «sgombrate la piazza». C’è un momento di perplessità, poi
qualcuno avanza a mani alzate. Con grande coraggio un paio dei leader pacifisti
vanno verso i poliziotti e sfilano davanti a loro con le braccia ben
sollevate. Gli altri, qualche centinaio, si siedono a terra. Una
donna si sdraia davanti a una camionetta. Altri, molti altri
seguono il loro esempio.
Parte un
unico coro, non minaccioso: «via il casco, via il casco». I poliziotti sono
visibilmente presi in contropiede. Sembrano quasi essere contenti
di essere oggetto del lancio di una bottiglia piena d’acqua, ma il
lanciatore viene subito neutralizzato dai suoi compagni. Si sente
fisicamente la tensione smontare di fronte alla reazione
pacifica della piazza.
Quando il
primo poliziotto si toglie il casco, scrollando la testa rassegnato, è
un’ovazione. Presto anche gli altri lo imitano. Segue una scena che
avevo visto solo in qualche film sugli scioperi delle mondine, quando i
soldati si rifiutano di sparare sui manifestanti. I poliziotti – che
senza la mascheratura del casco sono tornati a essere uomini, spesso molto
giovani – sono coperti di abbracci e di offerte di acqua e focaccia.
«Perché ci picchiate? Siamo dalla vostra parte!» dicono i ragazzi. Il graduato
comincia a lamentarsi del costo della vita. «Sapete quanto costa una confezione
di latte in polvere?», protesta.
Chiudendo
inconsapevolmente e paradossalmente il circolo vizioso sulla globalizzazione
iniziato con il boicottaggio della Nestlè… Mezz’ora dopo arriveranno i black bloc e ricominceranno
a parlare, indiscriminatamente, i manganelli.
Non molti,
sotto il diluvio di immagini dure provenienti da Genova, hanno prestato attenzione
a questo episodio. Che è in realtà uno dei pochi in cui la piazza
intorno alla zona rossa è stata davvero “conquistata”. Lo ricordo qui, come
testimone diretto, per raccogliere l’invito a cominciare a pensare al “dopo
Genova” dal punto di vista delle tattiche di disobbedienza. Non sono,
ideologicamente, un pacifista a priori. Ma mi resta molto forte la convinzione
che se quella di Piazza Marsala fosse stata la tattica unanimamente adottata,
la vittoria del movimento anti-G8 sarebbe stata totale.
Non perché? i
mezzi sono più “buoni”, ma perché – davanti a uno schieramento
poliziesco e mediatico come quello in opera a Genova – sono più
efficaci. Ancora alla vigilia del G8 avevo difeso in un acceso dibattito la
scelta delle Tute Bianche di tentare di sfondare la zona rossa. Credevo molto
che quell’odioso simbolo dovesse essere violato (le donne che mi contestavano
leggevano in questo una chiara metafora maschilista).
Ma visto il
modo in cui la polizia, durante la notte, aveva spostato il campo di battaglia,
penso che sia stata una scelta perdente quella di accettare lo scontro in mezzo
alla città. Perché? lì non c’era nessun simbolo da conquistare, ma solo una
serie di cariche e contro-cariche che hanno offerto alle forze dell’ordine (e
anche a molti manifestanti) la possibilità di offrire il peggio di sé.
So benissimo
che il corteo è stato attaccato quando ancora non era volata una pietra: ma da
lì in poi lo scontro è stato accettato fino in fondo. Certo, anch’io sono
rimasto impressionato dal coraggio e dalla spontanea voglia di
combattere di molti: ma mi chiedo che diversi effetti avrebbe sortito
se fossero stati impiegati in altro modo. Affrontare i celerini a mani
nude implica un coraggio molto maggiore che non con la protezione di mezzi
rudimentali (ed è inutile negare che nella bagarre è stato utilizzato
tutto ciò che si trovava a portata di mano, automobili e cassonetti compresi).
Note
[1] La frase riportata tra
virgolette è contenuta in un testo che è stato fatto circolare all’interno dei
“gruppi di affinità per l’azione diretta nonviolenta” poche ore prima
dell’azione in piazza Portello.
[2] Le due persone che entrano in
contatto con le forze dell’ordine sono Norma Bertullacelli, del Centro Ligure
di Documentazione per la Pace, e Sergio Tedeschi, un esponente della “Rete
Contro G8” che si avvicina alle forze dell’ordine schierate davanti al varco, e
con la dolcezza dei suoi capelli bianchi sorride ai poliziotti dicendo
semplicemente «se vi spostate leggermente stiamo tutti più comodi». E
come per miracolo, i poliziotti si fanno da parte e i gruppi di affinità
nonviolenti possono sedersi davanti al varco. Il tutto è documentato nel
film Se vi spostate leggermente stiamo tutti più comodi, di Cristiano Palozzi e Antonella
Sica
[3] Tra tutti con sottotitoli in italiano sono disponibili: il colonialismo inglese (1930, India), segregazione razziale (Nashville, 1960, Alabama, USA), apartheid (1985, Sudafrica), dittatura militare (1983, Cile), occupazione militare tedesca (1940, Danimarca), governi autoritari (Solidarnosc, 1980, Polonia)
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