«Vergognatevi per quel che ci avete fatto!» - Mahbouba Seraj
La situazione è davvero brutta. Tutte le donne che ho
sentito, impegnate nel mondo dell’associazionismo per la difesa dei diritti
delle donne, stanno lasciando il luogo in cui vivono in cerca di un posto
sicuro. Ribadisco: la situazione è estremamente drammatica.
Quello che mi rende molto triste è il fatto che
l’Afghanistan e il popolo afghano siano diventati per il mondo unicamente hashtag su
Twitter. L’Europa e le Nazioni Unite come il resto del mondo guardano
passivamente. Cosa pensano che possa accadere in Afghanistan?
Non ci aspettiamo che sia il Governo afghano a
proteggerci. Il Governo non ha nessun piano per noi. Le strade sono piene di
persone che scappano e in cerca di cibo. Le persone dormono per strada e
lasciano le proprie abitazioni. Le donne afghane non si aspettano che il
Governo le protegga. Come già visto in Siria e in Iraq anche in Afghanistan noi
donne saremo le vittime di questa guerra.
Vorrei dire a tutto il mondo “vergognatevi” per ciò
che avete fatto a noi e all’Afghanistan. Ci prendete in giro e ci usate. Non
contiamo più su di voi, non ci fidiamo più di voi. Non vorrei nemmeno parlare
con voi perché il tempo per parlare è finito.
Ci siamo rivolte a voi, vi abbiamo chiesto aiuto, vi
abbiamo presentato le nostre richieste, abbiamo fatto di tutto e a voi non è
importato nulla di tutto ciò. Gli uomini di potere del mondo che prendono
decisioni secondo i propri interessi prendendo in considerazione solo alcune
delle nostre richieste, hanno così distrutto tutto quello che abbiamo costruito
con fatica. Siete tutti disgustosi.
Tutti i leader del mondo e tutto il mondo, vergognatevi
per tutto quello che avete fatto in Afghanistan. Non conto più su di voi perciò
non ho nemmeno voglia di rivolgermi a voi. Perché ormai il tempo per parlare è
finito. Tutto quello che accade oggi in Afghanistan riporterà il paese a 200
anni indietro. Come riusciremo a sistemare tutto? Io non potrò vedere le cose
sistemate, morirò prima. Nemmeno la prossima generazione potrà mai vedere il
mio Paese tornare in equilibrio. I giovani se ne andranno, migreranno. Che cosa
vi aspettate da loro? Pretendete che rimangano a combattere per essere
sconfitti di nuovo? Dovremmo sacrificare l’ennesima generazione per una guerra
scoppiata da una stupida decisione? Quanto durerà tutto questo? Forse, fino a
quando non saremo tutti morti. È questo quello che sta avvenendo. Non capisco,
mi dispiace, non capisco….
Vi ringrazio per avermi dato l’opportunità di dirlo.
Siete, tuttavia, tutti disgustosi».
Il testo è la trascrizione di una dichiarazione resa il 10 agosto all’emittente
turca TRT World
La traduzione in italiano è di Murat Cinar
Afghanistan: quel che si può fare - Bianca M. Pomeranzi
Le immagini atroci dell’aeroporto di Kabul ci hanno annichilito. La rabbia
e la paura di una popolazione disperata hanno preso il sopravvento sulla nostra
apatia verso una guerra lontana di cui tutti, adesso, sembrano vergognarsi. Il
dolore per chi rimane, per le molte e i molti che vedranno la loro vita in
pericolo o annientata, per bambine e per giovani che perderanno la possibilità
di scegliere il futuro non può di nuovo annegare nell’enfasi del “salviamo le
donne” dall’alto della nostra libertà.
Né possiamo accettare che le afghane siano ostaggio di una guerra persa nel
finto scontro tra patriarcati. Quando, venticinque anni fa, siamo insorte per
la violenza sistematica e esibita del primo governo talebano verso donne e
bambine, non abbiamo creduto neanche un po’ che in nome dei loro diritti si
potesse bombardare un’intera popolazione. Nessuna guerra fa bene, in
particolare alle donne.
Sapevamo che era un pretesto, un sottile velo di umanità sulla spessa
coltre di interessi “geopolitici” che muovevano la macchina della guerra al
terrore. Così come abbiamo capito da subito, a talebani cacciati da Kabul, che
i pochi milioni a disposizione della ricostruzione sociale, l’istruzione, la
sanità, la giustizia e l’informazione non potevano bastare a compensare i
miliardi di finanziamenti in armamenti, infrastrutture e crediti a fondo
perduto che finivano nelle casse dei signori della guerra. Oppio, armi e
corruzione hanno nutrito i fondamentalismi da entrambi le parti.
Nelle aree rurali dove vive più dei due terzi della popolazione, i signori
locali attraverso le regole non scritte di famiglie, clan, etnie, hanno
mantenuto il controllo sulla vita delle donne e sul loro lavoro, disponendo
della possibilità di decidere sugli aiuti e sull’accesso a educazione e salute.
Per quelle donne per lo più giovani e giovanissime, la vita è cambiata poco e
troppo lentamente. Eppure, un terzo delle afghane, almeno nei grandi centri
abitati, ha saputo guadagnare spazi di libertà, accesso all’istruzione, al
lavoro e, con difficoltà, alla giustizia.
Ce lo hanno mostrato le attiviste, le giudici, le registe, le giornaliste e
tutte e tutti quelli che hanno con coerenza combattuto per i diritti fondamentali
e la giustizia sociale, con e senza il sostegno delle cooperazioni
istituzionali, quasi sempre inserite in un perimetro definito dalle forze
militari. Adesso che povertà e violenza esplodono davanti agli occhi del mondo,
tutti piangono sui destini delle donne, sulle responsabilità verso chi ci ha
aiutato, sugli errori commessi in venti anni. I crimini contro la popolazione
civile afghana si erano accresciuti con il decrescere degli interessi americani
e internazionali sul paese. Fino alla stretta, voluta da Trump, sugli accordi
di Doha nel 2020 che l’attuale amministrazione americana non ha voluto fermare
e l’opinione pubblica occidentale non ha saputo vedere.
Certo, ora, è importante assumere la responsabilità di combattere i
fondamentalismi nostrani, ricordare ai nostri stati il dovere morale di fermare
i rimpatri, concedere il diritto di asilo e non utilizzare i campi di
detenzione alle periferie dell’Occidente. Il nostro governo, anche attraverso
il G20, deve negoziare con tutti i mezzi (whatever it takes?) l’apertura
dei corridoi umanitari per chi vuole partire, ma soprattutto le condizioni per
chi rimane.
Per noi femministe certo è prioritario, oltre all’impegno nell’accoglienza,
agire attraverso le reti che già esistono, in Italia e nei circuiti
internazionali, per far arrivare alle associazioni delle donne afghane, nel
paese e nella diaspora, il sostegno, civile e istituzionale, necessario.
Ascoltiamole e ascoltiamo le reti femministe islamiche.
I talebani certamente non sono cambiati, ma ora sanno che non possono
continuare a uccidere e umiliare perché, comunque, le donne non taceranno.
Quello che possiamo fare noi, femministe di un occidente confuso e impaurito, è
soprattutto riflettere sulle esperienze e sulle nuove consapevolezze dei nostri
limiti per trasformare la solidarietà in forme nuove di relazione, in nuovi
linguaggi sul mondo.
La pandemia ci sta insegnando che per “proteggere” occorre sconfiggere il
continuum di violenza e propaganda che separa e domina, che crea il caos su
cui, solo apparentemente, prosperano padri e padroni del nulla.
Fonte: pagina facebook della Casa Internazionale delle Donne
Afghanistan La Waterloo della democrazia esportata in armi - Guido Moltedo
Tra i 238 e i 241 mila morti, di cui 71 mila civili. È la guerra dei
vent’anni che si è combattuta in Afghanistan ma anche, vale la pena ricordarlo,
nelle regioni confinanti del vicino Pakistan. Costata agli Stati uniti 2.261
militari caduti, a cui vanno aggiunti i 3.936 contractor americani uccisi in
combattimento, i mercenari, di cui poco si parla ma che, anche in questo
conflitto, hanno avuto un ruolo cruciale.
In più i caduti della Nato. Una guerra per cui sono stati spesi 2.261
miliardi di dollari. Immaginare altri dieci, vent’anni così, per poi arrivare
allo stesso esito, alla stessa situazione che vive l’Afghanistan in queste ore
e giorni, non avrebbe alcun senso e certo non avverrà sotto questa presidenza,
ha detto chiaramente il commander-in-chief dell’ultima, umiliante Waterloo
americana. Un prezzo politico alto, paga Joe Biden, l’ultimo dei quattro
presidenti implicati nel conflitto, per i sei mesi finali degli oltre duecento
dell’impresa afghana.
Le immagini della vittoria talebana, del caos, del panico, del fuggi fuggi,
della disperazione hanno avuto la meglio sulla sostanza di quanto è accaduto e
sta ancora accadendo e che Biden ha vanamente cercato di incorniciare dentro
una visione logica, pragmatica e, soprattutto, in linea con gli interessi
americani, buttando al macero l’ottusa retorica della democrazia formato export
di chi iniziò la guerra. Il sussulto che suscitano le scene da Kabul non deve meravigliare
nella nostra età ormai matura della comunicazione globale e quindi, delle
emozioni globali. Così come non meraviglierà la sua rapida scomparsa dal
circuito mediatico perché più di tanto, anche le peggiori tragedie, nulla
possono fare contro la tirannia del ciclo breve, sempre più breve della
notizia.
Certo, è stato stolto da parte della Casa bianca non predisporre un piano
di uscita dall’Afghanistan con le sembianze di un ritiro ordinato, ma davvero
sarebbe stato possibile attuarlo, come pontificano i tanti generali in poltrona
che affollano tv, giornali e social? Qualcuno ricorda un ritiro ordinato da un
conflitto, da una guerra palesemente ingiusta, o da un’invasione neocoloniale?
Da Saigon? Da Teheran? Da Beirut? Da Mogadiscio? Da Baghdad? E dove la
cessazione di un conflitto è stata apparentemente «ordinata», quel che è
seguito non lo è stato altrettanto, come dimostra la Bosnia, per non andare
tanto lontano.
Biden, a modo suo, ha avuto quello scatto che neppure il suo ex
numero uno aveva avuto, contribuendo a lasciare aperto il conflitto afghano per
darlo in eredità ai suoi successori. C’è da chiedersi se e quanto la decisione
di Biden sia davvero frutto di un calcolo strategico e costituisca parte di una
«dottrina» di lungo periodo. Una «dottrina» nella quale l’esplicitazione della
priorità su tutto dell’interesse nazionale americano è chiara, dichiarata,
senza inutili e offensivi orpelli ideologici, tipo esportazione della
democrazia e dei valori occidentali. Una «dottrina» eminentemente isolazionista
non ne ha più bisogno e, tolto tutto ciò che c’era di odioso in Trump, è sulla
sua scia che si muove Biden, e con lui i poteri che contano a Washington e nel
capitalismo americano.
Biden dovrà innanzitutto spiegare la sua «dottrina» – se tale è e non
dilettantistica improvvisazione – agli alleati europei, ancora fermi, per
convenienza, per ignavia, per subalternità, a un credo che, con i Bush, aveva
rinnovato in chiave globale e alternativa all’Onu un’alleanza nata e
consolidata per «combattere il comunismo», per poi dignitosamente andare in
pensione con la sua fine, e che avrebbe dovuto rigorosamente agire per statuto
entro il perimetro europeo. Il collasso afghano mette a nudo questa costruzione
ideologica, edificata a Washington ma con il contributo convinto degli europei,
che cara ci è costata, anche all’Italia, in termini di vite umane e di energie
vitali regalate alla morte.
La nervosa reazione europea alla scelta di Biden supera largamente
la stizza verso le intemperanze di Trump, compreso l’esibito disprezzo verso la
Nato, col retropensiero che il suo successore avrebbe rimesso le cose a loro
posto. Essa è rivelatrice soprattutto di un vuoto di pensiero europeo sul mondo
d’oggi e su come esserne parte e averne parte.
La «dottrina» Biden, e con essa quel che sarà della politica estera
europea, è ora alla prova di due dossier non meno rilevanti di quello afghano,
quello iraniano e quello cubano. Con l’Afghanistan, Iran e Cuba erano in cima
alle priorità dell’amministrazione Obama e nel programma elettorale di Biden.
Nell’immediato, come scrive lucidamente sul manifesto Luciana Castellina, è
«urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per
facilitare il passaggio di quella frontiera». Tanto più che gli hazara, la
minoranza sciita dell’Afghanistan è ancor più in difficoltà oggi, in balia di
una maggioranza estremistica che, tanto per dare un segnale, ha abbattuto due
giorni fa la statua di Abdul Ali Mazari, martire della lotta di questo fiero
popolo sciita.
Con Cuba, un minimo di coerenza e di saggezza suggerisce di
abbandonare definitivamente l’approccio ideologico. L’esasperazione nell’isola
è da tempo ai limiti di guardia. Proseguire lungo la via delle sanzioni,
comprese le ultime aggiunte da Trump, non porterà che a un conflitto, anche
sanguinoso, questo a poche miglia dagli Stati Uniti. È questo che vuole
l’amministrazione Biden, dopo la Waterloo afghana?
L’articolo è stato pubblicato sul Manifesto del 19 agosto 2021 col
titolo La democrazia esportata con le
armi, la Waterloo di Biden e della Nato
In
Afghanistan il fallimento umiliante dell’Occidente - Alberto Negri
Quali altre
guerre sbagliate, e che non si possono vincere, ci aspettano, dopo gli inutili
bagni di sangue di Afghanistan e Iraq? A Kabul c’è stato «un fallimento epocale
finito in maniera umiliante», titolava il New York Times,
quotidiano che ha appoggiato Biden nella campagna elettorale contro Trump.
Eppure mai come adesso è vera la frase del grande musicista Frank Zappa: «La
politica in Usa è la sezione intrattenimento dell’apparato
militar-industriale». Biden, come in una caricatura hollywoodiana, continuava a
sostenere in tv che il potente esercito afghano avrebbe respinto i talebani che
stavano già alla periferia di Kabul. Ma il ruolo presidenziale è proprio
questo: raccontare bugie, anche insostenibili, e contare gli utili, prima
ancora dei morti. Anche le dichiarazioni del segretario di Stato Blinken –
«abbiamo raggiunto gli obiettivi» – appaiono meno ridicole di quel che sono se
viste in questa ottica.
Gli
americani e la Nato dicono di volere esportare democrazia, in realtà esportano
prima di tutto armi: il resto – “nation-building”, diritti umani, diritti delle
donne – è un delizioso intrattenimento per far credere che con le cannonate
facciamo del bene. Se vuoi aiutare un popolo puoi farlo senza usare i fucili,
questo tra l’altro insegnava Gino Strada, vituperato da vivo dagli stessi
ipocriti che oggi lo incensano e all’epoca sostenevano le guerre del 2001 e del
2003.
Chi paga
davvero il prezzo del fallimento e il ritorno dei talebani non sono gli
americani e noi europei, loro complici, ma gli afghani. In vent’anni i
progressi per loro sono stati insignificanti e le perdite umane altissime,
decine di migliaia di morti deceduti negli ultimi anni più nei raid americani e
Nato che non negli scontri con i talebani. I 36 milioni di afghani – di cui
cinque-sei milioni sono profughi – vivono in media con meno di due dollari al
giorno. In particolare perdono le donne che erano riuscite a rivendicare il
diritto allo studio e un certo grado di autonomia personale, del tutto negato
nel primo Emirato dei talebani. L’Emirato II° forse sarà, si spera, un po’ meno
duro o solo più pragmatico. Tra l’altro oltre alle donne pure i maschi a scuola
ci vanno assai poco, se non nelle madrasse dei mullah: il sistema d’istruzione
statale è allo sfascio. Vent’anni dopo l’invasione è una delle notizie
peggiori. Con un’avvertenza: i sacrosanti diritti delle donne in questi anni
sono stati esercitati soprattutto dalle afghane nei grandi centri urbani.
Fuori, nelle zone rurali, hanno continuato a vivere secondo canoni oscurantisti
e tradizionalisti, come del resto avviene in Arabia saudita dove nessuno per
questo si sogna di bombardare il principe assassino Mohammed bin Salman. Ma a
Riad sono talebani di successo di una monarchia assoluta e acquirenti di
miliardi di armi americane. Nelle provincie remote i talebani hanno sempre
controllato territorio e popolazione: il movimento jihadista esercitava già il
suo predominio sul 40% del Paese.
L’Afghanistan
oltre che una guerra sbagliata è stata anche una narrazione sbagliata. I
progressi sul piano dei diritti umani e civili hanno riguardato sempre una
minoranza del Paese, una élite: è una delle diverse ragioni del
fallimento. I talebani hanno conquistato senza combattere 25 città in 10 giorni
e non sarebbe stato possibile senza poter contare, oltre che sulla
disgregazione dell’esercito, su un certo consenso della popolazione esclusa dal
circuito dei soldi e della corruzione che ha caratterizzato governi marcescenti
e dipendenti da aiuti occidentali. L’approccio Usa di favorire una élite degli
afghani si è rivelato superficiale. Ancora di più di quello dei sovietici che
invasero il Paese nel 1979 per ritirarsi dieci anni dopo. Sotto i russi ci fu
una modernizzazione in apparenza imponente: un embrione di riforma agraria, le
università aperte alle donne, i cinema anche nelle città di provincia. Eppure
anche quello slancio riguardò una minoranza ma più convinta: il governo
afghano, senza Mosca, resistette altri tre anni prima di cadere. Questa volta
esercito e governo si sono liquefatti subito. Deve far meditare che i talebani
abbiano letteralmente passeggiato fino alla capitale vent’anni dopo la loro
disfatta del 2001: significa che la “modernizzazione” non ha investito gran
parte dei giovani afghani che hanno continuato a sostenere i jihadisti.
Il fallimento
militare e politico è bruciante ma lo è forse ancora di più quello ideologico.
Richiamandosi alla tradizione dei mujaheddin che sconfissero i sovietici, i
jihadisti possono vantare due clamorose vittorie in 40 anni: contro i comunisti
negli anni Ottanta – con il sostegno americano – e oggi contro il sistema
liberal-capitalistico. L’Afghanistan può rappresentare un polo d’attrazione per
gli islamisti più radicali. Adesso hanno di nuovo a disposizione una nazione,
dipenderà dall’Emirato II° non fare mosse false come l’appoggio ad Al Qaeda nel
2001.
I Talebani,
al momento, sono vincenti sul piano interno ma anche su quello internazionale.
I negoziati di Doha voluti da Trump li hanno legittimati. È inutile girarci
intorno. E quando Biden ha annunciato il ritiro, russi, cinesi e iraniani si
sono precipitati a fare accordi con loro: le loro ambasciate a Kabul restano
aperte. Sono tutti vicini di casa e hanno interessi politici ed economici nel
cuore dell’Asia centrale.
Biden è
apparso una figura grottesca ma funzionale al sistema americano. Dovremmo
ricordarcelo prima di farci ancora trascinare in altre guerre “sbagliate”. Ma i
nostri governi sono regolarmente sottomessi agli Usa.
Secondo i sondaggi Joe Biden ha comunque ancora il 60% dell’approvazione degli americani
per il ritiro dall’Afghanistan. Un po’ di sondaggi e un po’ di propaganda forse
serviranno a mascherare la figuraccia di Kabul. Non a oscurare le menti
pensanti.
L’articolo è
stato già pubblicato su il manifesto del 16 agosto
Afghanistan, Alberto Negri: «Fallimento politico-militare ma anche ideologico»
(intervista
di Ruggero
Tantulli)
Il fallimento in Afghanistan?
Politico-militare ma anche ideologico. Dopo i sovietici, i talebani hanno
sconfitto anche gli occidentali, pur con importanti differenze. E ora
costruiranno l’Emirato II, con nuovi partner e una nuova struttura
statale. Per capirne qualcosa di più, Ventuno ne ha
parlato con Alberto Negri, giornalista tra i massimi esperti di
esteri, che conosce l’Afghanistan – dove è stato una dozzina di volte a partire
dagli anni ’80 – come le sue tasche. Editorialista de Il Manifesto,
quotidiano che ha compiuto 50 anni, Negri è stato a lungo inviato di guerra
per Il Sole 24 Ore, seguendo in prima linea, tra le altre, le
guerre nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan e in Iraq.
Cosa sta
succedendo in Afghanistan?
«Per dirlo in maniera dettagliata bisognerebbe essere
sul posto. Abbiamo sempre un taglio della realtà afghana che proviene
soprattutto da Kabul, la capitale. Sappiamo poco, però, di quello che accade
nelle province. Questo è un limite dell’informazione attuale che ci dovrebbe
far riflettere, perché la storia dell’Afghanistan non è solo quella di una
guerra sbagliata, ma anche di una narrativa sbagliata. Per esempio si ignora
che i talebani controllavano già il 40-50% del territorio quattro-cinque anni
fa. Soprattutto nelle province. Questo spiega perché c’è stata una loro rapida
avanzata, dovuta ovviamente alla dissoluzione dell’esercito nazionale afghano,
ma anche al fatto che in questi anni i talebani hanno consolidato la loro
presenza, stando molto più attenti che in passato ai rapporti con la
popolazione civile».
Come?
«Il Mullah Baradar, che ha rappresentato i talebani
nel negoziato di Doha e che gli americani conoscono benissimo – fu arrestato
nel 2010, tenuto in prigione in Pakistan fino al 2018 e liberato su richiesta
degli stessi americani – è autore di un codice di comportamento in cui si
chiedeva ai combattenti di non fare attentati o azioni militari che mettessero
troppo a rischio la popolazione civile innocente. Questo ha aiutato a
consolidare il movimento talebano, che poi ha allargato le sue alleanze, anche
superando in alcuni casi alcune barriere etniche settarie che hanno sempre
contraddistinto l’Afghanistan. La sconfitta del 2001 è stata la sconfitta non
solo dell’Emirato, ma anche dei pashtun, cioè dell’etnia
maggioritaria (con il 40%) dell’intero Paese. Questa è un po’ la rivincita
anche da quella disfatta di 20 anni fa».
Qual è la
narrativa sbagliata?
«Avere scambiato Kabul, Herat o Mazar-i-Sharif per
tutto l’Afghanistan. Molte donne afghane in questi vent’anni avevano potuto
tornare a scuola o entrare in politica, ma molto spesso nelle province le donne
afghane hanno continuato a vivere secondo regole tradizionali oscurantistiche
che hanno dominato la vita dell’Afghanistan nei secoli. E non solo con i
talebani. Inoltre, si è pensato alla modernizzazione del Paese ma rivolgendosi
soprattutto a un’élite politico-economica che poi ha dato vita a
governi altamente corrotti. Questo, uno degli aspetti più superficiali della
politica americana e occidentale in Afghanistan, ha determinato il fatto che la
stragrande maggioranza degli afghani rimanesse fuori dal circuito economico e
dalle aspirazioni a una vita migliore di un popolo che vive con un dollaro e
mezzo al giorno. Ecco perché non solo si è disgregato l’esercito nazionale, ma
addirittura le nuove generazioni afghane – su cui gli occidentali pensavano di
puntare – alla fine hanno invece appoggiato i talebani. E non hanno fatto
alcuna resistenza alla loro avanzata. Quindi la sconfitta americana e
occidentale in Afghanistan non è solo militare ma anche ideologica, perché il
processo di modernizzazione è completamente fallito. E oggi i jihadisti possono
vantare due vittorie in 40 anni contro due superpotenze: una contro i
sovietici, cioè contro il comunismo con l’appoggio degli americani, l’altra
contro il sistema liberal-capitalistico».
Questa è
stata una guerra sbagliata, quindi?
«Sono sempre sbagliate tutte le guerre che non si
possono vincere. E soprattutto sono sbagliate le guerre che nella propaganda
occidentale mirano a esportare la democrazia, ma dove nella realtà dei fatti
c’è ben altro».
Ecco.
Cos’altro c’è, nella realtà dei fatti?
«La missione del 2001 avrebbe dovuto “vendicare” l’11
settembre. Se si fosse limitata a quello, puntando soprattutto su Al Qaeda, si
sarebbero risparmiati molto tempo e molti morti. Invece si è pensato,
abbattendo il regime dei talebani, di imporre un modello occidentale a un Paese
che ha rifiutato questi modelli e li aveva già rifiutati nella storia. In
realtà, gli americani avevano pensato di mettere una postazione strategica nel
cuore dell’Asia, ai confini con l’Iran e con la Cina, nell’area di influenza
della Russia e vicino al Pakistan, paese che ha creato i talebani – con il
governo di Benazir Bhutto – come strumento di penetrazione in Asia centrale.
Erano in Pakistan, non a caso, i generali che avevano i contatti con i talebani
e con Osama Bin Laden: io ho intervistato capi talebani e jihadisti in
clandestinità, nella lista nera degli Usa, alla periferia di Islamabad, non di
Kabul. Quindi è stata un’operazione sbagliata anche da quel punto di vista!»
Che
Afghanistan vedremo con questo Emirato II?
«Mentre il primo Emirato – che aveva la sua capitale a
Kandahar – lo conoscevamo poco e male, questo secondo lo conosciamo perfettamente.
Gli americani ci hanno combattuto per anni contro e poi ci hanno trattato a
Doha. Oltretutto questo secondo Emirato ha una rete di relazioni internazionali
molto più estesa del precedente. A trattare con i talebani in Qatar andavano
turchi, iraniani, russi, cinesi… Non stupisce infatti che questi paesi abbiano
ancora le ambasciate perfettamente funzionanti. Questo Emirato probabilmente
sarà radicale nei metodi e nell’ideologia, come il precedente, ma più
pragmatico nei rapporti internazionali».
Perché?
«Perché dovrà governare il Paese. Dovrà assicurare la
stabilità e il controllo sul territorio, ma dovrà anche far funzionare la
macchina statale. E per questo servono i soldi. Finora i soldi arrivavano da
statunitensi ed europei».
E ora quali
saranno i partner dei talebani?
«La Cina è uno dei partner più probabili dal punto di
vista economico. Con la Via della Seta sta investendo dozzine di miliardi di
dollari in Pakistan (il maggior alleato dei talebani) e in Iran, ha già
investito nelle miniere in Afghanistan ed è politicamente interessata acché gli
afghani non destabilizzino la popolazione musulmana degli uiguri nel confinante
Xinjiang».
Quali altri?
«La Russia vorrà avere la sua influenza. Poi l’Iran,
che ha incontrato e forse appoggiato più volte i talebani e che ora si aspetta
un comportamento più corretto nei confronti della popolazione afghana sciita.
Poi ci sono i paesi arabi del Golfo: prima di tutto gli Emirati Arabi Uniti
(già oggi il maggior partner commerciale dell’Afghanistan), il Qatar e l’Arabia
Saudita. Su di loro i talebani puntano per fare cassa».
Come potrà
essere strutturato questo Emirato II?
«Il primo ruotava intorno alla figura carismatica del
Mullah Omar. Questo è un po’ diverso, perché non c’è un leader carismatico. C’è
un leader, l’emiro Akhundzada, che è capo politico-militare ma anche religioso.
Poi c’è una parte più pragmatica, costituita da suoi vice: Baradar, la rete
Haqqani, Yaqoob (il figlio del Mullah Omar)… Quindi si può delineare una
struttura in due modi: un capo supremo e una struttura di governo che si occupa
delle questioni politiche e di gestione del Paese, un po’ all’iraniana».
In questi giorni si parla molto della condizione delle
donne e si vedono immagini dell’esperienza socialista afghana di alcuni decenni
fa, con donne a viso completamente scoperto per esempio, che stridono con la
situazione attuale…
«La presenza sovietica in Afghanistan è stata molto
forte ed è durata a lungo, anche negli anni ’60-’70. Il partito comunista
afghano (il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan) nel 1979 chiese
aiuto all’Urss, che invase l’Afghanistan il 24 dicembre 1979 per sostenere la
guerra contro i mujaheddin allora sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Arabia
Saudita e dal Pakistan. C’erano già dei forti piani di modernizzazione
all’epoca, prima dell’intervento dell’Urss: la riforma agraria e
dell’istruzione per esempio. L’attuale università di Kabul è a forma di stella
rossa! In quell’università era da vent’anni che andavano a studiare non solo
gli uomini ma anche le donne, che giravano a capo scoperto e persino con la
minigonna. Nel 1975 a Kabul ci fu il primo concerto rock dell’Asia centrale! Se
è vero che i russi furono costretti a ritirarsi nel 1989, il governo afghano
resistette per tre anni prima di cadere, fino al 1992. Poi le truppe dei
mujaheddin entrarono a Kabul e impiccarono l’ex presidente Najibullah a un
lampione».
Questo cosa
ci dice di oggi?
«Allora, come in questi ultimi 20 anni, anche i russi
puntarono a creare un’élite per tenere in piedi lo stato afghano.
Ma quell’élite era molto più convinta, coesa e larga di quella
creata dagli americani, altrimenti quel governo non sarebbe resistito da solo,
senza l’aiuto di Mosca, per tre anni. Invece la modernizzazione applicata negli
ultimi 20 anni si è sciolta come neve al sole, perché questa élite è
subito scappata e non ha difeso le istituzioni impiantate dagli occidentali».
Ci sono
coincidenze tra la fuga da Saigon, in Vietnam, nel 1975 e quella di questi
giorni da Kabul?
«No. L’apparenza delle immagini ci fa sfuggire
tantissime differenze. Innanzitutto quella guerra fu combattuta dagli Usa con
un esercito di leva e ci morirono decine di migliaia di soldati americani. La
guerra in Afghanistan invece non ha coinvolto gli americani emotivamente.
Contro la guerra in Vietnam, poi, c’era un grande coinvolgimento nelle
proteste, anche qui in Italia. Per l’Afghanistan quante manifestazioni si sono
viste?»
Le colture di oppio erano state quasi azzerate prima
dell’intervento degli Usa del 2001. Poi è andata diversamente…
«Oggi la produzione è 10-12 volte superiore a quella
del primo Emirato talebano, con un’estensione quasi pari a quella della
Lombardia. La produzione di oppio è una delle basi “economiche” del Paese,
oltre all’estrazione mineraria. In Afghanistan ci sono diversi minerali che
fanno gola alla Cina».
Si può dire, in definitiva, che la guerra in
Afghanistan è il più grosso fallimento della Nato?
«L’Alleanza atlantica, a dispetto del nome, è andata a
fare guerre ben lontane, ma gli errori non finiscono. Ora la missione Usa in
Iraq sarà sostituita da una missione Nato, il cui prossimo comando sarà preso
dall’Italia. Il fallimento Usa e Nato in Afghanistan dovrebbe far riflettere su
come noi accettiamo supinamente missioni militari e guerre senza mai opporci».
Chi si
opponeva era Gino Strada, morto pochi giorni fa.
«Gli ipocriti che hanno incensato Gino Strada in
questi giorni sono gli stessi che sostennero gli interventi militari americani
nel 2001 e soprattutto nel 2003, oltretutto sulla base della fake news più
colossale della storia: le armi di distruzione di massa che non vennero mai
trovate. Cosa andiamo a fare in queste guerre? A esportare la democrazia? I
diritti umani? Questi argomenti sono ridicoli, servono a giustificare le
cannonate su interi paesi che potremmo aiutare senza sparare un colpo».
Come?
«Per esempio con aiuti alla cooperazione, con aiuti
sanitari o con aiuti nel campo dell’istruzione. In Afghanistan è difficile
andare a scuola non solo per le ragazze ma anche per i ragazzi, perché il
sistema scolastico statale è completamente crollato in questi 20 anni. E dove
andavano a studiare i ragazzi? Nelle madrasse, le scuole islamiche. Ecco un
altro motivo che ci spiega perché i talebani hanno fatto larga propaganda.
L’Afghanistan è il motore concreto dei fallimenti successivi: in Iraq, in
Libia, in Siria etc. Queste guerre mascherate da interventi umanitari hanno
ridotto intere regioni nel caos. La “strategia del caos” l’ha teorizzata
Hillary Clinton da Segretario di Stato Usa. E gli effetti di questi disastri li
vediamo qui nel Mediterraneo».
La missione italiana in Afghanistan. Considerazioni a margine di un fallimento - Monica Quirico
In questa estate semi-apocalittica – tra alluvioni,
incendi e rigurgiti neo-oscurantisti – la morte di Gino Strada, concomitante
alla definitiva rivincita talebana, chiude simbolicamente il cerchio di quel
capolavoro al contrario che sono state le missioni internazionali in
Afghanistan dal 2001 a oggi. Chi adesso celebra il fondatore di Emergency come
una sorta di santo laico (!) lo liquidava con fastidio quando, vent’anni fa,
disarticolando la retorica “umanitaria” dell’intervento occidentale,
profetizzava che esso avrebbe solo esasperato la situazione.
Le 160.000 vittime afghane (di cui tra i 35.000 e i
43.000 civili) e i 54 morti tra i soldati italiani (32 dei quali in seguito ad
atti ostili), le une e gli altri rimossi dal dibattito pubblico, sollecitano
qualche riflessione sul modo in cui nella fragile democrazia italiana è stata
rappresentata la più rilevante operazione militare del dopoguerra, con
un’attenzione particolare per il rapporto tra lutto e politica, in una
prospettiva di genere.
Il 9 ottobre 2001 il Parlamento italiano approvava
quattro risoluzioni (bipartisan) che impegnavano l’Italia a onorare i suoi
obblighi di membro della Nato, dando il suo sostegno all’operazione Enduring
Freedom, scattata due giorni prima come ritorsione agli attentati dell’11
settembre. Un mese dopo, le Camere votavano a larghissima maggioranza a favore
dell’intervento militare, che prendeva il via il 18 novembre. Per la prima
volta nel dopoguerra, alle truppe italiane si applicava in modo esplicito il
codice militare di guerra (introdotto nel 1941). Negli anni, in un gioco di rimpalli
tra Onu e Nato, cambiavano i nomi delle missioni ma restava, anzi aumentava, la
presenza occidentale.
Dell’attività delle truppe italiane (che nel 2010
superavano le 4.000 unità) e in particolare della Task Force 45,
creata dal governo Prodi II, si sapeva (e tuttora si sa) poco o nulla: di fatto
era una missione di combattimento, che sfruttava le ambiguità delle
autorizzazioni parlamentari. Beninteso, i Governi italiani che si succedevano
dal 2001 in poi, fossero di centrodestra o di centrosinistra, si guardavano
bene dal menzionare la parola “guerra”, preferendole espressioni come:
intervento umanitario; azione di contrasto al terrorismo; operazione di polizia
internazionale. Il topos “Italiani, brava gente”, esteso anche
all’esercito, è sempre spendibile e trovava infatti la sua consacrazione in una
mostra patrocinata nel 2012 dalla presidenza della Repubblica (all’epoca retta
da Giorgio Napolitano), che, dopo l’inaugurazione al Vittoriano, veniva
riproposta in diverse città italiane. Intitolata “I volti dei militari
italiani. I valori della patria in un’immagine”, l’allestimento mescolava
sapientemente stralci di mail inviate a parenti e amici dai militari italiani
in missione all’estero (non solo in Afghanistan) a scatti che li ritraevano in
atteggiamenti cordiali nei confronti della popolazione locale. L’esposizione
era strutturata come un vero e proprio catalogo delle virtù delle forze armate,
nell’ordine: Solidarietà, Dedizione, Onore, Dignità, Lealtà, Altruismo,
Coraggio, Fedeltà, Disciplina, Umanità, in una mescolanza di valori guerreschi
tradizionali e attualizzazioni consone alla retorica umanitaria che pervadeva
la narrazione delle missioni. In tal senso, il clou era
rappresentato dalle immagini di donne soldato (immancabilmente sorridenti) che
assistevano anziani, donne e bambini, in una sorta di incontro transnazionale
fra soggetti minoritari e tuttavia tutelati, con la soldata che presumibilmente
doveva fungere da modello di emancipazione per le ragazzine locali.
Mentre la protezione delle donne afghane era invocata
come una delle motivazioni decisive alla base dell’intervento militare, ad
altre donne – le madri e le mogli dei militari italiani – era richiesto di fare
la loro parte: quella di sempre, accettare la morte dei loro cari come compimento
di un destino, il sacrificio per la patria. Già, perché, in una narrazione che
legittimava l’intervento militare in nome della pace e dei diritti umani,
quando tornavano in Italia le salme dei “caduti” (termine che suggerisce una
fatalità del tutto fuori luogo) evidentemente i valori universalistici non
bastavano a dare un senso al dolore – o almeno così pensavano le istituzioni.
Si rispolverava allora il repertorio classico, quello della mater
dolorosa, punto di intersezione tra culto mariano (Maria spettatrice
affranta ma composta della Passione) e pratiche penitenziali pagane (l’eruzione
del dolore); un’icona che ha incontrato larga fortuna nel discorso nazionale
forgiato a partire dal Risorgimento e la cui chiave di volta è l’attribuzione
del dovere di onorare la patria tanto agli uomini in armi quanto alle donne
che, a casa, sublimano la perdita nella celebrazione del valore trascendente
del gesto eroico.
Le commemorazioni dei “caduti” italiani in Afghanistan
ricalcavano questa divisione di genere dei ruoli, pur con qualche incrinatura:
il dolore non è mai interamente addomesticabile. La continuità enfatizzata dai
media e dalle liturgie funebri tra il lutto della singola famiglia biologica,
quello della più ampia famiglia militare e infine quello della comunità
nazionale mirava a ricordare a tutti che, di fronte all’enormità del sacrificio
che il militare deceduto così come la sua famiglia avevano compiuto per il bene
della nazione, le distinzioni sociali e politiche dovevano passare in secondo
piano. Anche nel caso dell’intervento in Afghanistan, l’appello all’unità
fondato su un sentimento universale come il lutto ha costituito infatti un
potentissimo strumento di neutralizzazione del dissenso, delegittimando il
confronto razionale, oltre che etico, sull’opportunità di portare avanti la
missione. Indimenticabili le parole di Matteo Renzi, all’epoca presidente del
consiglio, in visita a Herat nel 2015: «Non siamo qui per un motivo logistico
ma per un ideale»; poi rincarava: «Possa il loro sangue [dei caduti] servire ed
aiutare anche qui in Afghanistan nuove generazioni a conoscere bellezza,
libertà e pace».
Non è stato così, come ben vediamo oggi,
scandalizzandoci dai nostri comodi divani per la sorte che attende le donne
afghane; vano chiedersi se qualcuno tra i molti politici che hanno sostenuto le
varie missioni avrebbe il coraggio di incontrare i parenti dei militari morti e
ammettere che il loro “sacrificio” è stato totalmente destituito di senso. È
tuttavia proprio la logica dell’eroismo (e del suo brodo di coltura: il
nazionalismo) a dover essere cacciata nel pattume della storia: è vero,
parliamo di eserciti professionali, ma ciò non attenua lo sgomento per il
paradosso che Judith Butler ha così riassunto: «Da un lato, dunque, questi
soldati sono ritenuti “indispensabili” alla difesa della patria. Dall’altro,
essi fanno parte della popolazione dispensabile. E anche se la loro morte è a
volte oggetto di glorificazione, essi sono e restano dispensabili: persone
sacrificate in nome del popolo. […] Così, in nome della difesa del popolo, la
nazione spinge qualcuno sull’orlo del precipizio. E quel corpo strumentalizzato
per motivi di “difesa” è reso dispensabile proprio dall’obiettivo di garantire
quella stessa “difesa”».
Se la vulnerabilità è un dato ontologico, perché
comune a tutti i viventi, essa è nondimeno sperimentata in modo differenziato a
seconda della classe sociale, della nazionalità, del genere e di altre
variabili socialmente costruite. L’attuale distribuzione del lutto
pubblico nella popolazione mondiale, con la gerarchia tra le vite degne di
essere piante (quelle dei cittadini USA, ad esempio) e le vite che non meritano
le lacrime dell’opinione pubblica (quelle degli afghani o dei palestinesi), non
può che alimentare la spirale della violenza e del militarismo. Come scriveva
Gino Strada nel 2003, «questa è la vera guerra mai dichiarata: la guerra ai
poveri del mondo, agli emarginati, agli sfruttati, ai deboli, ai diversi, la
guerra a tutti gli “spendibili”, vittime designate dei nostri consumi».
Non ci sono più i
talebani di una volta – Giovanni Iozzoli
Nel 2007 esce un bel film diretto e
interpretato (tra gli altri) da Robert Redford. Si presenta come
una pellicola molto progressista, di quelle che al cinema fanno commuovere le
platee colte e liberal. Al centro di diversi intrecci si colloca la storia,
iper-americana, di due giovani proletari, uno nero l’altro ispanico, che
scelgono di arruolarsi volontari e partire per l’Afghanistan perché
solo così riusciranno a pagarsi l’università e realizzare il sogno dell’uscita
dal ghetto sociale. Sono due studenti brillanti – capaci e meritevoli –, non
sono militaristi o guerrafondai: sono giunti però alla conclusione che
indossare la divisa e partire per una missione all’estero è l’unico modo che
hanno per assicurare a sé stessi studi di qualità. Qui gli autori si dimostrano
assai polemici verso il sistema di istruzione americana. Un professore di liceo
dei due ragazzi, Redford, sessantottino reduce dalle manifestazioni
contro il Vietnam (con tanto di cicatrice in fronte), cerca di
dissuaderli in ogni modo dall’arruolamento. Loro però hanno già scelto e non
cambieranno idea. Finiranno proprio a combattere contro i talebani in Afghanistan e
li ritroveremo, nelle scene finali, ad alta tensione emotiva, isolati e
circondati su un picco innevato, di notte. Moriranno da eroi, in piedi, armi in
pugno, accerchiati da un nemico spietato. Qui l’occhietto liberal si inumidisce
alquanto: il dramma americano è completo, i poveri (quelli meritevoli)
ambiscono strenuamente alla elevazione sociale, mentre il sistema li costringe
a morire, seppur eroicamente, per pagarsi gli studi. In tutto il film l’Afghanistan non
si vede, se non in quell’ambiente buio, ostile e gelato. La tragedia americana
si compie in un paese fantasma. Potrebbe essere uno scenario di guerra
qualsiasi, magari l’Iraq o la Siria, ma sempre uno
sfondo resta. Anche gli afghani nel film non esistono; si parla spesso di loro
ma non li si vede mai; sono un nemico nell’ombra, tanto più terrorizzante
quanto invisibile. Va da sé che non contano molto, sono solo comparse del
grande dramma dell’American Dream. La morale è che andare a sparare in casa d’altri
per pagarsi gli studi, è una scelta dolorosamente nobile.
Lo stesso approccio del regista Robert
Redford, viene adottato oggi dai nostri media nel raccontare “la tragedia
di Kabul”. Il popolo afghano sostanzialmente non esiste,
non lo vediamo mai, men che meno gli diamo parola. Ci interessiamo solo (un
po’) dei “nostri”, quelli che abbiamo fidelizzato e che giustamente, dopo avere
annusato i profumi d’occidente, oggi vorrebbero scappare dal loro paese e
raggiungere il paradiso: “autisti, camerieri e interpreti”, così una ragazzetta
di qualche tg li ha scrupolosamente classificati, riducendo ai suoi stereotipi
servili un orgogliosissimo popolo di guerrieri che nei secoli ha messo in fuga
ogni nemico. Ma il popolo – il popolo vero, da Kabul alle
campagne, nel suo caleidoscopio etnico e linguistico – cosa pensa della caduta
del vecchio regime e dell’avvento dei nuovi governanti? Qualcuno lo ha chiesto,
in giro? Perché fino a ora si sono sentite solo interviste e dichiarazioni di
afghani legati, in un modo o nell’altro, all’occupante. Eppure, se per
vent’anni i talebani hanno continuato a controllare buona parte del paese,
viene il dubbio legittimo che forse hanno sempre goduto di prestigio e
radicamento. E tutti lo sapevano, fingendo di ignorarlo per vent’anni – magari
per continuare a spremere miliardi al contribuente occidentale, convinto da una
narrazione fasulla ed edulcorata, che con i suoi soldi si stesse finanziando
una “missione di pace” che godeva del pieno sostegno dei cittadini afghani.
Nella verità perversamente rovesciata, piatto tipico del menu che ci stanno
servendo i media in occidente, i talebani sono gli invasori e gli
eserciti Nato il legittimo sovrano spodestato.
La domanda sul “perché gli afghani non
hanno combattuto” è la più buffa e farebbe sbellicare dalle risate quei soldati
che al momento giusto hanno gettato la divisa alle ortiche e si sono dati alla
macchia. Per chi avrebbero dovuto morire: per difendere la salvezza e i conti
correnti dei Quisling che abbiamo piazzato per vent’anni al
governo? Avrebbero dovuto morire per salvare la faccia agli Usa e
garantire una ritirata dignitosa, che non somigliasse tanto alla
maledetta Saigon? Il passaggio di poteri era già stato deciso
all’epoca degli accordi di Doha, tutti lo sapevano, anche i soldati
che “avrebbero dovuto resistere”. La saggia celerità con cui hanno rinunciato a
qualsiasi pantomima di resistenza, ha salvato loro la pelle ed evitato
ulteriori spargimenti di sangue. Probabilmente gli stessi talebani sono stati
colti di sorpresa dallo squagliamento dei reparti posti a difesa di Kabul.
Si vede che lo spirito da “autisti, camerieri e interpreti” deve avere un po’
infiacchito la memoria genetica di questi nipotini di Alessandro Magno.
I talebani invece hanno continuato a combattere, dal 2001, senza soluzione di
continuità. Forse perché non sanno fare altro, dopo quaranta anni di guerra. Ma
da dove nasce questa strenua, ostinata resistenza? Sarebbe stato più saggio e
facile piegarsi all’occidente, alle sue lusinghe, alle sue donazioni, riciclarsi
nel costruire centri commerciali e oleodotti; invece hanno continuato per
vent’anni a nascondersi nelle caverne, con i kalashnikov in mano e i droni
stelle e strisce che gli sparavano nel culo. Perché, va ricordato,
l’occupazione americana è stata anche una strage infinita, fatta di
bombardamenti su moschee e feste di matrimonio, torture e galera, compresi i
soggiorni, spesso senza ritorno, a Guantanamo. Se capiamo bene
perché i soldati regolari abbiano mollato così facilmente le loro postazioni, per
noi resta più difficilmente spiegabile l’inossidabile tenuta talebana,
protratta tanto a lungo contro un’armata multinazionale apparentemente
invincibile. Forse è la dimostrazione che c’è qualcosa di indomito, che
serpeggia nei cuori dei popoli oppressi; qualcosa che ti fa stringere i denti e
remare anche contro i flutti della storia; l’orgoglio, la dignità, un qualche
fine superiore che trascende le storie individuali e che a un certo punto si
sente dentro, come una chiamata inesorabile. Del resto perché i cubani
resistono da sessant’anni? Non sarebbe stato più facile arrendersi e mettersi
in vendita al nemico facoltoso? C’è un luogo nascosto nell’animo umano che ci
fa abbracciare l’irrazionale, il sacrificio, la morte, quando sentiamo di avere
ragione. Un posto pericoloso e necessario.
L’altro smarrimento che coglie i salottini
televisivi e gli editoriali riguarda l’incapacità dei “nostri valori” di
attecchire in quelle contrade. C’è incredulità e un pizzico di indignazione:
abbiamo speso tanti di quei miliardi e questi invece di difendere il sistema
che gli abbiamo esportato, se ne vanno per i fatti loro. Certo, gli afghani
hanno arraffato tutto quello che gli abbiamo messo davanti: i soldi della
corruzione, gli ospedali, i servizi sociali; però non hanno mai preso troppo
sul serio il nostro modello di vita, tanto da desiderare di
imitarlo. Questo è un elemento comune a tanti popoli del sud del
mondo: invidiano il nostro benessere materiale (e fanno carte false per
condividerlo) però sono un po’ scettici sul “pacchetto occidente”, sull’insieme
di “valori” (chiamiamoli così) che veicoliamo attraverso il nostro immaginario,
che è ormai largamente cine-televisivo e facilmente fruibile a livello
planetario. Ci siamo mai chiesti cosa pensano davvero di noi, del nostro mondo,
delle nostre esistenze, un contadino o un operaio di una qualsiasi periferia
del mondo non occidentale – specialmente nell’epoca dei satelliti e della
iper-connessione globale? Ma siamo sicuri che vogliono tutti diventare come
noi? Condividere i nostri stili di vita? I nostri film, le nostre serie
televisive, la nostra musica – tutte cose terra terra, d’accordo, ma l’unico
vero biglietto da visita che spediamo in giro per il mondo – danno di noi
un’idea di eccellenza, di felicità e realizzazione? O piuttosto il contrario:
offriamo di noi l’immagine di società opulente ma cronicamente depresse,
nevrotiche, compulsive, in cui i cani hanno preso il posto dei bambini e –
stereotipo per stereotipo – la modella con la barba ben rappresenta un certo
grado di confusione di cui sembriamo portatori (ebbene sì, anche i Taliban oggi
possono leggere Vanity Fair con due click). Hai voglia
ad esportare ONG. Il sistema della Shura deve sembrare
democraticamente più rappresentativo ed equilibrato delle elezioni americane,
dopo quello che si è visto in gennaio a Capitol Hill.
Non c’è un’autostrada della storia, dove
noi siamo “più avanti”, con gli altri che arrancano dietro e prima o poi
dovranno passare attraverso le stesse curve e gli stessi caselli. E noi non
siamo il punto più alto dello sviluppo umano, da imitare e raggiungere. E
questo vale anche per la condizione della donna. Se non usciamo da questa
perversione eurocentrica saremo eternamente destinati ad alternare i
bombardieri e il paternalismo, nel nostro rapporto con il sud del mondo, cioè
con la stragrande maggioranza dell’umanità che non ci capisce. Intanto, i
talebani stanno mettendo in atto un’offensiva sul piano dell’immagine e della
credibilità internazionale, che è anch’essa un segno dei tempi. È chiaro che
anche loro, come tutte le precedenti leadership afghane, stanno pensando ai
flussi d’investimento che potranno intercettare, se staranno buoni, senza
imbarazzare troppo russi, turchi e cinesi. I richiami alla Sharia sembrano
più che altro pleonastici – la Sharia non è un corpus mistico e dogmatico, è
esistita in centinaia di versioni diverse ed è sempre stata il prodotto di
mediazioni storiche e sociali, dentro tutte le società islamiche. Sicuro che la
versione attuale sarà più digeribile di quella di vent’anni fa. Del resto l’Afghanistan è
straordinariamente cambiato e i primi a capirlo sembrano essere stati proprio i
suoi nuovi padroni.
Quelli che proprio non capiscono niente
sono i nanetti europei, che fingono di ignorare che lo scenario in corso era
già stato per larghe linee definito senza la loro opinione. I tardi epigoni di
un atlantismo fuori tempo massimo (come la maggior parte della politica
italiana) non riescono a capacitarsi della facilità con cui Biden ha
mollato l’ancora ed è salpato. Continuano a pensare alle cose con un ventennio
di ritardo; stanno lì a chiedersi se “l’America ha perso” e qual è
stato il loro tristissimo ruolo nella storia. Ma di quale America si sta
parlando? Quella di vent’anni fa? Quella forse sì, ha perso, ma solo nel mondo
ideale dei proclami e delle retoriche, perché in quello reale quell’America non
esiste più da un pezzo. Gli Usa del “nuovo secolo americano”,
in cui si teorizzava la distruzione creativa e una rigerarchizzazione di
nazioni, popoli e risorse economiche, sono solo un ricordo. In un ventennio
tutto è cambiato. Nessuno stratega americano sano di mente può pensare che oggi
gli Usa abbiano la forza di permanere al centro di un’egemonia unipolare, tanto
meno dentro il caos ribollente del medio oriente. Gli Stati Uniti di
oggi sanno di essere in ritirata su tutti gli scenari strategici – a partire
dall’economia. Oggi le loro aspettative sono molto ridimensionate – gli basta
mettere fuori gioco i nemici peggiori e sferrare qualche gancio arretrando. Del
resto, la “distruzione creativa” c’è stata e in qualche modo ha funzionato: i
peggiori ostacoli americani – Saddam, Bin Laden, Gheddafi, Assad,
la Resistenza palestinese – sono morti o fuorigioco; alcuni di loro travolti
proprio dal doppiogiochismo e dal rapporto ambiguo e ambivalente che
intrattenevano con il Grande Satana. L’America di oggi
non sa che farsene dell’Afghanistan. Il nuovo gruppo dirigente democrat,
più che dei talebani, ha paura delle elezioni di medio termine e dello spettro
di una opposizione interna (armata) che non si è liquefatta: è lì, incistata,
pronta a esplodere contro quello che ritiene un ceto politico di usurpatori.
Ogni stagione ha il suo “rischio terrorismo”.
Noi abbiamo un debito storico, rispetto ai
popoli afghani. E non tanto perché stiamo smobilitando: siamo in debito perché
alla fine degli anni Settanta l’occidente ha riversato su queste terre e queste
genti un fiume inesauribile di armi e mercenari, trasformando quel paese in una
trincea, in nome della battaglia antisovietica. E per nobilitare l’investimento
e dare un senso pseudo-religioso alla contesa, i sauditi esortarono il veleno
wahabita, con un esercito di imam, sobillatori, teologi – e madrasse, moschee,
petroldollari – che cambiarono l’antropologia di queste terre, un tempo
ospitali e tolleranti. Il wahabismo ha formattato un popolo, spingendolo nella
sofferenza e nell’ignoranza. E ancora oggi, le mani che gestiscono i fondi
finanziari e immobiliari che rilevano interi quartieri metropolitani e
prestigiose squadre di calcio – mani che la borghesia occidentale bacia
volentieri – sono le stesse che aprono e chiudono i rubinetti del jihadismo
globale, spostando alla bisogna le loro truppe sullo scacchiere globale. Avere
immolato quarant’anni fa il popolo afghano sull’altare della battaglia
anticomunista: di questo bisognerebbe chiedere perdono a quelle genti
martoriate che da allora hanno conosciuto solo guerra e oscurantismo.
I popoli in rivolta scrivono la storia, si
cantava nei cortei. Ed è quello che sta succedendo in Afghanistan,
niente di più niente di meno. La prima sacrosanta rivolta è stata contro
l’occupante Nato, ed è finita. Adesso ne seguiranno altre. Il
premio Nobel V.S. Naipaul scrivendo della sua India che
si modernizzava, la raccontò nei termini di “un milione di rivolte”. È quello
che bisogna augurarsi per l’Afghanistan. Cacciato l’invasore,
assisteremo al proliferare di tanti fuochi di trasformazione in ogni angolo
della società – i talebani non riusciranno né a governarli né a reprimerli. La
fine dell’occupazione romperà la bolla di vetro di un ambiente artificiale e
stagnante, che non riusciva a produrre trasformazioni reali dentro il corpo
sociale, talmente estraneo a esso pareva. La storia e le storie entreranno in
fibrillazione, in modalità non prevedibili. In particolare, la storia delle
donne, la cui libertà è come il dentifricio: una volta uscito, neanche i più
volenterosi aguzzini possono rificcarlo nel tubetto.
La Democrazia non si esporta, si conquista - Farid Adly (*)
Leggo sui media analisi distorte
sulla disastrosa fine dell'occupazione statunitense e dei paesi della Nato in
Afghanistan. Viene negato il fallimento dell'operazione scaturita dalla
vendetta di Bush per i 3000 morti delle Torri Gemelle, nel nome della lotta al
terrorismo qaedista. Il tema centrale che si vuole sviluppare è quello della
validità del concetto di “esportazione della democrazia”, qualche volta scritta
con la D maiuscola. Alcuni commentatori usano questi temi per fini di politica
interna. Si prende di mira chi argomenta sulla caduta di Kabul, sostenendo che
l'errore fondamentale era stato il tentativo di camuffare l'intervento bellico
con slogan devianti, coprendolo con una foglia di fico.
La democrazia non si esporta, ma si
conquista!
Nessuna potenza occidentale ha il
copyright sul diritto alla libertà. Va ricordato a tutti che l'Europa è stata
la madre che ha dato i natali a fascismo e nazismo e non può dare lezioni a
nessuno. Le teorie razziste, sul deficit democratico di certi popoli, ignorano
che la democrazia è un processo sociale che va di pari passo con lo sviluppo
economico. Le dottrine politiche non hanno l'impronta etnica, ma sono
condizionate dal modo di produzione. Tutte le analisi che non prendono in
considerazione il contesto storico peccano di un pregiudizio che parte dalla
falsa superiorità dell'uomo bianco.
In secondo luogo le bombe non
portano mai libertà, ma morte. Nella condotta dei Bush, che hanno scatenato le
guerre in Afghanistan (2001) e Iraq (1991 e 2003), non c'è nulla di
democratico, ma soltanto violazione dei diritti, uccisioni e distruzioni. Gli
eserciti Usa e dei paesi Nato hanno sperimentato nuove armi e imposto il loro
dominio su uno scacchiere strategicamente importante per i loro interessi,
quello dell'Asia centrale e del Golfo arabo-persico.
Guardare agli eventi soltanto dal
punto di vista occidentale e non ascoltare anche le voci dei popoli oppressi è
un limite che porta ogni discussione fuori strada. Tutti i popoli aspirano alla
libertà e per realizzarla sono stati disposti, e lo sono tuttora, a molti
sacrifici. Nessuno aspetta l'elemosina dei paesi capitalistici e soprattutto si
dovrebbe avere la consapevolezza che le guerre e la vendita di armi non aiutano
le forze democratiche nel sud del mondo, anzi consolidano i regimi dispotici e
corrotti amici dell'Occidente. Gli esempi dell'Arabia Saudita e dell'Egitto
sono lampanti. I fratelli e le sorelle afgane di orientamento democratico e
progressista, dopo 20 anni di occupazione, non partono dal punto zero, ma da molto
e molto più indietro: i fondamentalisti adesso sono visti dalla povera gente
come dei liberatori che hanno sconfitto la più grande macchina da guerra. Gli
effetti sulle altre realtà, dal Medio Oriente all'Africa, si faranno sentire
con una nuova ondata di integralismo soffocante ed assassino.
Agli strateghi delle capitali
dell'opulenza questo effetto domino è un aspetto collaterale di seconda
importanza, perché saranno altri a pagarne l'alto prezzo; infatti, il jihadismo
ha mietuto più vittime tra i popoli di fede islamica.
A 20
anni di distanza rinnovo il mio appello: “Occidentali, non vendeteci più armi!”
(*) Farid Adly è direttore
di Anbamed, notizie dal Sud Est del Mediterraneo
Per le donne afghane - Magistratura democratica
Così scriveva Jane Austen nell’incipit di Orgoglio
e pregiudizio, nell’anno 1813, parlando della condizione della donna in
quel tempo, nella occidentalissima Inghilterra: «È una verità universalmente
riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in
cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben
poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità è così radicata
nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà
dell’una o dell’altra delle loro figlie».
Così scriveva, ancora, Azar Nafisi in Leggere
Lolita a Teheran (p. 292), parlando della condizione femminile
nell’Iran di Khomeini e commentando il libro della Austen: «All’inizio della
rivoluzione avevo sposato un uomo che amavo. […] Quando nacque mia figlia,
cinque anni dopo, eravamo già tornati ai tempi di mia nonna: la prima legge a
essere abrogata […] fu quella che proteggeva la famiglia e garantiva i diritti
della donna a casa e sul lavoro. L’età minima per il matrimonio venne di nuovo
abbassata a nove anni – o meglio, otto e mezzo lunari, ci dissero. L’adulterio
e la prostituzione dovevano essere puniti con la lapidazione. E, infine, le
donne per legge valevano esattamente la metà di un uomo». Erano i tempi
della rivoluzione che portò l’ayatollah al potere e che condusse con sé questo
tipo di decisioni. Le uniche donne nel regime più liberale diventate
personaggio pubblico, sulla scorta delle loro conoscenze e capacità, subirono
l’esilio (ove già fuggite all’estero) o la pena di morte.
C’è da domandarsi cosa scriverà la letteratura di
domani quando registrerà il regresso delle condizioni umane, specie delle
donne, a causa dell’ingresso dei Talebani a Kabul e se in quella letteratura
resterà traccia della impotenza dell’Occidente tutto.
Lungi dal proporre l’occidentalizzazione dei costumi
come panacea di ogni male, Magistratura democratica resta convinta che ogni
regime autoritario che passi dall’oscurantismo della condizione della donna
debba essere approfondito oggetto di una campagna internazionale di
mobilitazione delle coscienze e di sostegno umanitario. Consapevoli della
complessità della questione e della difficoltà di soluzioni che non passino da
iniziative politiche militari, Magistratura democratica, nel plaudire a tutte
quelle associazioni umanitarie, nazionali e non, che si pongono a sostegno
delle condizioni delle donne afghane, auspica che tutti i Governi e gli
organismi internazionali mettano al centro dei loro programmi il dovuto ausilio
alla popolazione afghana e attivino ogni necessario meccanismo di protezione
internazionale per le donne e i profughi di questo Paese.
Il disastro
della "missione afgana" -
Il disastro in Afghanistan è un disastro annunciato perché gli
Stati Uniti, prima con Trump poi con Biden, avevano già trattato l'uscita
dal paese con i talebani. Il governo americano si era reso conto che
ogni anno migliaia di soldati che abbandonavano l'esercito afgano
si disperdevano o venivano reclutati dalle milizie che avrebbero
dovuto combattere.
Il risultato di 20 anni di guerra è un disastro da tutti i punti di
vista. La missione afgana è costata all'Italia 53 soldati morti
oltre 700 feriti con danni permanenti e con menomazioni gravissime
di cui porteranno le conseguenze per tutta la vita. Solo il nostro Paese
ha speso 8,5 miliardi di euro in questa lunga missione, si tratta di
soldi sottratti alle spese sociali con le quali si sarebbe potuto assicurare
una vita migliore agli afghani costruendo strade, ospedali, scuole.
Soldi utilizzati per assicurare alle multinazionali il controllo
delle vie di transito dell'energia. Il bilancio complessivo è molto
più grave: sicuramente hanno perso la vita più di 200 mila persone, di
cui 70 mila civili. Fra i morti vanno ricordati i circa 4.000 contractor
statunitensi uccisi in combattimento, si tratta di mercenari di
cui poco si sa e poco si dice, ma che hanno avuto un ruolo determinante nel
conflitto.
Come sappiamo l’impresa afgana è stata giustificata ufficialmente
con la volontà di “esportare la democrazia” nel paese asiatico, la
stessa motivazione adottata per le guerre in Siria e in Iraq. Pochi
sanno che le cause della guerra hanno origini lontane. Nel 1997, pochi
mesi dopo che i talebani presero il controllo dell’Afghanistan, la
grande multinazionale petrolifera statunitense Unocal trattò
con i capi talebani un accordo che avrebbe consentito di costruire
un oleodotto che dal Turkmenistan passando attraverso l’Afghanistan
avrebbe raggiunto il Pakistan e l’India. L’accordo non fu raggiunto.
Questo progetto che consente di aggirare il territorio iraniano è
tuttora in campo e va considerato come uno degli elementi in gioco
nello scacchiere afgano.
Le implicazioni geopolitiche della situazione afgana, e di questa
nazione fra le più povere del mondo, sono molteplici e complesse. Dovremo
tornarci in modo articolato. Sono molti i fattori che intervengono
nella questione afghana. Intanto va considerato il ruolo di grande
rilevanza del Pakistan dove si trovano i padrini politici dei talebani,
vanno considerati i loro finanziatori internazionali che probabilmente
si trovano a Doha nel Qatar.
Per quanto riguarda L'Europa e l'Italia non emerge nessuna linea
comune nei confronti dell'Afghanistan e nei confronti dei migranti.
L'Unione Europea vorrebbe evitare che Cina, Russia e Turchia la facciano
da padrone con normali relazioni commerciali e politiche con il
nuovo Afghanistan, relegando in secondo piano gli interessi europei.
Per quanto riguarda la questione dei futuri profughi afghani da un
lato abbiamo un'ipocrita solidarietà nei confronti delle donne e
della popolazione civile, dall'altra prevale la realpolitik che,
per quanto riguarda Francia e Germania, con le elezioni vicine, ha
come obiettivo quello di bloccare i flussi migratori afghani, anche
attraverso accordi con la Turchia e il Pakistan sull’esempio degli
accordi raggiunti fra Unione europea e Turchia nel caso dei profughi
siriani.
Si continua ancora una volta a chiedere all'Europa di interfacciarsi
con gli Stati Uniti all'interno della gestione delle politiche globali
che in passato hanno palesato tutte le loro contraddizioni. Ci sembra
anche evidente l'enorme contraddizione con la quale si imputa a Trump
la scelta di abbandonare l'Afghanistan. Una scelta dettata in primo
luogo dai costi eccessivi della guerra e dalla necessità degli Stati
Uniti di utilizzare i fondi impiegati nell'avventura afgana a sostegno
di un welfare che proprio in epoca pandemica si è dimostrato del tutto
inadeguato, insufficiente, incapace di assicurare cure e assistenza
alla popolazione americana. Queste sono le reali motivazioni per le
quali è stato abbandonato l'Afghanistan, è stata una crisi tutta interna
all'imperialismo americano.
Intanto si sta già mettendo in moto la macchina delle menzogne, ad
esempio quella secondo cui i talebani proteggerebbero Al Qaeda, ma
nulla viene detto sulle migliaia di contractor presenti nel territorio
afghano e sul cui futuro nulla sappiamo. Soprattutto per chi combatteranno
per quali tipi di interesse, se abbandoneranno il paese come lo abbandoneranno.
Di sicuro gli interessi di Al Qaeda e quelli talebani non sempre
sono andati nella stessa direzione, mentre invece è acclarato che a
potenziare la mano di Al Qaeda sono stati anni di sovvenzioni degli Stati
Uniti in funzione antisovietica prima, e antirussa e anche anticinese
oggi. Al contempo l'Europa continua ad essere divisa sulle questioni
dei migranti perché è certo che al seguito di ogni guerra ci sono flussi
migratori che devono essere fronteggiati e gestiti. A tutti è sfuggito
il particolare che la sede del governo dei talebani è a Doha dove qualche
nostro politico ogni tanto va a parlare in qualità di conferenziere.
È repellente la sensazione che proviamo leggendo l'ultima intervista
di Enrico Letta che dichiara che “la democrazia non si può esportare”,
peccato che sia quello che è accaduto negli ultimi vent'anni.
Non sappiamo con quale coraggio il Partito Democratico parli dell'impossibilità
di esportare la democrazia attraverso i conflitti armati, perché è
l'esatto contrario di quanto hanno praticato. L'intervista rilasciata
da Letta a Repubblica è un campionario di luoghi comuni, ma anche di
grosse contraddizioni. Per lui il problema sta nell'unilateralismo
con cui gli Stati Uniti hanno gestito la questione afghana, come se la
loro concertazione con l'Unione Europea nella gestione del conflitto
avrebbe potuto cambiare gli esiti della guerra. In realtà quello che
dice Letta a mezza bocca è che l'obiettivo suo e dell'Unione Europea è
quello di continuare a intromettersi nella vita del popolo afgano,
magari proponendo un governo di unità nazionale a sostegno degli interessi
occidentali che sono ancora molto forti all'interno del paese.
Ci sembra poi del tutto ipocrita che oggi il Partito Democratico
si ricordi della figura di Gino Strada esaltandone l'operato, quando
in realtà Gino Strada nel corso del lavoro con Emergency è stato di fatto
osteggiato da questo Partito in nome delle “guerre giuste.”
Afghanistan, ora ci vuole la nonviolenza -
Comunicato stampa del Movimento Nonviolento sulla situazione Afghana
La prima vittima della guerra è la verità.
In Afghanistan quello che è accaduto negli ultimi 20 anni, dal 2001 al
2021, si è retto sulla menzogna, una montagna di bugie sostenute e diffuse dai
militari combattenti delle varie fazioni, dai politici responsabili delle
scelte fatte, dall’informazione al soldo degli interessi in campo. Poi ci sono
le vittime in carne ed ossa, bambini, donne, uomini, morti o feriti sotto le
bombe, negli attentati, negli scontri, o cercando di fuggire da un futuro di
paura.
La guerra cambia il significato delle parole: gli invasori diventano
liberatori, i terroristi diventano patrioti, i morti degli altri diventano
effetti collaterali.
L’attacco terroristico dell’11 settembre a New York (il primo della storia
in diretta televisiva) non poteva rimanere senza risposta, ma quella
dell’invasione dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Kabul, è stata la più
sbagliata: ha innescato reazioni a catena con variabili indipendenti e fuori
controllo, che in vent’anni hanno determinato una situazione insostenibile. La
fuga precipitosa degli eserciti stranieri lascia il campo in mano proprio a chi
doveva essere battuto. E quel che è peggio, gli lascia in eredità un ingente
arsenale di armi che dovevano “esportare la democrazia” e ora saranno al
servizio del nuovo Emirato islamico: cambia ideologia, ma la violenza è la
stessa. Un’intera generazione è cresciuta conoscendo solo la guerra come
condizione di vita e di morte.
I risultati di quella guerra sono la diminuzione delle aspettative di vita
degli afghani, la crescita della mortalità infantile, l’aumento della povertà e
il calo dell’alfabetizzazione. Solo i produttori di sistemi militari si sono
arricchiti a dismisura (con un rendimento addirittura dell’872% ci dicono gli
analisti della Rete Pace e Disarmo, di Opal, di Milex, gli unici che forniscono
i dati reali di questa guerra che all’Italia è costata 8,7 miliardi di euro).
Ora vige il caos ed è facile prevedere che si aprirà la stagione della
guerra civile tra le diverse etnie sostenute da altre potenze esterne. Il
bottino Afghanistan è troppo ghiotto, ricco com’è di materie prime (tra l’altro
produttore dell’80% di oppio a livello mondiale), e la cui importanza
strategica geopolitica è determinata dal suo ruolo di crocevia asiatico. Qualsiasi
tentativo di semplificazione della storia e dell’attualità afghana porterebbe
ad errori di valutazione, ma è fuori di dubbio che oggi le influenze maggiori
sul suo futuro si giocano tra Pakistan, Cina, Russia, Turchia, Iran, ma anche
sul ruolo che i giovani afghani vorranno prendere nelle proprie mani. In questi
giorni i riflettori sono puntati sull’aeroporto internazionale di Kabul, ma la
stragrande maggioranza delle persone, donne, uomini e ragazzi dell’Afghanistan
di domani, sono nelle province, nelle periferie, nelle montagne e sugli
altipiani di quella sterminata regione, dove i “corridoi umanitari” non
arriveranno mai e dove si determineranno i destini di quelle persone. Le poche
reali informazioni che abbiamo vengono dalle Organizzazioni non governative,
anche italiane, o dalle Agenzie internazionali che sono e restano davvero
presenti sul territorio nonostante i disastri combinati dall’operazione
militare Usa-Nato. Sono le sole voci, insieme a quelle delle associazioni della
società civile afghana, oggi ascoltabili e che possono parlare con
dignità. Irricevibili e vergognose, invece, le parole ipocrite di politici e
partiti che avevano sostenuto le ragioni dell’intervento armato, votato i
finanziamenti della missione militare, e di giornalisti ed “esperti” che hanno
giustificato la “guerra giusta” contro il terrorismo internazionale e per
“liberare le donne” dal burka, ed ora ci spiegano, con la stessa faccia tosta,
la necessità dell’aiuto umanitario, affidato a quelle stesse forze armate
artefici del clamoroso fallimento militare. Ma davvero non si vergognano?
Davanti a questo sfacelo, ampiamente previsto da chi si è opposto a questa
guerra infinita, come a tutte le guerre, ci sono solo tre cosa da fare:
·
moltiplicare l’impegno nonviolento contro la preparazione della prossima
guerra (contro l’industria bellica, contro i bilanci militari, contro le banche
armate, per la smilitarizzazione e l’istituzione della difesa civile non armata
e nonviolenta);
·
offrire aiuto alle vittime della guerra, ai profughi che fuggono dalla
violenza;
·
sostenere l’islam nonviolento contro il fondamentalismo talebano,
sull’esempio di Abdul Ghaffar, detto Badshah Khan (il Gandhi
musulmano), che operò in Pakistan e Afghanistan, fondando il primo
“esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente.
La vostra ipocrisia - Paolo Cacciari
Guerrafondai impenitenti. Voi tutti che avete riempito pagine di giornali e schermi delle tv per giustificare le guerre “giuste”, i bombardamenti “mirati”, le invasioni “liberatrici”, tra cui l’operazione “Enduring Freedom”, potreste, almeno in questo momento, avere il pudore di risparmiarci questo spettacolo indecoroso di ipocrisia per le sorti delle donne afghane?
Voi governi della Nato che avete usato in Afghanistan tanti (nostri) denari per armi (due trilioni di dollari) quanti nella seconda guerra mondiale, vi facciamo una proposta per verificare se davvero avete a cuore il bene delle persone oppresse: continuate a stanziare le stesse cifre per altri vent’anni, ma questa volta non per armi, ma per migliorare le condizioni di vita delle persone affidandoli non a militari, ma alle organizzazioni non governative internazionali (che operano sul modello di Emergency per la sanità, dell’Unicef per i bambini, della UN Entity for gender Equality and Emplowerment of Women, del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, o altre).
Voi che avete approvato ogni anno per vent’anni i crediti di guerra per finanziare l’invasione dell’Afghanistan non vi viene in mente, neppure ora di fronte di un così evidente, clamoroso e vergognoso fallimento della missione militare, che la strategia della vendetta e dell’”occhio per occhio” rende il mondo cieco (Gandhi), non più pacifico e tantomeno più giusto? Non vi accorgete che le guerre non risolvono, ma aggravano e incancreniscono i problemi di convivenza tra i popoli e di rispetto dei diritti umani?
Voi che ritenete di avere l’esclusiva del modello più avanzato di civiltà, non vi siete mai interrogati delle ragioni per cui l’Occidente suscita in tante parti del mondo tanta repulsione e odio?
Voi che avete ammantato le vostre brame di dominazione su tutte le terre e le risorse del pianeta con la promessa di portare benessere e libertà ai popoli, potreste per una volta prendere atto con modestia e realismo del vostro fallimento?
Voi che piangete lacrime di coccodrillo per la sorte dei collaboratori civili dei vostri governi fantoccio abbandonati a se stessi a Kabul, perché non riaprite subito le frontiere, per loro e per tutte le donne e gli uomini perseguitati non solo dai talebani islamisti, ma anche da tutti gli altri regimi politici oppressivi, maschilisti, schiavisti, fondamentalisti religiosi che imperversano sul pianeta?
Voi che avete deriso come “anime belle” i movimenti pacifisti e nonviolenti che pure vi avevano avvertito in tutti i modi che le vostre pratiche di guerra sarebbero state controproducenti, per una volta, dategli ascolto: ritirate i militari da ogni parte del mondo (ad iniziare da Iraq e Libano) e lasciate fare alle forze di interposizione nonviolenta e alla cooperazione internazionale vera (non quella dei business del petrolio e delle materie prime).
Voi che in vent’anni di occupazione militare avete lasciato che l’Afghanistan diventasse il più grande narco-stato del mondo, cosa state facendo per evitare di importare oppiacei per rifornire i nostri civilissimi e floridi consumi di droga?
Ma prima di tutto, per poter ripartire davvero su basi nuove, dovreste imparare a chiedere scusa.
Parole magiche e responsabilità - Emanuele Giordana
Ha ragione Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni unite, che ieri ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo – ha detto – di diplomazia». Mentre il dibattito sembra vertere invece solo sulla fuga da Kabul e sulla cattiveria della guerriglia in turbante, riappare la politica e quella parola magica che ne presuppone altre: negoziato, trattativa, dialogo. Ha ragione Lakhdar Brahimi. Ma è solo. O meglio, se l’Onu ha comunque già deciso di non abbandonare il Paese, i governi degli eserciti che per due decenni han presidiato il campo afghano hanno invece chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia.
ANZICHÉ ESSERE DOVE ORA si dovrebbe trattare, negoziare, accompagnare,
le ambasciate occidentali si sono trasferite a casa come se anche il lavoro
politico si potesse fare via zoom. In Afghanistan la pandemia si chiamava,
oltreché Covid, anche “guerra” e per gestirne la sua (apparente) fine sarebbe
necessario essere lì, non certo dall’altra parte del pianeta.
Aiutare chi si sente minacciato è un dovere etico oltreché un atto di
solidarietà dovuto ed è dunque necessario che, come da più parti si chiede, il
ponte aereo vada avanti sino alla finestra del 31 agosto (che pare sia stata
garantita da chi comanda a Kabul) imbarcando tutte le persone in serio pericolo
le cui liste sono state inviate al ministero degli Esteri e della Difesa. Ma
terminata questa missione emergenziale quanto essenziale, che non può
chiaramente svuotare l’Afghanistan dagli afghani ma solo garantire un porto
sicuro a chi potrebbe rischiare la vita, è necessario che la politica e non la
logica dell’emergenza prenda il sopravvento.
DI QUESTA POLITICA e dei ragionamenti conseguenti per ora non si è
vista l’ombra né nelle dichiarazioni di Draghi, né in quelle dei ministri del
suo governo. Non ci sembra che si stia guardando – come d’abitudine – oltre il
cortile di casa, concentrandosi al massimo sulle polemiche che già arrivano
contro i sindaci che aprono le porte delle loro città ai profughi. O al massimo
rimproverando a Di Maio l’ombrellone pugliese. Nessuno che gli abbia chiesto di
parlare del futuro.
Politica significa – come ha scritto Luciana
Castellina due giorni fa – anche dialogare col nemico. Come dice anche Brahimi:
trattare, negoziare, dialogare.
Tre verbi che la società civile italiana ha sempre tentato, inascoltata, di
coniugare sin dall’inizio della sciagurata campagna del 2001. Tanto le premeva
allora una soluzione negoziata alla guerra, che in questi giorni già si va
formando un gruppo di persone che di questo discute: finiti i sacrosanti ponti
aerei, come si gestirà l’emergenza umanitaria? E, durante quella, cosa faremo
per garantire che le conquiste della società civile afghana non vadano perse?
Cosa faremo per sostenere chi è rimasto anche correndo seri rischi? Come
potremo garantire che chi arriva ora in Italia possa tornare in sicurezza a
casa propria (un sacro diritto, non un becero rimpatrio forzato)?
SEBBENE SIA INCREDIBILE che lo sfascio di una guerra debba essere
quantomeno analizzato soprattutto da chi l’ha sempre condannata come soluzione
– peraltro in linea col dettato costituzionale – questo è ciò che nei prossimi
giorni faranno le persone convinte che le soluzioni si trovano solo quando
vengono cercate. E senza aspettare il buffetto del padrino di turno. In attesa
che il nostro governo si pronunci e con lui un parlamento che le vacanze
tengono silente, salvo rari e molto apprezzati casi, cercheremo di fare la
nostra parte.
Tutto ciò ha bisogno di un quadro sereno e non solo in Afghanistan. Il
fuggi fuggi e la sindrome di Saigon – che si è comprensibilmente impossessata
degli afghani – sembrano aver contagiato anche noi e reso piatto anche
l’encefalogramma del pensiero nazionale che di solito elargisce pillole di
saggezza. Buona parte della stampa italiana sembra infatti ancorata alla
ricerca affannosa degli scantinati più bui da cui far emergere voci angosciate
che ci strappino una lacrima; alla ricerca di una fiammella che possa divampare
in un fuoco che incendia la prateria e la prima pagina.
LE TRE MAGICHE PAROLINE: trattativa, negoziato, dialogo faticano a spuntare
ma qualcuno ci prova. Se ne discuta anche animatamente e senza nascondersi le
responsabilità collettive, tanto meno quelle di noi giornalisti, colti di
sorpresa da una realtà che ci ha stupiti e sopraffatti non meno di politici e
generali.
Fonte: il
manifesto
Favole da Kabul - Marco
d'Eramo
Nella narrazione di questi giorni
mancano alcuni particolari. Per esempio, che per molti anni i talebani sono
stati finanziati e armati dagli americani in funzione antisovietica. Ma
naturalmente anche la narrazione inversa, quella che vuole i talebani
coraggiosi combattenti antimperialisti, è una favola, perché non basta
essere vittime per diventare innocenti.
Ok, tutti i talebani sono orchi cattivi. Non sono come i comunisti che
mangiavano i bambini, loro li violentano e basta. E tutti i 48 milioni di
afghani sono minorenni indifesi che noi occidentali, prodi difensori NATO degli
inermi, abbiamo vilmente lasciato orfani in preda a questi orribili babau. Le
mamme afghane praticano addirittura il lancio dell’infante (oltre il filo
spinato), come sembra mostrare una singola foto ritrasmessa migliaia di volte.
La narrazione che ci viene spiattellata di quel che sta succedendo a Kabul
e dintorni è così demenziale che si fa fatica a credere come mai in così tanti
ci crediamo. Dimentichiamo alcuni particolari. Il primo è che gli orchi
cattivi, i barbari spauracchi, sono stati finanziati, armati, addestrati,
incoraggiati per più di dieci anni dagli stessi americani per combattere altri
protettori stranieri degli inermi afghani, solo che allora i paladini della
modernità erano sovietici (oh perfido Osama bin Laden!). Il secondo, e più
importante, è che gli orchi hanno riconquistato tutto l’Afghanistan in un paio
di mesi senza praticamente sparare un colpo, cioè con l’accordo di tutta (o
quasi) la popolazione afghana. Il corollario logico di questo fatto è che i 48
milioni di minorenni afghani non amano affatto i loro autonominatisi tutori, i
benigni protettori delle donne e dei bambini. E soprattutto, come ha avuto il
coraggio di dire solo una giornalista alla Bbc, il corollario di questa
riconquista senza colpo ferire è che, nella quasi totalità, gli afghani odiano
questi invasori occupanti che per venti anni li hanno trattati come bambini
arretrati a cui inculcare le regole elementari della civiltà e della
democrazia. Dimentichiamo sempre che, per quanto benigni e illuminati, in
genere gli occupanti stranieri sono piuttosto invisi. Come già sapeva Rudyard
Kipling, il fardello dell’uomo bianco è di sopportare l’ingratitudine dei
popoli a cui pensa (o crede) di apportare la civiltà.
Immaginiamo una narrazione che racconti come gli eroici talebani, pur in
posizione di micidiale inferiorità di armamenti, di risorse, di tecnologia,
sono riusciti a cacciare dal proprio Paese gli occupanti della più potente
coalizione al mondo. E che una minoranza di collaborazionisti (nella Francia
liberata dai tedeschi le donne collaborazioniste venivano rapate a zero)
voglia, con giustificato timore, scappare all’estero, come avvenne nella
Saigon liberata dai vietcong nel 1975. Venti anni di
occupazione creano qualche centinaio di migliaia, forse qualche milione di
collaborazionisti.
Il che ci porta a guardare l’integralismo islamico come la nuova forma che
assume la lotta anticoloniale: l’esempio più lampante e rivelatore è quel che
sta succedendo nel Sahel, dove la guerra antifrancese ha preso le forme del
fondamentalismo islamico. Non fa piacere dirlo a un fedele discepolo di Denis
Diderot quale sono io, ma così è (dialettica dell’illuminismo, Theodor Adorno,
eccetera). Non è quello che speravamo, che Marianna si mettesse il burqa.
Non sempre, anzi quasi mai, l’antiimperialismo è portatore di valori
illuministici (basti pensare al cattolicesimo retrivo dei nazionalisti
irlandesi nella loro lotta d’indipendenza contro la Gran Bretagna). E quindi la
narrazione inversa alle fiabe per bambini è anch’essa una fiaba, perché non
basta essere vittime per diventare innocenti. Non solo, ma come mi faceva
notare Robin Blackburn, ogni volta che i popoli islamici hanno cercato di
accedere alla modernità, all’indipendenza e alla democrazia per via laica,
l’occidente glielo ha impedito con le buone, ma soprattutto con le cattive (si
ricordi come fu estromesso il moderato iraniano Mohammad Mossadeq, o si pensi
alla strage dei comunisti indonesiani), finché, come in un esperimento
comportamentale, l’unica via che gli è stata lasciata aperta è quella
integralista. Senza dimenticare che le due grandi rivoluzioni che hanno
traghettato il mondo anglosassone nella modernità furono opera dei
fondamentalisti: i padri pellegrini che sbarcando dal Mayflower nel 1620
fondarono quelli che sarebbero diventati gli Stati uniti d’America, e i
puritani di Olivier Cromwell che furono i primi europei a tagliare la testa a
un re (1649).
Perciò, per favore, basta con questa favoletta che ripropone spudorata il
mito dell’imperialismo umanitario di Gladstone e di Kipling in cui
tutti i media occidentali si strappano i capelli e si stracciano le vesti per
non essere stati abbastanza imperialisti e non voler rimanere un altro secolo a
occupare un paese che non avrebbero mai dovuto invadere.
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