Università e
invasione neoliberista - Paolo Mottana
Tanti hanno digerito come se niente fosse la trasformazione dell’università
in azienda e degli studenti in clienti. Del resto sempre più spesso ciascuno di
noi si considera “capitale umano”. “Ogni volta che produciamo qualcosa per il
mercato economico – scrive Paolo Mottana – e non per un intrinseco e
appassionato interesse di ricerca o di relazione o seguendo un nostro
desiderio, posto che non sia stato già plagiato dalla logica aziendale, stiamo
rafforzando il sistema che ci distrugge, che distrugge la vita, le relazioni…”
Dobbiamo stare molto attenti a quello che ci sta succedendo,
inconsapevolmente e perciò in modo tanto più incisivo. Lo vedo nei colleghi
universitari che in questi anni hanno digerito come se niente fosse la
trasformazione dell’università in azienda, il mutamento progressivo del
loro linguaggio, l’accettazione supina di un sistema di ricerca totalmente
nelle mani di un mercato finanziario e di fondazioni il cui scopo è tutt’altro
che pacifico e che corrisponde perlopiù a logiche commerciali.
Hanno accettato che gli studenti fossero considerati clienti la cui soddisfazione e
numerosità è diventato l’unico criterio di qualità, hanno accettato il benchmarking tra
atenei, l’avvento della parola governance nel nostro mondo
come se fosse cosa innocente e non l’avvento sempre più intenso della lingua
capitalista neo-liberista e manageriale nel nostro mondo, l’insinuarsi di criteri
di concorrenza nella valutazione delle persone a partire dalle loro
qualità manageriali o di quelle di accaparrarsi fondi di ricerca piuttosto che
nel merito di quello che fanno come docenti e ricercatori. Infine la
squalifica, senza battere ciglio, di chiunque non accetti questo sistema di
cose.
Che ci sta succedendo? Come abbiamo potuto divenire così ciechi? O forse non
abbiamo mai visto? O forse abbiamo visto benissimo (il che sarebbe davvero
inquietante)? Ricordo che anni fa, quando facevo presente a una Direttrice di
Facoltà (all’epoca si chiamava ancora così) che stavamo muovendoci rapidamente
verso la logica aziendale lei mi rispose che era ineluttabile e che “ora si fa
così”, la stessa logica dell’ineluttabilità che fa sì che accettiamo il
dominio del mercato e del neo-liberismo in ogni attività della nostra vita e
che ormai ciascuno di noi si considera “capitale umano” e investimento
personale, non diversamente da una quota di azioni, come se nulla fosse.
La stessa logica dell’unico mondo possibile che da anni l’ideologia
neo-liberista con i suoi Chicago Boys e l’infiltrazione pervasiva in tutte le
grandi istituzioni accademiche e poi statali e poi scolastiche ha fatto sì che
tutti fossimo arruolati nel grande esercito dell’autopromozione,
dell’autoinvestimento, dell’autosfruttamento e questo solo per rendere ancora
più forte un sistema di dominio che non sembra volersi far sfuggire più nulla,
facendo del valore economico l’unico e ormai sacro criterio di distinzione
qualitativa tra le cose, le persone, le scelte.
Sono sgomento davanti a tutto questo e invito tutti a sorvegliarsi con
grande attenzione perché ogni volta che produciamo qualcosa per il
mercato economico e non per un intrinseco e appassionato interesse di ricerca o
di relazione o seguendo un nostro desiderio (posto che non sia stato
già plagiato dalla logica aziendale) stiamo rafforzando il sistema che
ci distrugge, che distrugge la vita, le relazioni, quel residuo di qualità
umana che stava nel cercare l’armonia con tutto ciò che ci circonda e nel
rispetto per ogni altro.
Occorre letteralmente rifiutarsi, fare sciopero bianco, difendere il vecchio
valore di un’istituzione che ancora non moltissimi anni fa, pur con i suoi
molti difetti, era organizzata per promuovere il libero sapere, la circolazione
della cultura (anche di quella critica) e il gusto di tramandare ai più giovani
il rispetto per le idee nella loro pluralità ma anche nel loro significato
emancipatorio, liberatorio e non succube del potere, se possibile in tutte le
sue forme.
Nessuno è riuscito a fermarle - Cinzia Pennati (Penny)
Le ho ascoltate due volte, al minuto 34. La prima volta da sola, l’altra con mia figlia. Queste tre ragazze Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante, Virginia Grossi, potevano prendersi il loro diploma e chiuderla lì, invece, si sono esposte e non credo l’abbiano fatto a cuor leggero, tanto è vero che la voce, a tratti, tremava (qui il video che ha fatto il giro del web con il discorso delle tre neolaureate durante la consegna diplomi alla Normale di Pisa, ndr).
Era una voce mai arrogante, friabile ma determinata, non c’era
nulla in loro “delle donne con le palle”, quelle donne di sistema di cui in
Parlamento e fuori ne abbiamo una grande rappresentazione. Non c’era
emulazione dell’uomo che comanda, soggetto e oggetto del patriarcato,
c’erano tre giovani donne che hanno condiviso un’azione politica e un messaggio
fondamentale per tutti e tutte noi.
Da insegnante, mentre queste tre giovani donne parlavano, pensavo che i
nostri ragazzi e ragazze hanno diritto a una scuola non performante ma
formativa, non competitiva ma in grado di mettere in azione le competenze
individuali nell’azione collaborativa. Un sistema scolastico non
frontale, io insegno tu galleggi, ma relazionale, il successo dipende
anche dal modo in cui stiamo dentro alla relazione di
apprendimento-insegnamento.
Inoltre, nel loro discorso, hanno evidenziato come la scuola e la
ricerca siano al servizio non della società e del benessere di tutti ma alle
logiche di mercato. Quella scuola-azienda che tanto detestiamo perché
non libera ma soggetta al potere economico.
Non hanno dimenticato nessuno, hanno ringraziato tutti i lavoratori e le
lavoratrici, anche quelli che omettiamo tutti perché non stanno seduti dietro
ad una cattedra.
Hanno parlato chiaramente della disparità di genere, del lavoro di cura
che ricade sulle donne incompatibile, spesso, con il desiderio di raggiungere i
propri traguardi lavorativi.
Hanno parlato del divario tra nord e sud, di chi tra di loro, ragazzi e ragazze,
proprio per la competizione e il modello performante a cui sono sottoposti, si
è perso per strada.
A un certo punto mentre parlavano hanno usato parole così potenti che mi
sono commossa. “Se noi siamo arrivate qui non è grazie a questo sistema, è nonostante
questo sistema”.
Ho pensato a tutti quegli insegnanti e genitori che credono che la
disciplina, la meritocrazia, la competizione, la performance, fortifichino
l’animo e debbano essere il “fulcro” del sistema scolastico. Ecco,
quando pensiamo a riformare la scuola, invece di attaccarci all’innovazione
digitale come panacea di tutti i mali, dovremmo pensare ad ogni singola parola
di questo discorso.
Inoltre, ci terrei a ribadire che Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante,
Virginia Grossi, rappresentano per me, quel femminile – che non ricalca il
modello maschile – che dovrebbe entrare in politica. Quella capacità di tenere
insieme ogni parte, di riconoscere il valore individuale ma, soprattutto,
collettivo, di prendersi cura in modo giusto della distribuzione del potere.
Quella capacità conciliante, non performante, non discriminante, non
patriarcale, capace di non negare la propria friabilità ma di inglobarla e
superarla.
Nonostante quella voce tremante, nessuno è riuscito a fermarle, eppure la rappresentazione
del potere a cui siamo abituate e abituati, le capacità di leadership che ci
hanno imposto, a tratti volgare, presuntuosa, privilegiata, esclude tutte le
abilità di cui queste giovani donne si sono fatte portatrici.
Ma quanta forza, potere e determinazione c’era nel loro modo di porsi e
nelle loro parole?
A questo punto non c’è migliore conclusione per questo post che quella
formulata da loro: “La retorica dell’eccellenza su cui il sistema
scolastico e sociale poggiano, non è compatibile con l’incompletezza e la
fallibilità di ognuno di noi”. Eccola la scuola di cui avremmo
bisogno.
Non sono in credito – Claudio Giunta
Come altre persone che lavorano
nell’università, e soprattutto come altri ex allievi della Scuola Normale di
Pisa, ho ascoltato il discorso pronunciato da tre normaliste in occasione della
consegna dei diplomi di licenza, discorso molto severo circa il sistema
universitario italiano (iniquo, precarizzato, asservito a logiche neoliberiste)
e critico con il modo in cui si vive e si studia alla Normale (enorme pressione
sugli studenti, carrierismo, scarsa collegialità, maschilismo):
L’ho ascoltato, devo dire, con scarsa
simpatia, persino con un certo fastidio. Dal momento però che conoscenti e
amici di cui ho stima sono rimasti – al contrario – favorevolmente
impressionati, vorrei provare a spiegare, anzitutto a me stesso, le ragioni di
questa mia insofferenza…
Claudio Giunta e l’apologo della pompa di benzina -
Eliseo Martini
Breviario in 15 punti per non perdere la
fede nell’intelligenza. Una polemica che parte dalla denuncia del neoliberismo
da parte di tre normaliste
1
Se fosse soltanto per il livore
che esprime e la totale vacuità delle sue argomentazioni, l’articolo di Claudio Giunta che
prende posizione su “il Post” contro l’intervento di
Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, le tre studentesse
della Normale di Pisa, non varrebbe neanche un briciolo dell’attenzione che il
suo autore cerca disperatamente. Diverso è invece se quella lunga e
paternalistica filippica viene analizzata come artefatto tipico di una
intellettualità (ex) di sinistra sepolta nel sistema universitario italiano,
tanto da essere diventata muta nel dibattito pubblico ma che è sempre pronta a
prendere posizione contro chi ha il coraggio di metterne in discussione i
privilegi e l’autorità morale.
Claudio Giunta e il suo
intervento bilioso ben rappresentano questa parte del mondo intellettuale che
ha assunto il motto thatcheriano “there is
no alternative”, ben nascosto dietro la parvenza di una critica corrosiva
all’esistente che non risparmia i “luoghi comuni della sinistra” (l’impegno,
per citarne uno) e che strizza l’occhio alla moda del “non politicamente
corretto”, in un mercato dell’attenzione nel quale l’importante è
differenziarsi per godere del proprio quarto d’ora di celebrità.
Insomma, divertimento assicurato.
2
Questo artefatto intitolato un
po’ ambiguamente “Non sono in credito” si presenta ai lettori e alle lettrici
con una lunga introduzione che – sulla scorta di una citazione – ha lo scopo di
fornire una prima argomentazione al fastidio risentito da Claudio Giunta per il
consenso suscitato in molti suoi conoscenti (normalisti come lui) dalle parole
delle tre studentesse. Ma serve soprattutto a soddisfare il narcisismo del
letterato che ne cita un altro e che usa la letteratura come strumento di
analisi. L’argomentazione, ridotta all’osso, è ben riassunta dalla frase in cui
Giunta esprime la
“poca considerazione che ho per
le opinioni dei più giovani quando queste opinioni riguardano aspetti della
vita associata della quale per forza di cose essi non hanno ancora
un’esperienza sufficientemente ampia e varia.”
Boom.
3
Le critiche politiche e ben
argomentate portate nel dibattito dalle tre studentesse della Normale di Pisa
(che sono riassunte in un articolo pubblicato sul sito web
della rivista “il Mulino”) non sono da prendere in considerazione
secondo Claudio Giunta semplicemente perché provengono da esseri umani giovani.
In questo caso l’argomento chiude ad ogni contestazione perché si appoggia su
una caratteristica biologica che di per sé esclude dal dibattito pubblico una
larga fetta della popolazione mondiale. E’ un argomento di autorità e quindi
assolutamente non democratico, perché ancorato a una qualche supposta
“naturalità”: “sei giovane? E allora che ne vuoi sapere?”. Chiuso il discorso.
Com’è ovvio si tratta di una
argomentazione irricevibile per qualsiasi persona dotata di un minimo di buon
senso e che dimostra come pure il raggiungimento di una certa età e di una
certa esperienza non basta ad evitare di dire un sacco di scemenze. Ma vogliamo
forse impedire ai professori universitari maschi, bianchi e di mezz’età di
esprimere il loro autorevole parere? E quale sito di informazione, rivista
online, sezione culturale di quotidiano se ne priverebbe mai?...
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