Il 16 luglio scorso, dopo quasi 70
giorni, sono state sospese le ricerche del corpo della giovane Saman Abbas,
verosimilmente uccisa da alcuni familiari: immigrati pakistani che lavoravano
nelle campagne intorno a Novellara, cioè solo a qualche decina di chilometri da
Reggio Emilia, uno dei luoghi di sperimentazione di quello che fu il welfare
italiano dei servizi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/06/11/saman-hina-e-le-altre/).
Sono stato particolarmente colpito da
questo efferato femminicidio poiché, al di là delle pesantissime responsabilità
penali sulle quali sta indagando la magistratura, fra le sue pieghe – e, ahimè,
fra le sue piaghe – è possibile vedere in controluce tutta una serie di
elementi che attengono sia il delitto che si è solo concluso qui, a due passi
da noi; sia il contesto locale all’interno del quale ci siamo noi e i nostri
servizi; sia l’intricatissima rete transnazionale che, così come ha condotto a
noi Saman e i suoi parenti, allo stesso modo fa ormai da decenni con milioni di
migranti che affrontano quasi sempre in solitudine viaggi per mare e per terra
irti di pericoli.
Partiamo da ciò che vediamo come più
prossimo a noi: Saman era una immigrata di seconda generazione; era nata in
Pakistan, ed è arrivata da noi già grandicella. Cosicché, mentre nella nuova
casa, a Novellara, con i suoi genitori continuava il percorso educativo
“pakistano” e familiare che la stava conducendo verso l’età adulta, fin da
subito aveva cominciato a frequentare la scuola italiana, dove a contatto con i
docenti e i suoi pari non aveva imparato solo l’italiano, ma anche le nostre
modalità di vita. Intrecciando filiazione e affiliazione, direbbe
l’etnoanalista Marie Rose Moro: cioè elementi culturali provenienti sia
dall’uno che dall’altro contesto educativo. Cose che normalmente, nel crogiolo
interno dei figli di migranti, si agglutinano in maniera personalissima e mai
definitiva, esposti come sono ai mille spifferi di natura culturale che
continuano a venire da ogni dove, e che diventano vere e proprie tempeste
interne nei momenti di passaggio da una fase a un’altra della vita.
Specialmente quando si tratta di giovani donne di seconda generazione,
sottoposte – come dice la Spivak – a una duplice influenza patriarcale: quella
tipica delle loro culture d’origine, e quella più moderna e consumistica oggi
imperante nelle metropoli occidentali. È ciò che verosimilmente stava avvenendo
dentro Saman, come ci suggeriscono le notizie lette sui giornali e perfino le
foto, nelle quali s’intravede una modalità tutta sua di vestirsi, quasi a
cercare un sincretismo fra il mondo dal quale proveniva e il nostro.
Su questi sommovimenti interni, e
proprio quando Saman, terminato l’iter scolastico, stava definendo un legame,
peraltro con un giovane d’origine pakistana, è piombata la decisione familiare
di imporle un matrimonio forzato con un parente che vive in Pakistan. Di fronte
a questa brusca imposizione Saman si è ribellata e ha chiesto aiuto ai servizi,
finché, ritornata a casa, è stata letteralmente screata (1) dai
suoi. E verosimilmente non, come è stato scritto sui giornali, per ragioni
religiose o “tribali”, ma – come dice il regista pakistano ribelle Wajahat
Abbas Kazmi – perché il rifiuto del matrimonio forzato per la comunità
patriarcale pakistana è considerato fonte di un delitto d’onore che
rientra semplicemente nei doveri di un genitore. «Non parlo solo del
padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice.
Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o
agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare
con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita
attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una
bambina a pensare che la madre e il padre a cui vuole tanto bene, da grande
possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non
lascia scampo alla vittima» (2).
Apparentemente quindi qualcosa di
inconsueto, riconducibile a una particolarissima situazione di costrizione. In
realtà – come abbiamo avuto modo di constatare nell’ultimo quarto di secolo
nella pratica di psicologi proprio qui a Reggio Emilia – qualcosa che, in
maniera certo infinitamente meno violenta ma ugualmente capace di incidere sul
loro destino, appartiene alla quotidianità di tutti i giovani e di tutte le
giovani di seconda generazione. È risaputo infatti, anche se è sottaciuto, che
proprio nel momento del passaggio all’età adulta per la maggior parte di loro
(e anche per chi risulta a buon diritto particolarmente “capace e meritevole”!)
non è data alcuna possibilità di ricevere sostegno nel lavoro di trasformazione
del loro sogno adolescenziale in progetto adulto. E ciò proprio in concomitanza
con la muta ma eloquentissima richiesta di aiuto che viene in quel momento
dalla famiglia d’origine. Richiesta che nella stragrande maggioranza dei casi
implica l’acconciarsi a un lavoro qualsiasi che contribuisca ad attenuare
l’immane sforzo che la famiglia va facendo per radicarsi qui da noi, e magari
per saldare i debiti che la prima generazione ha dovuto contrarre per partire.
Da ciò che traspare dalle cronache anche questa era una delle richieste di
aiuto che Saman ha fatto in direzione dei servizi sociali, oltre, o forse in
connessione, con quella più pressante volta ad essere allontanata dalla
famiglia.
E qui un discorso su questi servizi va
fatto. Perché mentre la scuola continua ad affrontare adeguatamente, almeno a
Reggio e in provincia, i problemi derivanti dalla presenza dei migranti di seconda
generazione, i servizi sociali sembrano ormai da tempo aver abbandonato ogni
spinta alla sperimentazione. Per cui, proprio quando i giovani di seconda
generazione vanno affannosamente cercando una via decente che li conduca
all’età adulta e alla piena cittadinanza e, più in generale, mentre la società
reggiana è attraversata da mille cambiamenti che richiederebbero una presenza
attenta e critica, i servizi sociali risultano spesso costituiti da precari,
poco radicati nel territorio e perciò spesso poco capaci di avere una visione
attuale dei bisogni e delle nuove urgenze epidemiologiche, poco disposti al
confronto con i servizi socio-sanitari limitrofi, e spesso non molto capaci di
mantenersi in una posizione contrattuale con le strutture intermedie (per lo
più private!) alle quali si rivolgono nel momento del bisogno.
Tutto ciò in un ambito internazionale in
cui gli Stati più ricchi da una parte fingono di non volere accogliere i
migranti e, in combutta con Stati cuscinetto che svolgono funzioni simili a
quelle che furono dei negrieri, ergono barriere per rendere estremamente
difficili e costosi i viaggi della speranza. Dall’altra dispongono le cose in
modo tale da poterli accogliere privandoli di ogni tutela e costringendoli a
vivere e lavorare in uno stato di schiavitù e di perenne incertezza. Mentre i
migranti predisponendosi individualmente all’esodo, privi di notizie certe e di
approdi sicuri, fin dal momento in cui programmano il viaggio si pongono nelle
mani dei moderni negrieri, che operano i loro misfatti all’ombra dei vari
Stati-cuscinetto, spesso in combutta con gli Stati di approdo. Tutto ciò
istituisce e rafforza sempre più la dimensione “come se” di tutto il tragitto e
istituisce un insieme di vere e proprie cerimonie volte a fiaccare i migranti,
a costringerli in un percorso violento di disumanizzazione. In una parola a
prepararli ad accettare il destino di schiavi che li attende.
Note:
(1) «Così come ti ho fatto, allo stesso
modo ti screo», dicevano i padri ai figli considerati degeneri in
Puglia, cioè nel mio luogo delle origini.
(2) Cfr: https://www.meltingpot.org/Saman-Abbas-la-casta-l-onore-e-la-piaga-dei-matrimoni.html#.YPQ27y0QNo6
Bibliografia:
– Angelini L., Filiazione e
affiliazione. I figli dei migranti fra famiglia e scuola, In: Angelini
L., La scuola di Narciso. Analisi, note, progetti, Amazon, 2020
– Moro MR., Bambini di qui
venuti da altrove, FrancoAngeli, Milano, 2005
– Spivak Ch. G., Morte di una
disciplina, Meltemi, Roma, 2003
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