L’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, scrive nero su bianco che la crisi climatica ha ormai reso irreversibili diversi processi di deterioramento dell’ambiente e che restano pochi anni per impedire che altri, ben più gravi, vi si aggiungano.
Sono cose che in gran parte si sapevano o si potevano sapere da anni: Greta
Thunberg, che i lavori dell’IPCC li segue con attenzione, non ha fatto che
ripeterle in tutte le riunioni del mondo a cui è stata invitata.
I giornalisti a cui sono stati assegnati i servizi sul tema hanno reagito
scrivendo: “lo si sa da 30 o 40 anni”. A seconda del grado di complicità che
sono disposti a riconoscersi, hanno chiesto perché “non ci hanno pensato”, “non
ci avete pensato”, “non ci abbiamo pensato” quando si era ancora in tempo per
evitarlo?
Loro, peraltro, si sono occupati e continueranno a occuparsi di altro: PIL,
crescita, investimenti, consumi, politica, lavoro, sport, gossip, ecc. Non c’è niente di
male, ovviamente, ma senza mai chiedersi che rapporto c’era tra l’oggetto delle
loro attenzioni e la sofferenza a cui veniva sottoposta la Terra, l’evoluzione
del clima, il degrado della vivibilità sul pianeta che abitano.
Ma da dove nasce tanta indifferenza per questioni così vitali? Non solo dai
negazionisti, che per anni hanno imperversato su quasi tutti i media (molti di
loro – è dimostrato – ben foraggiati dall’industria dei fossili) e che
continuano a farlo, pur ridotti ora a un manipolo di azzeccagarbugli.
A promuovere quel clima di indifferenza verso i destini dell’umanità sono
stati in realtà i governanti e le classi dominanti di tutto il mondo e nel loro
piccolo, anche quelle italiane: senza mai negare apertamente le conclusioni
dell’IPCC e gli impegni, peraltro insufficienti e non rispettati, assunti al
vertice di Parigi, hanno continuato a operare come se il mondo di domani fosse
uguale a quello di oggi e di ieri.
Come se il problema – e il loro compito – fosse, nella migliore delle
ipotesi, quello di “spingere la crescita” (infinita), far produrre di più,
moltiplicare comunque fabbriche e infrastrutture, affidare ad esse il benessere
della popolazione, attraverso aumenti dell’occupazione sempre meno effettivi.
Senza mai tener conto che tra 30 anni, ma ormai anche tra 10, i problemi
con cui la popolazione dovrà confrontarsi saranno di tutt’altro genere.
Saranno, quale che sia l’intensità delle misure di mitigazione della crisi
climatica che verranno adottate, quelli relativi all’adattamento a un contesto
molto più ostico, ma sostanzialmente diverso, che metterà fuori gioco molte
delle strutture e delle produzioni a cui oggi si affida il “progresso”.
Lo ha fatto notare – in chiave ottimistica – Federico M. Butera sul Manifesto
dell’11 agosto, a proposito del ponte sullo stretto di Messina, reso comunque
inutile dal futuro contesto, anche se i suoi fautori avessero ragione (ma non
ce l’hanno).
Un ragionamento simile poteva e doveva venir fatto – e molti lo hanno fatto
– anche 30 anni fa, quando è iniziata la lotta della Val Susa contro il TAV
Torino-Lione; anche se avessero ragione (e non ce l’hanno) coloro che lo
sostengono in nome di uno “sviluppo” del tutto fasullo, si troveranno tra le
mani un’opera che non serve più.
Ma le responsabilità dei governanti – e nel loro piccolo, di quelli
italiani – non finiscono lì. La loro è stata una gigantesca opera di
diseducazione della popolazione.
Vedendoli operare come se tutto dovesse continuare come sempre – o anche
migliorare – la gente si è lasciata distrarre dal pensare a come affrontare il
futuro, proprio e di figli e nipoti – la next generation – e a
come farsi protagonista di un cambiamento inevitabile, che metterà in
discussione stili di vita, consumi, abitudini, redditi di tutti e soprattutto
posti di lavoro.
Perché il lavoro necessario alla transizione andrà creato in molti casi con altri impianti o in condizioni diverse, condizioni che potrebbero anche permettere di ridurlo e di redistribuirlo tra tutti, vivendo molto meglio.
Oggi in Europa il principale rappresentante di questo obnubilamento di
carattere quasi psichiatrico dell’intelligenza – del General Intellect del
Capitale – che consiste nel nascondere la testa di fronte al disastro
immanente, è Mario Draghi, figura di rilievo internazionale, soprattutto di
fronte all’eclissi di Angela Merkel e di Macron.
Il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, accoppiato agli altri
denari che ha deciso di spendere per “non lasciare indietro” nessuno degli
aventi causa nella spartizione dei fondi europei, ha dimostrato di non voler
deviare di una virgola da una visione che mette il PIL al primo posto.
Oggi sperperando a man bassa quei fondi, ieri affamando e vessando chi non
si era messo in riga con le sue regole, in Grecia, ma anche da noi.
In quest’opera di obnubilamento Draghi è affiancato da Enrico Giovannini,
il Ministro delle Infrastrutture che ha girato l’Italia come apostolo degli
obiettivi di “sviluppo sostenibile”, dell’”economia di Francesco” e di una
presunta alleanza capitale-ambiente, infilandosi anche nelle riunioni di
Fridays for Future e che una volta al governo si è rivelato nient’altro che un
paladino del Tav, del Tap, del Ponte sullo stretto di Messina, di tutte le
autostrade possibili e dell’Alta Velocità su tratte senza passeggeri.
E anche da Roberto Cingolani, il Ministro della Transizione Ecologica
impegnato a rallentarla o a fermarla perché sarebbe “un bagno di sangue”
(d’altronde l’Italia produce solo l’1 e l’Europa il 9% della CO2.
Anche se rispettassero gli impegni, i risultati a livello mondiale non si
vedrebbero, quindi che fretta c’è?). Ma non è così; perché molte delle misure
che sarebbe urgente realizzare – per la scuola, la rete idrica, il trasporto
locale, l’agricoltura, le aree interne – servono sì alla mitigazione della
crisi, ma soprattutto all’adattamento alle condizioni future.
Ma così è molto più difficile per chiunque capire e far capire che il mondo
brucia e che per salvarlo e salvarsi, ciascuno e soprattutto chi è già
in lotta per difendere il proprio diritto a un’esistenza dignitosa, deve farsi
partecipe anche della progettazione e della messa in opera di una produzione,
di un’economia e di una società completamente diverse.
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