Bocheteatro mi ha chiesto una parola da salvare
dalla pandemia e dalla rassegnazione che ha generato.
Qua sotto il testo del mio intervento.
Come per tutto ciò che richiede disciplina, anche la
questione dei salvataggi è una faccenda complicata.
Per esempio, i bagnini stagionali con le schiene tese
e abbronzate. A loro basta un corso in piscina, un’adeguata capacità polmonare
e la giovinezza: sanno che durante la stagione balneare estiva si
innamoreranno, e quello è sempre un buon modo per salvarsi, un modo semplice,
intanto che si scruta l’orizzonte in attesa di qualcuno da recuperare. A volte,
però, salvare è una faccenda subdola. Spendi settimane della tua vita ad
imparare come si fa, se sei capace diventi un professionista, e quando cominci
ad avere le idee chiare rispetto al tuo ruolo speri di non dover mai mettere in
pratica niente di ciò che hai imparato. Mi immagino gli zaini sempre pronti dei
soccorritori alpini, accanto all’uscio delle loro case e nei cofani delle loro
automobili: dentro c’è un mondo di ramponi, caschi, imbraghi e corde,
moschettoni, discensori, torce, coltelli – i salvataggi spesso diventano
avventure; ed è un universo di codici, regole e manovre, sangue freddo e
disciplina metodica, una questione di coraggio e di pietà. Non ci sono
domeniche e non ci sono pranzi di Ferragosto. Salvare può diventare una
faccenda terribilmente seria.
Come si fa a salvare le parole? Dove si impara, dato
che sono sempre state loro a salvarci? E chi ci insegna a sceglierne una
soltanto, che sia quella giusta?
Mettere in salvo, costruire la salvezza, equipaggiarsi
per un salvataggio: è roba da umani. Folli abbastanza da credere di essere
rilevanti, di detenere un potere sulle cose e sul tempo. Se dovessi scegliere
una sola parola, meritevole di un’attenzione tanto nobile: che sia la parola
con la quale ci riconosciamo.
Salviamo il termine che identifica senza discriminare,
il nome che diamo agli spiriti creativi singolari, a quelli che accendono
l’arte e sono capaci di costruire le amicizie. Prima degli sguardi e delle
mani, senza ricorrere alla nomenclatura della nostra specie, abbandonando ogni
giudizio, esiste un modo di chiamarci adeguato
alla volontà di salvezza che tentiamo di esercitare stasera. Poiché i vocaboli
sono solo ciò che significano, credo se ne debba scegliere uno che serva a dire
qualcosa di importante.
Salverei persona, la parola
nata per indicare le maschere del teatro dell’antichità, e che adesso ha finito
per indicare la singolarità dell’essere umano nella sua pienezza individuale.
L’ho scelta per tre motivi.
Uno: perché in questo tempo abbiamo imparato a
convivere con il concetto di maschera – viviamo seminascosti, con il volto a
metà, e si manifesta di noi solo ciò che esprimiamo ad alta voce. Non è
necessariamente un male.
Due: perché questo è un teatro, ed è sensato ricordare
cosa significhi, nel profondo, mettere in scena la vita – soprattutto quando
questa possibilità ci è negata, e disimpariamo quanto sia necessario perpetuare
quel rito laico.
Tre: perché le parole mutano e si riadattano,
cambiando di significato. È così anche per gli individui da salvare, no? Uno va
in spiaggia convinto di essere un turista e finisce per essere un naufrago, va
in montagna per diventare scalatore e dev’essere portato via come un disperso
qualunque.
Salvo persona per ciò
che significa. Per portare in salvo, con lei, gli esseri umani trattati come
numeri di statistica, le cui richieste esistenziali più profonde giacciono
inascoltate o accomunate da soluzioni miopi e superficiali – lavoratori,
disabili, malati terminali; perché facciamo memoria di bambini e ragazzi da
riportare a riva, contati come palline di legno su un abaco, sottostimando la
loro natura vulcanica e curiosa e fingendo di non saper immaginare il futuro al
quale li stiamo condannando; per la salvezza delle donne e degli uomini del
comparto culturale, disastrosamente trascurato. La loro attività in questo
tempo ci avrebbe accompagnato a diventare più lucidi, più sensibili, più
empatici.
Persone migliori, forse; appigliate al salvagente
gettato da un ragazzino o appese all’imbrago di un soccorritore navigato. Presi
in salvo dal potere salvifico dell’immaginazione.
Per contrastare le onde, per sopravvivere al vuoto.
Salvo persona, così forse
ci salviamo noi.
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