venerdì 20 agosto 2021

UNA PAROLA DA SALVARE – Giovanni Gusai

 

Bocheteatro mi ha chiesto una parola da salvare dalla pandemia e dalla rassegnazione che ha generato.
Qua sotto il testo del mio intervento.

 

Come per tutto ciò che richiede disciplina, anche la questione dei salvataggi è una faccenda complicata.

Per esempio, i bagnini stagionali con le schiene tese e abbronzate. A loro basta un corso in piscina, un’adeguata capacità polmonare e la giovinezza: sanno che durante la stagione balneare estiva si innamoreranno, e quello è sempre un buon modo per salvarsi, un modo semplice, intanto che si scruta l’orizzonte in attesa di qualcuno da recuperare. A volte, però, salvare è una faccenda subdola. Spendi settimane della tua vita ad imparare come si fa, se sei capace diventi un professionista, e quando cominci ad avere le idee chiare rispetto al tuo ruolo speri di non dover mai mettere in pratica niente di ciò che hai imparato. Mi immagino gli zaini sempre pronti dei soccorritori alpini, accanto all’uscio delle loro case e nei cofani delle loro automobili: dentro c’è un mondo di ramponi, caschi, imbraghi e corde, moschettoni, discensori, torce, coltelli – i salvataggi spesso diventano avventure; ed è un universo di codici, regole e manovre, sangue freddo e disciplina metodica, una questione di coraggio e di pietà. Non ci sono domeniche e non ci sono pranzi di Ferragosto. Salvare può diventare una faccenda terribilmente seria.

Come si fa a salvare le parole? Dove si impara, dato che sono sempre state loro a salvarci? E chi ci insegna a sceglierne una soltanto, che sia quella giusta?

Mettere in salvo, costruire la salvezza, equipaggiarsi per un salvataggio: è roba da umani. Folli abbastanza da credere di essere rilevanti, di detenere un potere sulle cose e sul tempo. Se dovessi scegliere una sola parola, meritevole di un’attenzione tanto nobile: che sia la parola con la quale ci riconosciamo.

Salviamo il termine che identifica senza discriminare, il nome che diamo agli spiriti creativi singolari, a quelli che accendono l’arte e sono capaci di costruire le amicizie. Prima degli sguardi e delle mani, senza ricorrere alla nomenclatura della nostra specie, abbandonando ogni giudizio, esiste un modo di chiamarci adeguato alla volontà di salvezza che tentiamo di esercitare stasera. Poiché i vocaboli sono solo ciò che significano, credo se ne debba scegliere uno che serva a dire qualcosa di importante.

Salverei persona, la parola nata per indicare le maschere del teatro dell’antichità, e che adesso ha finito per indicare la singolarità dell’essere umano nella sua pienezza individuale. L’ho scelta per tre motivi.

Uno: perché in questo tempo abbiamo imparato a convivere con il concetto di maschera – viviamo seminascosti, con il volto a metà, e si manifesta di noi solo ciò che esprimiamo ad alta voce. Non è necessariamente un male.

Due: perché questo è un teatro, ed è sensato ricordare cosa significhi, nel profondo, mettere in scena la vita – soprattutto quando questa possibilità ci è negata, e disimpariamo quanto sia necessario perpetuare quel rito laico.

Tre: perché le parole mutano e si riadattano, cambiando di significato. È così anche per gli individui da salvare, no? Uno va in spiaggia convinto di essere un turista e finisce per essere un naufrago, va in montagna per diventare scalatore e dev’essere portato via come un disperso qualunque.

Salvo persona per ciò che significa. Per portare in salvo, con lei, gli esseri umani trattati come numeri di statistica, le cui richieste esistenziali più profonde giacciono inascoltate o accomunate da soluzioni miopi e superficiali – lavoratori, disabili, malati terminali; perché facciamo memoria di bambini e ragazzi da riportare a riva, contati come palline di legno su un abaco, sottostimando la loro natura vulcanica e curiosa e fingendo di non saper immaginare il futuro al quale li stiamo condannando; per la salvezza delle donne e degli uomini del comparto culturale, disastrosamente trascurato. La loro attività in questo tempo ci avrebbe accompagnato a diventare più lucidi, più sensibili, più empatici.

Persone migliori, forse; appigliate al salvagente gettato da un ragazzino o appese all’imbrago di un soccorritore navigato. Presi in salvo dal potere salvifico dell’immaginazione.

Per contrastare le onde, per sopravvivere al vuoto.

Salvo persona, così forse ci salviamo noi.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento