Cosa penso del green pass, non da medico ma da
studioso del tema?
Nel libro Dentro la zona rossa (Sensibili
alle foglie, 2020) Franco Motta ed io abbiamo dedicato un intero capitolo al
tema del linguaggio, giungendo a questa conclusione: il linguaggio non descrive
la realtà, la plasma a suo piacimento. Non a caso, il linguaggio è il vero
trionfatore della e nella pandemia. E la locuzione “green pass” pare proprio
non sfuggire alle osservazioni del nostro libro.
A tal proposito, mi domando: perché utilizzare il
termine “green” e non, ad esempio, “sanitario”? Cosa c’è di green, ovvero di
ecologico, in un pass che attesta una o più vaccinazioni? E per quale motivo
non si utilizza l’italiano?
Mi si potrebbe eccepire che si tratti di una sorta di
“semaforo” che ha acceso la luce verde e che la stessa parola semaforo (il cui
significato dal greco è portatore di segni o significati) sia in sé la risposta
corretta. Ma questo semaforo è stato posto, per ora, solo in determinati
incroci, temo non casualmente.
Perché il pass riguarda i luoghi dove si svolgono
attività economiche e non il trasporto pubblico (su cui è stato rimosso ogni
limite) e, a quanto pare, gli istituti scolastici? Nei giorni scorsi ero su un
treno regionale per Bologna (per scelta non uso l’auto se non è
indispensabile): sembrava di trovarsi su un carro bestiame, per l’affollamento
e l’insufficiente osservanza delle norme (che io rispetto sempre e invito a
rispettare). Ebbene, dal prossimo 6 agosto la situazione del trasporto pubblico
sarà la medesima, mentre al ristorante dovremo presentare il pass anglofono per
aver accesso. Eppure, il rischio di contagio è certamente maggiore in
situazioni come quella sopra descritta del treno.
Come posso, dunque, essere favorevole a priori, senza
pormi alcuna domanda, a uno strumento finalizzato alle attività economiche private
e non a quelle pubbliche, ovvero quello stesso sistema che me lo chiede? Perché
vengo quotidianamente tirato per la maglietta (siamo in estate) e invitato a
schierarmi e, se non lo faccio, considerato un doppiogiochista o un pavido?
Desidero ribadirlo con chiarezza: non sono
intenzionato a prendere posizioni di carattere medico e scientifico, non
avendone la competenza e l’interesse; il mio ruolo è quello di studioso di
fenomeni sociali e politici e su questo aspetto osservo che parlare di “green
pass” rappresenti l’ennesimo esempio di alterazione linguistica pandemica.
Perché non dire la verità e chiamarlo “economic pass”?
Almeno comprenderemmo i reali motivi di questo strumento e, allora, potremo
decidere, se del caso, da che parte stare. Quando il linguaggio plasma e
manipola, come è accaduto dentro la zona rossa, porsi qualche domanda è lecito
e doveroso.
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