Intervista di Daniele Nalbone a Roberto Ridolfi,
presidente di Link 2007, associazione di coordinamento che riunisce diverse ong
italiane. “Il primo passo da fare è sospendere i brevetti per i vaccini. Il
secondo: cancellare il debito dei Paesi africani”.
Roberto Ridolfi è uno degli italiani più conosciuti al mondo nel settore
della cooperazione internazionale. Già già direttore generale aggiunto della
FAO e prima ancora direttore dello Sviluppo sostenibile della Commissione
europea e ambasciatore del Unione, è presidente di Link 2007, associazione di coordinamento che
raggruppa importanti e storiche organizzazioni non governative italiane (qui l’elenco). Lo abbiamo intervistato per
analizzare la gestione della pandemia a livello italiano, europeo e mondiale.
In merito alla quale una delle principali battaglie di Link 2007 è quella per
la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale per i vaccini anti-Covid.
Perché a suo avviso è una battaglia così importante?
È una battaglia fondamentale, non importante. Pensiamo al rincaro del costo dei
vaccini: Pfizer arriverà a 19,5 euro a dose, Moderna a 25,5 euro. È scandaloso.
Con le somministrazioni fatte già a oggi sono stati ammortizzati e assorbiti i
costi di ricerca. Di conseguenza tutto ciò che si dovrebbe pagare è il costo
crudo e nudo di produzione e distribuzione. Così non è, un prezzo del genere è
puro profitto. La deroga alla proprietà intellettuale consentirebbe alle molte
fabbriche che non hanno le licenze di acquisirle, a titolo gratuito e per tutto
il tempo necessario, per poter produrre i vaccini anche in Paesi africani. Ci
sono circa 350 fabbriche di medicinali in Africa: non tutte saranno in grado di
produrre il vaccino, ma molte sì. Non chiediamo sforzi per pagare le grandi
case farmaceutiche e distribuire vaccini a chi ne ha bisogno, ma che si dia
modo di far produrre questi vaccini laddove è più efficiente e meno costoso, in
modo da arrivare a una vaccinazione per tutti.
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Link 2007 ha chiesto che il governo italiano esprima in ogni sede
competente, a partire dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), dall’Ue
e all’interno del G20, una ferma posizione a favore del superamento di tali
diritti. A che punto siamo?
L’interlocuzione e il dialogo che abbiamo con il Ministero degli Affari esteri
e della Cooperazione internazionale sono costanti. Sia sui vaccini sia sulla
ridefinizione del debito estero dei Paesi a basso reddito il governo italiano,
che presiede il G20 quest’anno, ci ascolta e ha fatto proprie alcune nostre
posizioni. Ma non bastano le vaghe promesse di agire, per questo continuiamo a
lavorare.
In una lettera al governo italiano del febbraio 2021 avete affermato: “Ci
sono Paesi, in Europa e in ogni altro continente, che hanno le conoscenze, le
competenze e la capacità tecnologiche per produrre localmente i vaccini
anti-Covid in modo sicuro e scientificamente controllabile e quindi per
aumentarne la produzione globale e rendere più facile e rapida la loro
somministrazione in ogni area del mondo. Aspettano solo le licenze per poterlo
fare, come efficacemente avvenuto di fronte a precedenti gravi epidemie”. Chi è
contrario alla sospensione dei brevetti sostiene invece che uno stop ai
brevetti rischierebbe di ridurre la disponibilità di vaccini perché pochi Paesi
sarebbero in grado di garantire, in breve tempo, produzione significativa. Dove
sta la verità?
Il brevetto è una questione di licenza, e quindi di tecnologie appropriate per
la produzione, frutto della ricerca. Bisogna prenderne atto: la ricerca non si
può fare se non ci sono investimenti importanti. Sappiamo che da un lato ci
sono stati forti aiuti pubblici per gli investimenti sui vaccini Covid, dall’altro
sappiamo della massiccia, enorme, distribuzione di vaccini che garantiscono un
ripagamento e un ammortizzamento degli anticipi investiti per la ricerca. Oggi
siamo in un momento in cui le licenze possono essere aperte. Si dice anche che
non si vuole creare un precedente perché questo affosserebbe la libertà
creativa, la capacità di ricerca e innovazione, ma ammesso e non concesso che
ciò sia vero possiamo anche non creare questo precedente: non sospendiamo la
proprietà intellettuale ma diciamo alle imprese che hanno questi diritti di
proprietà che li diano in forma gratuita o a prezzo simbolico agli Stati dotati
di un’industria farmaceutica che con il brevetto sarebbero in grado di produrre
vaccini.
La questione dell’approvvigionamento è fondamentale: da una parte ci sono
Paesi in cui si parla di “terza dose”. Eppure – come ha sottolineato recentemente
l’Organizzazione Mondiale della Sanità – c’è chi ancora è in
alto mare per la prima dose.
L’Oms ha dichiarato l’ovvio. La linea non può che essere aspettare che tutti i
Paesi abbiamo concluso la campagna vaccinale per la prima e seconda dose per
dare il via alla terza. Ovviamente fatti salvi i casi di fragilità: chi ha
patologie preesistenti, è immunodepresso, eccetera, dovrà avere accesso alla
terza dose. Ma gli altri possono aspettare. Ricordo che si tratta di una
pandemia globale, non di una pandemia italiana o europea o statunitense.
Lo scorso 23 giugno avete presentato una proposta – Release G20 – per
dare una svolta alla cooperazione internazionale e sostenere i Paesi più
fragili nei piani di ripresa dalla crisi pandemica e di promozione di
investimenti sostenibili. Può illustrarcene i punti centrali?
Il nodo è molto semplice: se vogliamo raggiungere, come tutti dicono, gli
Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dobbiamo fare degli investimenti.
Nei Paesi ricchi questi sono assicurati dai Piani di ripresa e resilienza, il
nostro Pnrr per intenderci, in cui vediamo la mobilitazione di massicci fondi.
Tutto ciò nei Paesi in via di sviluppo non accade: abbiamo da un lato la crisi
derivante dalla pandemia, una pan-crisi di dimensioni storiche, e dall’altro
una diminuzione degli aiuti allo sviluppo perché Paesi come il nostro sono
concentrati nell’aiutare se stessi. Di conseguenza, a soli nove anni dalla
scadenza degli obiettivi dell’Agenda 2030, questi Paesi si trovano in una
situazione difficilissima. La proposta è semplice: esiste una montagna di
debito pubblico in Africa stimata intorno ai 950 miliardi di dollari per i
prossimi tre anni; questa montagna di debito pubblico, a differenza di quello
italiano, non è nazionale ma internazionale e pone questi Paesi in una
posizione di fragilità perché devono soldi ad altri Stati. Questa posizione di
sudditanza economica non consente di far fronte nemmeno alle spese correnti. In
questa situazione è impossibile anche solo parlare di investimenti. Le
migrazioni “economiche”, per fare un esempio chiaro, non si risolvono se non si
creano posti di lavoro. E i posti di lavoro non si creano se non si fanno
investimenti. E gli investimenti sono impossibili senza risorse. Ecco, questo è
il circolo vizioso da spezzare. Una priorità.
E qual è la soluzione dal suo punto di vista?
Non chiediamo di attingere a nuove risorse che non ci sono: i debiti
preesistenti possono essere riconvertiti. Anziché fare il pagamento al Paese
creditore, il debitore in questione converte in valuta locale quella cifra e la
mette in un fondo legato ai piani di sviluppo sostenibile. Ci sono Paesi, come
la Repubblica Democratica del Congo, che hanno dei piani dettagliatissimi ma
non ci sono le risorse. Questi fondi dovrebbero essere il volano, o come
garanzia o come co-finanziamento o per finanziare gli studi di fattibilità, per
poi attirare ulteriori investimenti pubblici e privati. E invece servono per
ripagare il debito.
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