Ha suscitato
molto scalpore qualche giorno fa la pubblicazione dei dati Invalsi 2021. E non
poteva essere altrimenti. Veniamo da un anno e più di dad, la famigerata
didattica a distanza, ed è comprensibile che si volesse conoscere l’effetto
sugli apprendimenti degli studenti. A sentire l’Istituto nazionale di
valutazione del nostro sistema scolastico (Invalsi), è stato pessimo. Quando l’Invalsi
misura la scuola italiana quale scuola misura, quella di ieri o quella che è
stata pervicacemente costruita in questo ormai lungo periodo riformatore? Non è
una domanda da poco. Dalla risposta dipende anche un giudizio sulla natura
effettiva di questo istituto e delle sue stime. Se infatti la scuola non è più
ormai da molto tempo la “vecchia scuola”, quella che si portava appresso lo
stigma originario di “gentiliana”, l’uso polemico delle rilevazioni statistiche
per rivendicare la necessità di un’ulteriore riforma appare per quello che è:
il tentativo di coprire un fallimento; e un modo per estorcere ad un’opinione
pubblica ammutolita dall’ingiunzione intimidatoria dei numeri, i famosi dati,
un’ ulteriore delega alla demolizione di ciò che resta della scuola pubblica
repubblicana.
Ha suscitato
molto scalpore qualche giorno fa la pubblicazione dei dati Invalsi 2021. E non
poteva essere altrimenti. Veniamo da un anno e più di dad, la famigerata
didattica a distanza, ed è comprensibile che si volesse conoscere l’effetto
sugli apprendimenti degli studenti. A sentire l’Istituto nazionale di
valutazione del nostro sistema scolastico (Invalsi), è stato pessimo. Due su
cinque dei licenziati dalla scuola media, il 40%, si accinge a varcare la
soglia della scuola secondaria superiore con competenze equivalenti ad un
bambino di quinta elementare. Il dato cresce al Sud fino al 60%. Alla maturità,
le cose vanno peggio. In tantissimi si sono diplomati pur stando a livelli di
terza media. Si chiama “dispersione implicita” e si vuol dire lo scarto tra la
certificazione educativa, il cosiddetto titolo di studio, e ciò che essa
certifica. Avere un diploma in altri termini non indica quello che il suo
possessore sa e sa fare con quello che sa. Chi di noi insegna all’Università, e
in generale i professori, conoscono benissimo il fenomeno, e non hanno certo
bisogno dei dati dell’Invalsi per avere una misura precisa della gravità del
fenomeno. Da tempo, coloro che in un qualunque dipartimento universitario si
ostinano a sottoporre i propri studenti a prove scritte si trovano a dover
correggere prima di ogni altra cosa la grammatica della lingua italiana. E si
tratta di “e” con l’accento e “a” senza h, di doppie e scempie a caso o meglio
secondo la pronuncia errata della lingua parlata, di apostrofi dove non ci
starebbero. Parole mai lette e solo ascoltate (in qualche caso molto di rado)
sono quasi sempre di incerta resa grafica. Ma è tutta la struttura del
linguaggio ad essere collassata in questi studenti, dalla scelta del lessico
alla sintassi. Inutile dire che non si tratta di mera forma, ma di
organizzazione logica del pensiero mediata dal linguaggio. Di questa
catastrofe, la scuola è uno degli epicentri, forse il punto maggiore di
smottamento, ma trattandosi appunto di lingua la metafora che meglio fissa il
fenomeno è di altro tipo, riguarda la diffusione di un virus, per usare
un’immagine con la quale, ahimè, abbiamo imparato a misurarci in questi mesi.
Tutto il sistema dell’ informazione e della comunicazione fatalmente ne risente
con un effetto contagio sostanzialmente incontrollabile. Siamo una società
linguisticamente povera, con tutto ciò che questo significa in termini di
rappresentazione e comprensione del mondo. Mitologia e narrazione nella
confezione delle notizie ormai la fanno da padrone e con esse arretra ogni
possibile comprensione razionale dei problemi.
Detto questo però ci sono altre osservazioni da fare, a partire proprio dalla
valutazione. Ho fatto ricorso alla mia esperienza di professore universitario
non certo per indulgere alla ricca aneddotica che sulla materia, fin da
Marcello d’Orta, ha alimentato un cospicuo filone dell’editoria italiana, ma
perché al di là della grande enfasi messa in questi anni sulla misurabilità dei
fenomeni sociali, basta avere occhi aperti (e un minimo di onestà
intellettuale) per sapere che la scuola italiana in molti casi non consegue i
suoi risultati. Di solito, nel dibattito italiano gli esiti dei test vengono
puntualmente branditi come una clava dai loro solerti zelatori, e quasi sempre
per dare addosso agli insegnanti. Un tempo si diceva di loro che andavano
dietro a cose vecchie, oggi la solfa è diversa: gli insegnanti sono
semplicemente impreparati. I giornali generalmente ci vanno a nozze e tra tutti
si distingue il Corriere della sera che, salvo poche eccezioni, è una delle
centrali ideologiche della nuova scuola e non certo la meno rilevante. Non
fanno eccezione Repubblica e, per insipienza, il Manifesto. Viene perciò da
chiedersi, di fronte a tanta fervida sollecitudine, cos’altro debba accadere
perché questa benedetta nuova scuola veda finalmente la luce, dal momento che
sono quasi trent’anni che con solerzia ci si è applicati alla demolizione della
scuola del passato. Uno di solito non ci fa caso, ma chi è nato nel 1990, e
oggi ha intorno ai trent’anni, ha compiuto per intero il ciclo della sua
formazione, dalle elementari all’università, in un sistema formativo in
perenne, ininterrotto, rivolgimento. A maggior ragione, coloro che sono venuti
dopo. Tanto da far sorgere il dubbio che se gli apprendimenti di questo
ipotetico giovane sono così scadenti, forse la ragione sta proprio nel modo
sbagliato con cui si è lavorato in questi anni alla riforma della scuola.
Trent’anni non sono pochi. Cambia la didattica, cambiano i programmi, cambiano
gli insegnanti. Nuove, soprattutto, sono le responsabilità politiche,
Berlinguer, Moratti, Gelmini, e il lungo stuolo dei loro consulenti. Li trovate
tutti in prima fila a sbraitare contro il passato. Se fossero un po’ meno
fanatici e in mala fede scoprirebbero presto che il passato contro il quale
inveiscono sono proprio loro.
Da qui una domanda che in pochi si fanno. Quando l’Invalsi misura la scuola
italiana quale scuola misura, quella di ieri o quella che è stata
pervicacemente costruita in questo ormai lungo periodo riformatore? Non è una
domanda da poco. Dalla risposta dipende anche un giudizio sulla natura
effettiva di questo istituto e delle sue stime.
Se infatti la scuola non è più ormai da molto tempo la “vecchia scuola”, quella
che si portava appresso lo stigma originario di “gentiliana”, l’uso polemico
delle rilevazioni statistiche per rivendicare la necessità di un’ulteriore riforma
appare per quello che è: il tentativo di coprire un fallimento; e un modo per
estorcere ad un’opinione pubblica ammutolita dall’ingiunzione intimidatoria dei
numeri, i famosi dati, un’ ulteriore delega alla demolizione di ciò che resta
della scuola pubblica repubblicana. Il ragionamento che viene fatto è il
seguente (lo hanno evidenziato molto efficacemente Alberto Baccini e Rossella
Latempa sulla rivista il Mulino): se il test certifica un insuccesso, quali
interventi correttivi produce? Negli altri paesi si rimuovono dirigenti e
insegnanti, si chiudono le scuole, si fa spazio ai privati. In Italia, no.
Perché su questi argomenti manca il consenso politico e, in particolare, quello
sindacale. Di qui la spinta a considerare gli insegnanti come dei fannulloni
analfabeti. È più facile rimuovere chi è universalmente considerato da poco.
C’è chi poi va oltre, invocando il passaggio da una scuola di Stato ad una
scuola a gestione comunitaria, a base territoriale, per mezzo di associazioni
professionali (insegnanti e più in generale tutti i portatori legittimi di
interesse). Sono tutte cose che si leggono, neanche a farlo apposta, in un
libro dal titolo eloquente “Liberare la scuola”, edito lo scorso anno dalla
casa editrice il Mulino. Anch’essa quasi completamente appiattita sulla nuova
ideologia scolastica.
Si
capisce, allora, come alla luce di queste considerazioni la valutazione degli
apprendimenti non sia il vero centro della questione, che invece è
perentoriamente occupato da un’ipotesi globale di revisione dell’organizzazione
scolastica pubblica (con quello che tutto ciò comporta in termini di funzioni
generali dell’istruzione). La posta in gioco dunque non è la preparazione dei
nostri ragazzi, distrutta dalla scuola dell’autonomia, dalla didattica delle
competenze, e dai loro improvvisati teorici, ma la semplice rimozione delle
ultime tracce di quel peccato originale della Repubblica che nacque conservando
le strutture formative della tanto disprezzata Italia liberale. Un odio
ideologico, a lungo covato soprattutto nelle pieghe di un certo risentimento
cattolico e che oggi torna baldanzosamente in auge, sospinto, per un’ironia
della sorte che certo i nostri fanatici non sono in grado di cogliere, dalla
dilagante cultura protestante della nostra tarda modernità.
(testo
apparso su Il Mattino del 18 luglio 2021)
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