Riproduciamo la lettera aperta che Tiziano Terzani indirizzò a Oriana Fallaci l’8 ottobre del 2001, a meno di un mese dall’attentato alle Torri Gemelle, il giorno successivo all’inizio della sciagurata guerra in Afghanistan, in risposta al lungo articolo della giornalista fiorentina apparso sul “Corriere della sera” del 29 settembre col titolo “La rabbia e l’orgoglio”. E’ un testo lungo ma non lunghissimo, che suggeriamo caldamente: un quarto d’ora di lettura è uno sforzo a cui ci si può sottoporre, in questi giorni in cui si compie l’esito di quell’infausta avvenura rivelandone appieno l’assurdità senza che tuttavia il nostro mondo riesca e ragionarci davvero.
“Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu
sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti
penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da
cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti,
tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine
di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla
professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle
«Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui
andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di
quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una
corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.
Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di
stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e
pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che
forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal
crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro
senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana
– la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito,
ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia
avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’ indicibile
orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la
lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente
chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole
giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio
per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra essere
ancora di un’inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo
diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante
lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani
e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria
importanza.
L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo
facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento
anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle
lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad
aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella
cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come
ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. «Conquistare le passioni mi pare
di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi.
Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella
bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua
volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui
alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata
contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi
davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né
nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più
accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il
miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’ è stata
ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno
questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno.
Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È
una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto,
immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti
prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di
nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi
delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci
bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a
nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla
Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici,
chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso,
ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza
del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più
terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla
nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra
nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi
siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo,
e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per
mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per
cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche
e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’ impegnarsi solennemente con
tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene
minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova
direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé
un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non
sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il
libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik
von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’etica
politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha
insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La
affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più
nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le
sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle
Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il
circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il
fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver
marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna
all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini,
spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto
una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo
mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto
di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è
servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della
violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico
del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli
spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non
ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te,
Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri
Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano
i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie
israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone,
sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi
kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e
tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la
bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che
cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che
cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono
nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di
questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle
potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare,
ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo
non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li
rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto
ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento,
anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono,
assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le
cause di altre migliaia di effetti.
L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti
e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione»
degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata
alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla
libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula
ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un
uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di
questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi
dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera
americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di “The Nation” del 15 ottobre.
Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo,
uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico – si
tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la
fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti
hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni
militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe
parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco
di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli
assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei
quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in
America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed
al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo:
fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953,
seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in
particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo
Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente
in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico».
Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano
e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che
sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi
odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’ è, a parte la questione
israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare
nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere
della regione. Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora.
Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non
studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’ anni, tutte le
possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’ essere coinvolti
nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo
i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli
oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un
migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska
che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal
presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i
petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato
come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan,
pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al
fatto d’ essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare
le immense risorse di metano e petrolio dell’ Asia Centrale (vale a dire di
quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli
Stati Uniti) verso il Pakistan, l’ India e da lì nei paesi del Sud Est
Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha
ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono
state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di
questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con
la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col
Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque
possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la
democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre
considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che
nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la
combinazione fra gli interessi dell’ industria petrolifera con quelli dell’
industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella
compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le
future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del
paese, in ragione dell’ emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle
straordinarie libertà che rendono l’ America così particolare. Il fatto che un
giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca
per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato
per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento
da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste
preoccupazioni. L’ aver diviso il mondo in maniera – mi pare – «talebana», fra
«quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i
presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già
sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali,
funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o
loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi
lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle «cicale» ed agli
intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione
essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler
togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri
polmoni. Io non pretendo affatto d’ aver risposte chiare e precise ai problemi
del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si
lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo
anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment
mediatico, c’ è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America
ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un
post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato
Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato.
Ma non c’ era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per
i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e
capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere
come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si
ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra
di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i
politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non
trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare
sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi
responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di
dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di
battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora
alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito
proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere
consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare,
Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del
terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici
di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro
quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani,
educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece
meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a
lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan?
Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti
che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero
degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo
musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è,
come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una
frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle
gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là
degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi
assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno
uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma
il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i
crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la
nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda
volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso
della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal
comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una
spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le
linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del
Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe
interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu
particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti
nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume,
all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le
sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del
Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello
di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte
anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due
non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque
non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla
finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi
eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella
domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere,
hanno fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi
pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che
cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una
lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo
in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della
distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu
che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile,
ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto
mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte
risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò
invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del
pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in
America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’ umanità un ultimo appello per
la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il
resto».
Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi
ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’ è bisogno d’ ammazzare. Ed anche in
questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’ è sempre piaciuta nei Jataka,
le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome
della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca
assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza,
«vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli
e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere
contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in
favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia
occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento,
occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi
nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi
responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al
Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati.
Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin
Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della
Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India
agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice
de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata
ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della
discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi
ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide
responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India
che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei
morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come
quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana
nelle montagne dell’Afghanistan, ordina ‘ attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota,
islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di
innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite
si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il
«terrorista» possa essere l’uomo d’ affari che arriva in un paese povero del
Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di
una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non
potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo.
E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive
vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente
la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari,
trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica
o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni
altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non
essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è
relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la
violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà
difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi
occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono
di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno
convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono
state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è
diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto
della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello
di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto
sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un
mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo
pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un
mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi,
rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano
stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo
esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree
del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per
avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il
terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni
Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare
le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora
ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia,
né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello
di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’ interesse nazionale americano ha la
meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità
del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con
sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia
sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i
«lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia
stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà
ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in
Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me
ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce.
Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli
immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una
città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era
bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i
musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il
giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla
stazione. È così perché anche Firenze s’ è «globalizzata», perché non ha
resistito all’ assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile:
la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva
andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una
tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A
tanti negozi di moda. Credimi, anch’ io non mi ci ritrovo più. Per questo sto,
anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’ Himalaya indiana dinanzi alle più
divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed
immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare
delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La
natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere
lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la
scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente
inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come
un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le
torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba
al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti
auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non
sarà mai da nessuna parte“.
Tiziano Terzani
8 ottobre 2001
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