mercoledì 25 agosto 2021

Io sono il potere - Confessioni di un capo di gabinetto (raccolte da Giuseppe Salvaggiulo)


si tratta di un libro del 2020, pubblicato da Feltrinelli, 18 €, ci sono sei pagine di indice dei nomi citati, per capire che chi scrive sa di cosa parla e gli esempi non mancano.

quando vedi un/a ministro/a a inizio mandato e ascolti le sue parole spesso resti deluso, da quanto una persona incapace e poco colta possa svolgere un ruolo così importante.

poi col tempo rimediano un po' ai loro errori perché capiscono che loro sono una facciata per qualcosa più grande di loro, e si mettono nelle mani dei dirigenti del loro ministero, che sono quelli che tolgono ai ministri un po', o molto, dei poteri che pensano di avere.

ma è fondamentale che si affidino alle mani di un capo di gabinetto, che ha un ruolo decisivo, come quello di Wolf in Pulp fiction, risolvono problemi, evitano che sorgano, trovano strade, un po', mutatis mutandis, come gli architetti e gli ingegneri, per quanto geniali siano non possono fare a meno di muratori e capi cantiere che risolvono problemi, evitano che sorgano, trovano strade.

il libro spiega con le parole di un insider, uno molto informato dei fatti, quale è il ruolo del capo di gabinetto, traduce nella pratica quello che il ministro vuole, vorrebbe o crede di volere. il capo di gabinetto è come un interprete di una lingua sconosciuta ai più.

non basta dire Lo Stato sono io, bisogna anche esserlo. il capo di gabinetto aiuta, mette in pratica, funge quasi da tutor, non appare, è; il ministro è buono per le comparsate in tv, spesso è una maschera, un pupazzo nelle mani di un ventriloquo, nei casi migliori è come il direttore di un ristorante che ci mette la faccia, ma ha l'umiltà di capire che non può preparare i piatti.

il libro inizia così:

Ogni tanto qualcuno mi chiede che mestiere faccio. Non ho ancora trovato una risposta. La verità è che una risposta non esiste. Io non faccio qualcosa. Io sono qualcosa. Io sono il volto invisibile del potere. Io sono il capo di gabinetto. So, vedo, dispongo, risolvo, accelero e freno, imbroglio e sbroglio. Frequento la penombra. Della politica, delle istituzioni e di tutti i pianeti orbitanti. Industria, finanza, Chiesa. Non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show. Compaio poche volte e sempre dove non ci sono occhi indiscreti. Non mi conosce nessuno, a parte chi mi riconosce.

Io sono il potere ci fa scoprire un mondo che non conoscevamo, pur intuendo che potesse esistere.

buona lettura. 



 

 

Chi muove i fili della politica italiana? Quali scambi si fanno, ogni giorno, nei ministeri? Su quali soluzioni al limite della legge si fonda la ragion di Stato? Per la prima volta un capo di gabinetto svela dall’interno le regole non dette e i segreti inconfessati dei palazzi del potere.
“Ogni tanto qualcuno mi chiede che mestiere faccio. Non ho ancora trovato una risposta. La verità è che una risposta non esiste.
Io non faccio qualcosa. Io sono qualcosa. Io sono il volto invisibile del potere. Io sono il capo di gabinetto. So, vedo, dispongo, risolvo, accelero e freno, imbroglio e sbroglio. Frequento la penombra. Della politica, delle istituzioni e di tutti i pianeti orbitanti. Industria, finanza, Chiesa. Non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show. Compaio poche volte e sempre dove non ci sono occhi indiscreti. Non mi conosce nessuno, a parte chi mi riconosce. Dal presidente della Repubblica, che mi riceve riservatamente, all’usciere del ministero, che ogni mattina mi saluta con un deferente ‘Buongiorno, signor capo di gabinetto’. Signore. Che nella Roma dei dotto’ è il massimo della formalità e dell’ossequio. La misura della distinzione. Noi capi di gabinetto non siamo una classe. Siamo un clero. Una cinquantina di persone che tengono in piedi l’Italia, muovendone i fili dietro le quinte. I politici passano, noi restiamo. Siamo la continuità, lo scheletro sottile e resiliente di uno Stato fragile, flaccido, storpio fin dalla nascita. Chierici di un sapere iniziatico che non è solo dottrina, ma soprattutto prassi. Che non s’insegna alla Bocconi né a Harvard. Che non si codifica nei manuali. Che si trasmette come un flusso osmotico nei nostri santuari: Tar, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato. Da dove andiamo e veniamo, facendo la spola con i ministeri. Perché capi di gabinetto un po’ si nasce e un po’ si diventa. La legittimazione del nostro potere non sono il sangue, i voti, i ricatti, il servilismo. È l’autorevolezza. Che ci rende detestati, ma anche indispensabili. Noi non siamo rottamabili. Chi ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E s’è fatto male. Piccoli, velleitari, patetici leader politici. Credono che la storia cominci con loro.”

“Io sono un’ombra. L’ombra del potere. Talvolta più potente del potere. Io sono il capo di gabinetto.”

da qui

 

Chi confessa il dietro le quinte della politica nazionale (romana) rivendica la trasversalità del proprio ruolo. L’importanza di un selezionato gruppo di professionisti chiamato a dare agibilità a chi ricoprire incarichi esecutivi. 

Ne esce un quadro quasi privo di speranza, per chi si ostina a voler superare lo stato di cose presente. Si liquida come ideologia ogni visione politica. Le persone corrette sembrano destinate a sparire. A titolo di esempio può essere citato Fabrizio Barca, uno dei pochi che ha voluto lasciare il suo incarico senza svuotare le sue stanze per il suo successore. Un generoso protagonista presto sparito e dimenticato…

Un libro che conferma il peggiore senso comune. Quello di chi afferma che a essere buoni, o anche solo corretti, si finisce per affogare. Che occorre saper pensare a se stessi e aiutare il prossimo fino a che conviene a se stessi…

da qui

 

1 - CONFESSIONI DI UN MANDARINO

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì - la Repubblica

 

IO SONO IL POTERE - GIUSEPPE SALVAGGIULO

Io sono il Potere Dio tuo: quindi senza nome e senza volto, come si presenta l’autore di questo libro che per la prima volta disvela dall’interno cio che oggi va di moda definire Deep State, lo Stato Profondo. La sala macchine e insieme il retrobottega dell’amministrazione pubblica: quell’entita che invisibili addetti hanno il potere di fare andare avanti con norme scritte e concreti atti di governo, ma che pure con i medesimi mezzi possono bloccare, o magari differire, oppure deviare, o addirittura inceppare senza che nulla appaia alla luce del sole; e comunque sempre in nome di quella Tecnica che formalmente e al servizio delle Istituzioni, ma in pratica si pone al disopra dei politici, a loro volta valutati dall’autore con «ferocia darwiniana», giacche i ministri passano, mentre «per noi c’e sempre un dopo».

 

E il mondo dei capi di gabinetto, dei maghi degli uffici legislativi, della vera e misteriosa Casta di color che sanno, consiglieri e avvocati di Stato, magistrati dei Tar e della Corte dei Conti, consiglieri parlamentari, gabinettisti raccontati maliziosamente alle prese con gli smaniosi capricci e le goffe ottusità dell’odierna classe di governo. E uno di questi mandarini che il giornalista Giuseppe Salvaggiulo ha convinto a vuotare il sacco, anche se l’impressione e che non aspettasse altro, colmo com’era di nozioni sulle virtù e le male arti del «kamasutra normativo».

 

Ecco percio astuzie e trucchi lessicali («In attesa del riordino della materia...»), pareri e codicilli di inavvertito, ma devastante impatto, regolamenti nati morti o avvelenati, deleghe oblique, spacchettamenti a rimbalzello, inammissibilita a geometria variabile; il tutto culminante nell’affannosa misteriosoia della Legge di bilancio: soldi, soldi, soldi, naturalmente pubblici, che per conto dei rispettivi ministri i capi di gabinetto si contendono a suon di bozze segrete, file posticci, “bachi” per individuare le fughe di notizie. Ed e come se un lampo rompesse l’oscurita che un giorno spinse un esasperatissimo Berlusconi a invocare: «Ma che cazzo e questa bollinatura?».

 

Dunque: Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli, 287 pagine comprensive di un lodevole e promettente indice dei nomi). Chi e convinto che si governi con i tweet e le dirette Facebook non apra proprio questo libro – per quanto farebbe meglio a studiarselo e non solo perche, come diceva la nonna, le apparenze ingannano e sotto la piu vistosa fuffa si nasconde il senso ultimo delle scelte. Se la politologia americana, da Murray Edelman in poi, ha approfondito il ruolo degli staff, nell’Italia della commedia e del melodramma si puo essere grati a questa ignota testimonianza.

 

Abbandonandosi dunque a un’antropologia di tristi tropici ministeriali fatti di piccoli piaceri e ricche parcelle, anticamere e salottini un po’ sdruciti, la cernita di mobili e cimeli nei sotterranei, il mercato degli autisti, la somministrazione delle spese di rappresentanza, i biglietti omaggio all’Olimpico, fino alla tritatura dei documenti. Una classe eterna e in via di aggiornamento, vedi l’uso di Telegram e degli integratori, l’aperitivo da Camponeschi, gli scooteroni e gli zainetti che fanno il capo di gabinetto smart e young.

 

Un’umanita in egual misura leale, insostituibile e maneggiona cui tocca far marciare le concrete decisioni della politica districandole in quell’«ordalia burocratica» che tanti spasmi seguita a fornire anche alla letteratura, dal fondamentale Misteri dei ministeri (1952) di Augusto Frassineti, al recentissimo e sapido E nato prima l’uomo o la carta bollata? (Rai Libri) di Alfonso Celotto, passando per certe indimenticabili pagine di Flaiano sulla fatidica invasione barbarica: “la discesa dei Timbri”.

 

Perche tre, elenca con pazienza l’Anonimo, sono le risposte classiche che ci si sente di norma rivolgere dai direttori generali: «Non e possibile», «E impossibile», «E assolutamente impossibile»; per poi concludere: «Se ti dimostri titubante ti mangiano vivo». Ma e nei riguardi della classe politica che l’orgoglio d’elite, pure rafforzato da orditi dinastici e coniugali, si traduce in una superiorita che sfuma nel disprezzo – ed e il tratto piu malevolo e godibile del libro. Chi manca di rispetto alla casta la paga cara.

 

Cosi Giulio Tremonti che volle avere al suo fianco un ex ufficiale della Guardia di Finanza «laureatosi a 46 anni» se lo ritrovo subito «isolato come portatore di un virus pestilenziale», e nessuno gli rispondeva al telefono. Idem Matteo Renzi, che venne a Palazzo Chigi con “la vigilessa” e quando provo a pubblicare in Gazzetta Ufficiale un decreto dal titolo Per un’Italia piu semplice e veloce, fu sconsigliato perche suonava come «un film della Wertmuller».

 

Idem Giggino Di Maio, troppi compaesani; peggio che peggio il tragicomico staff di Virginia Raggi, non a caso autonominatosi in chat Quattro amici al bar. Depositari della residua cultura istituzionale, va da se che i gabinettisti tramandino nei loro circuiti maldicenze fin qui ignorate dai piu pettegoli retroscenisti. Qualche perla: la bella ministra che in esotico viaggio di nozze scopri il marito a letto con un cameriere indigeno; o quell’altra di cui si sparse voce che partecipava al Consiglio dei ministri senza mutande; una reazione di Tremonti a Letizia Moratti: «Questo e il governo, non tuo marito!»; le conseguenze anche diplomatiche dei colpi di sonno di Silvio Berlusconi; le peripezie della legge per istituire la carica di emerito presidente della Repubblica (si dovette aspettare la morte di Giovanni Leone che si opponeva: «Ma lo sapete a Napoli che significa “emerito?”»); le bestemmie dispensate durante le riunioni di governo da Emma Bonino, e quando Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta inorridivano chiedendo a Romano Prodi di intervenire, ecco che lei ci dava ancora piu dentro, «porca ostia!».

 

E tuttavia, anche per chi ritenga secondario, se non disdicevole, questo ravanare intorno a tali aspetti della vita pubblica, le confessioni del capo di gabinetto offrono singolari e spesso inedite ricostruzioni sulla vera storia del colpo di spugna del primo governo Berlusconi, per dire, o sul decreto “a favore” di Eluana Englaro; come pure a proposito della lettera emessa dalla Bce nell’estate del 2009 e ricevuta non si e mai capito bene come e da chi, oltre alle varie manine e manone che nel corso del tempo senza posa cercavano di inserire sgravi fiscali o depenalizzazioni a favore di Mediaset.

 

Tutto o quasi appare qui plausibile. In primo piano si stagliano, descritti con irresistibile e irriverente nitore, le figure dei commis de l’Etat, a cominciare dal capostipite, Gaetano Gifuni, o dal suo massimo erede, l’attuale e sfuggente segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti. Un formidabile capitolo e dedicato a Gianni Letta, proclamato con impegnativa enfasi: «L’unita di misura del potere piu precisa e immutabile che sia, come la barra di platino e iridio conservata a temperatura costante di zero gradi nel Bureau international de poids et mesures a Sevres».

 

Uno dopo l’altro danzano e zompettano sullo scivoloso proscenio del comando uomini decisivi come il leggendario Enzo Fortunato, la cui prudenza lo porto a dimettersi prima di far firmare una nomina Rai che sapeva illegittima (e lo era); o l’asciutto, elegante e un po’ arrogante Roberto Garofoli che non molto tempo fa, a ragione ma in pubblico, si e concesso di interrompere e dare torto al presidente Conte; e a chi si complimentava ha risposto: «Allora non sapete che cosa facevo con Renzi».

 

E ancora l’anziano, ma efficientissimo Zaccardi, il vulcanico Giampaolino, il poliedrico Spadafora, il prezzemolino Ceresani, o Carbone che scorrazza in monopattino per i lucidi corridoi dell’Economia. E poi c’e lui, l’Anonimo. Non si caschera nella trappola del “chi e?”. Al netto degli indovinelli, si capisce che e un uomo sottile, ma vuol sembrare molto rafinato e idolatra il potere fino a bearsi di incontrare Marta Cartabia che corre a Villa Borghese. Insieme a una vena pedagogica, nelle sue funzioni e relazioni coltiva un freddo e misurato realismo, senza sbotti di tracotanza ne palpiti di pieta.

 

Ma e di certo un uomo assai spiritoso: il racconto di Sandro Pertini che, costretto da un’urgenza fisiologica, chiude di botto un incontro con Jacques Chirac riprendendosi per sbaglio il dono e restituendo ai francesi il loro e sublime; cosi come l’odissea burocratica cui il ministro Alfonso Pecoraro Scanio sottopose il proprio capo di gabinetto per salvare certi cavalli dell’esercito e farsi bello con gli animalisti – ma dall’intricatissimo iter resto fuori un mulo – e degna di un soggetto di Rodolfo Sonego per una commedia all’italiana con Alberto Sordi.

 

Eppure, come risucchiato da un gorgo di compiaciuto autolesionismo, l’Ignoto racconta i propri sogni e in turbinante metafora esprime a nome di tutti l’essenza del servizio: «Ci dobbiamo anche far piacere le minestre insipide e le paste scotte, ma solo con la certezza di avere sempre una bottiglia di champagne in fresco». Onore infine al confessore, Giuseppe Salvaggiulo, che pure del potere e appassionato, ma come un pericoloso ordigno che alla fine e meglio perdere che conquistare – anche se in fondo quel lavoro li qualcuno deve pur farlo.

 

 

2 - TRE DOMANDE ALL’ANONIMO

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì - la Repubblica

 

Quanto a personaggi e relazioni, la sua testimonianza sul potere e sorprendente e meticolosa. Come e possibile che non sia mai menzionata la massoneria?

«In realta se ne parla continuamente, senza citarla. Al vero gabinettista non interessa essere formalmente massone o sodale di qualsiasi gruppo di potere. In caso contrario, non potrei dire “io sono il potere”».

 

Fra le virtu del capo di gabinetto, come lei stesso non manca di sottolineare, c’e la discrezione. Cosa l’ha portata a violarla in modo cosi palese?

«La discrezione e un’arte preziosa, da amministrare con onesta. Io non ho violato segreti. Non ho usato le informazioni per lanciare messaggi, procurare vantaggi o consumare vendette. Non ho altro scopo che far conoscere i meccanismi del potere, perche il potere deve essere conosciuto per come funziona, da tutti».

 

Si nota, nel suo racconto, e nell’ambiente che lei descrive, uno spiccato senso d’orientamento. Come puo pensare di non essere riconosciuto?

«Io non sono un nome. Sono una maschera, un frammento pirandelliano, un meccanismo. Mi divertiro ad assistere al gioco di societa di chi cerca di personificarmi. Esercizio superfluo. Io sono una funzione, impersonificata e impersonificabile».

 

 

 

3 - "RENZI NOMINÒ LA MANZIONE E SCOPPIAMMO TUTTI A RIDERE"

Da “il Fatto quotidiano

 

Esce oggi in libreria per Feltrinelli "Io sono il potere". Ovvero "Confessioni di un capo di gabinetto" raccolte dal giornalista Giuseppe Salvaggiulo.

 

Il più grave errore di Renzi, dopo la presa del potere nel 2014, fu sbagliare la squadra. Non dei ministri, che in quel governo - a parte Padoan e pochi altri - erano perlopiù comparse. Parlo degli staff a Palazzo Chigi e nei ministeri. L'epurazione dei grand commis la lasciò in mano ai petit commis. Ma se i petit sono tali, un motivo ci sarà. Il segnale di un cambio di stagione senza precedenti fu la scelta del capo del Dipartimento legislativo della presidenza del Consiglio. Il mitico Dagl. Dipartimento affari giuridici e legislativi. L'ufficio da cui passano tutti i provvedimenti del governo e che tiene rapporti con ministeri, Quirinale, magistrature, istituzioni indipendenti, corporazioni. Il gigantesco depuratore che riceve le bozze dei disegni di legge e di tutti i provvedimenti dai ministeri. Le centrifuga, le modifica, le ripulisce e fa anche scomparire gli odori.

 

I capi del Dagl sono creature da film di fantascienza. Per metà sopraffini giuristi, per metà navigatori di mari imbizzarriti, avvezzi ai costumi della politica più spietata. Per cui una fragorosa e irriverente risata salutò, in quel 2014 in cui Renzi pareva onnipotente, la nomina di Antonella Manzione. Proiettata da una onesta carriera di capo della polizia municipale in Toscana al prestigioso e ambitissimo ruolo a Palazzo Chigi, che era stato occupato per dieci anni da Claudio Zucchelli, il mitico "Zucchellone", e poi dal brillante consigliere di Stato Carlo Deodato, finito anni dopo in Consob.

 

C'era un piccolo grande problema: la Manzione difettava del pedigree da dirigente generale dello Stato, necessario per quel ruolo. Come per il grillino Barca, anche per la renziana fu necessaria una forzatura. Dopo il primo no della Corte dei conti, si ovviò parificando il ruolo di comandante dei vigili urbani comunali a quello di un alto magistrato o di un dirigente generale dello Stato, per elevare il suo curriculum al rango necessario.

 

Non nascondo un certo maschilismo, corroborato da una antica passione per i B-movie anni settanta, nel rivendicare la paternità del soprannome con cui negli anni successivi la Manzione è stata ferocemente bollata, disprezzata, boicottata: "la Vigilessa".

 

Me ne sono pentito, conoscendola. In realtà Antonella è donna intelligente e abile, svelta a imparare e per niente arrogante. Doti che avrebbe avuto la possibilità di mostrare se non si fosse trovata trafitta implacabilmente da occhi maliziosi non meno che prevenuti. Ma in quei giorni ciò che risaltava era la sua abissale inesperienza legislativa, la povertà del curriculum, l' assenza di una personalità in grado di orientare e mediare la volontà politica con il sapere giuridico dei più alti apparati statali. Ad aggravare la situazione, il fatto che nel suo staff non ci fossero gabinettisti esperti, ma anonimi funzionari.

 

Faceva tutto parte di un disegno di Renzi. Che voleva portare al più alto livello istituzionale la rottamazione consumata trionfalmente nel suo partito. I ministeri furono infarciti di funzionari parlamentari e avvocati di non chiara fama. Poco avvezzi alla scrittura delle leggi, molto proni ai desiderata politici.

 

Non solo. Lo stile Renzi rompeva ogni consuetudine, capovolgeva l' ordine logico del nostro lavoro. Anziché elaborati pazientemente per mesi, i testi legislativi dovevano essere scritti in poche ore, per dare seguito ad annunci rapsodici del premier che scavalcava i ministri. Prima le slide riassuntive, poi i testi veri. Ma le leggi non si fanno con la bacchetta magica. Il risultato è stato il governo delle slide affidate agli staff di comunicazione che precedevano, a volte per mesi, testi inevitabilmente confusi e grondanti errori. E tutti a scaricare sulla Manzione anche colpe non sue.

 

 

Di pasticci legislativi ne abbiamo contati una decina solo nel primo anno di governo. Si finge di approvare un decreto o un disegno di legge in Consiglio dei ministri. Si trova un nome a effetto, possibilmente corto abbastanza da star dentro un titolo di giornale. Si fa una bella conferenza stampa proiettando slide mirabolanti. Poi si vede l' effetto che fa, lasciando ai malcapitati funzionari del Dagl il compito di fare il lavoro sporco con gli uffici legislativi dei ministeri coinvolti. Come cambiare una norma mezz' ora prima che parta il plico per il Quirinale. O mezz' ora dopo, quando bisognerebbe solo ricopiare il testo firmato sulla Gazzetta Ufficiale.

 

Non bisogna stupirsi se qualche tempo fa un decreto è giunto alla Corte dei conti privo di soggetto in una frase. Come nemmeno nei giochi della "Settimana Enigmistica".

 

Una squadra efficiente e forte non avrebbe consentito di arrivare a quel punto. I problemi li avrebbe risolti prima, nelle riunioni tra capi di gabinetto, in quelle tra capi degli uffici legislativi. Nei casi più delicati, a tu per tu con l' omologo di un altro ministero. () Il capo del Dagl si comporta come un maestro di cerimonie, dirige le danze e dissimula per orientare l' esito delle riunioni.

 

Solo se deve chiudere e teme che la situazione gli sfugga di mano può ricorrere all' imperio che gli deriva dal ruolo. E cioè: si fa così perché lo dico io. Un potere da esercitare con parsimonia, per preservarne la sacralità. Al contrario di quanto faceva all' inizio la Manzione nei preconsigli dei ministri. Di fronte a un contrasto di opinioni, si rifugiava nel più classico "chiedo a Matteo". Si allontanava, telefonino in mano. E quando rientrava, lo esibiva come un trofeo, chiosando il contenuto del messaggio ricevuto con la formula "Matteo mi ha detto di fare così".

 

A Palazzo Chigi solo una persona riusciva a tenerle testa ed era un' altra donna, di pari osservanza renziana. Destinata al ministero delle Riforme, senza portafoglio, Maria Elena Boschi capì subito che la sala macchine era a Palazzo Chigi e lì bisognava entrare.

da qui


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