sabato 21 agosto 2021

La punizione - Patrizio Gonnella

  

Chissà cosa mai avrebbe detto don Milani se avesse letto quell’ordinanza di un tribunale di sorveglianza che, nel negare a un detenuto una misura esterna di maggiore libertà, afferma perentoriamente che quel detenuto ha studiato troppo e potrebbe usare le sue lauree (conseguite durante la carcerazione) e la sua cultura universitaria per andare a rafforzare la sua dimensione criminale.

Tutto ciò è accaduto nella dotta Bologna che vanta una delle università più nobili e antiche della storia italiana. C’è da restare basiti, ma anche un tantino preoccupati.

Non so da quale argomento partire a spiegazione della mia incredulità e di tutta la comunità di Antigone, investita del caso dopo che il detenuto coinvolto aveva manifestato tutta la sua disperazione.

Un’incredulità condivisa da tanti studiosi e giuristi, tra cui il prof. Giovanni Maria Flick, autore insieme alla nostra avvocatessa Francesca Cancellaro del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani. 

Il primo argomento è di natura universale e costituzionale: l’istruzione è un diritto e come tale va trattato; non è mai degradabile a qualcos’altro o addirittura essere soggetta a una valutazione negativa che sa tanto di arbitrarietà decisionale.

Il secondo argomento attiene al campo della politica penitenziaria: l’istruzione e la formazione culturale sono i più limpidi strumenti di emancipazione dalle scelte devianti e non possono mai essere reinterpretati quali segni di pericolosità.

Il terzo argomento è di prevenzione criminale: come possiamo da ora in poi dire ai ragazzi nelle periferie urbane o nelle stesse carceri ‘studiate’ come percorso alternativo a quello criminale, se lo studio, addirittura quello più alto, è considerato negativamente nel percorso educativo?

Il quarto argomento è strettamente giuridico: un provvedimento di questo tipo difetta, se non dimostrato nei dettagli (ad esempio sostenendo che la laurea sarebbe servita a superare il concorso da boss o vicecapo di una qualsiasi organizzazione delinquenziale), di argomenti sostenibili all’interno di una motivazione razionale. 

 

Nelle carceri italiane fortunatamente vi sono tante università – coordinate in un network che svolge un lavoro meritorio – che investono energie umane e strumentali per portare avanti corsi e progetti.

E’ bello sentire da un direttore, come di recente accaduto a Livorno, che vi sono ben dodici detenuti iscritti a varie facoltà, e incontrare detenuti in biblioteca che stavano preparandosi a un corso di storia della radio e della televisione.

Così come è bello sapere che a breve nel carcere romano di Rebibbia penale si aprirà un polo universitario che farà seguito ai tanti già attivi in giro per l’Italia. Non è bello, invece, constatare che ancora non vi sia sulla pena una cultura giuridica condivisa da parte di tutti gli operatori del diritto. 

Uno Stato sociale e costituzionale di diritto deve dare a tutte e tutti pari opportunità di studio, deve attraverso l’educazione di massa rompere i blocchi sociali e colmare le disuguaglianze, altrimenti ogni retorica intorno al merito svela il suo amaro sapore classista. 

Mio padre con il sorriso ricordava che a sei anni era stato costretto ad andare a lavorare come fioraio perché era stanco di mangiare pane e cipolle. E non è andato oltre la quinta elementare. Io gli sono grato perché mi ha consentito di andare avanti con gli studi in quanto aveva ben chiaro il valore sociale, culturale e politico dell’istruzione.

Un valore che non può essere negato in un’aula di giustizia. La legge è uguale per tutti. L’istruzione deve essere uguale per tutti. Poveri e ricchi, prigionieri e liberi.

(Articolo pubblicato anche su il manifesto)

da qui

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