La responsabilità antropica nel riscaldamento globale, denunciata per
l’ennesima volta dall’Ipcc, è da imputarsi non genericamente all’umanità ma a
una manciata di industrie fossili. E al sistema capitalistico nel suo
complesso. Non dimentichiamocene.
Da quando, il 9 agosto, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc)
ha diffuso il suo ultimo report sul riscaldamento
globale, sui giornali e in televisione è stato un susseguirsi di articoli,
interviste e commenti a riguardo. Pochi però hanno messo i puntini sulle i,
ricordando come la responsabilità antropica denunciata per l’ennesima volta
dall’organismo Onu sia in realtà da imputarsi non genericamente all’umanità ma
a una manciata di industrie fossili.
Uno
studio del 2017 del Carbon disclosure project (Cdp) denunciava come
all’origine del 70% dei gas serra industriali immessi in atmosfera dal 1988
(anno in cui il cambiamento climatico antropico è stato ufficialmente
riconosciuto attraverso l’istituzione dell’Ipcc) ci fossero solo 100 industrie
fossili e all’origine di oltre la metà solo 25, sottolineando come fossero
state rilasciate più emissioni dalle compagnie di combustibili fossili dal 1988
al 2015 che nei 237 anni precedenti. Tra i principali responsabili, ExxonMobil,
Shell, BP, Chevron, Peabody, Total, Saudi Aramco, Gazprom, National Iranian
Oil, Pemex, Shenhua Group, China National Coal Group e via inquinando…
È vero, alcuni di noi godono di un tenore di vita garantito da un sistema che sul capitalismo fossile si regge ma questo tenore di vita non riguarda l’umanità intera e all’interno della fetta che ne beneficia c’è chi ne trae un vantaggio economico diretto spropositato.
Per questo, ogni volta che si parla di riscaldamento globale andrebbe
chiamato in causa il vero colpevole (e non genericamente l’attività umana):
vale a dire il capitalismo, che imponendo l’infinita accumulazione di valore
attraverso lo sfruttamento della natura rappresenta il motore del cambiamento
climatico.
Da quando, nel 1972, il Club di Roma fondato da Aurelio Peccei pubblicò il
famoso rapporto “The
Limits to Growth”, che metteva in guardia dal fatto che i consumi
materiali e l’accumulo di rifiuti non avrebbero potuto proseguire all’infinito
su una Terra di dimensioni e risorse limitate, di occasioni per raddrizzare la
rotta ce ne sono state tante. Gli obiettivi raggiunti (come l’Accordo di
Parigi) non sono stati però all’altezza della sfida. Complice naturalmente la
pressione dell’industria fossile.
Come
denuncia Rebecca Henderson, docente di Harvard, nel suo Nel
mondo che brucia. Ripensare il capitalismo per la sopravvivenza del pianeta,
«tra il 2000 e il 2017, l’industria dei combustibili fossili ha speso almeno 3
miliardi di dollari in attività di lobby contro le leggi per combattere il
cambiamento climatico, e altri milioni per sostenere gruppi e campagne che
negavano tale cambiamento».
Se in questi giorni in pochi hanno ricordato che non di generica attività
umana dovrebbe parlarsi bensì di attività capitalistica, c’è anche chi si è
“distinto” per aver dato per l’ennesima volta spazio a teorie negazioniste
della crisi climatica. Parliamo del quotidiano Il Foglio, che da
anni è su queste posizioni, e che in occasione dell’uscita del
rapporto dell’Ipcc ha pubblicato (oltre a un editoriale di Giuliano
Ferrara: “No,
non è questa la fine del mondo”) un’intervista a Franco Prodi (“Contro
il catastrofismo. ‘Ecco perché sul clima l’Onu sbaglia’”) nella quale, come
già in passato, il professore ha insistito nella tesi che l’allarmismo sia ingiustificato
(«perché la climatologia è una disciplina acerba» e le «basi della fisica su
cui poggia non sono ancora tali da permettere conclusioni drammatiche come
quelle indicate dall’Ipcc») e che non si possa affermare che tutti i mali siano
causati dall’essere umano. Per Prodi, se molteplici studi vanno in questa
direzione è perché «c’è stata una coincidenza tra l’industrializzazione del
pianeta e la scoperta di strumenti di misurazione di certi fenomeni
atmosferici»…
Che dire? Il tempo stringe ma la strada è ancora lunga. E tutta in salita.
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