1.
In un precedente articolo (https://volerelaluna.it/mondo/2021/07/15/congo-alle-radici-della-tragedia-della-regione-dei-grandi-laghi/) ci siamo soffermati sulla guerra
infinita e sanguinosa che attraversa la Repubblica democratica del Congo (RdC),
e in particolare della regione del Nord Kivu (dove è avvenuto il tragico
agguato in cui hanno perso la vita, nel febbraio scorso, l’ambasciatore Luca
Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustapha
Milambo). Si è, allora, sottolineato il disinteresse e il silenzio della
informazione occidentale al riguardo. Ma c’è un ulteriore aspetto che merita di
essere sottolineato: quello dell’ambiguità dell’intervento della cooperazione
internazionale.
È interessante soffermarsi sul ruolo che, in questo
contesto, gioca la MONUSCO, braccio operativo della Comunità internazionale:
19.000 unità, 17.000 militari, 1 miliardo e 200 milioni di dollari all’anno,
tutti destinati alla RdC, costituiscono il più grande dispiego al mondo per
operazioni di peacekeeping. Tuttavia, si stima che circa l’80%
degli abitanti dei villaggi della regione non abbia mai visto la MONUSCO o
reputi inesistente il ruolo della stessa. Il mandato di “protezione della
popolazione civile”, visti i risultati nell’arco di un quarto di secolo, appare
quantomeno dubbio. La popolazione fugge in cerca di sicurezza, che chiaramente
lo Stato oggi non garantisce, e la MONUSCO sembra fare altrettanto. Praticamente
in nessun caso, infatti, i caschi blu intervengono concretamente, e sembrano
presumere di poter “controllare” la situazione a distanza, cercando soluzioni
teoriche e del tutto ipotetiche, costruite “a tavolino”. Neanche quando nel
2013 l’M-23 (gruppo ribelle finanziato da Uganda e Ruanda) ha fatto ingresso a
Goma la MONUSCO inizialmente si è mossa, e solo a distanza di tempo ha optato
per la prima volta per la creazione di una forza speciale di azione, che in un
solo mese e mezzo ha sconfitto la milizia più pericolosa e organizzata in quel
momento, spendendo un quinto del totale dei fondi.
Fa sorridere che nella Dichiarazione delle Nazioni
Unite sui Diritti dei popoli indigeni del 2007 siano proclamati come principi
fondanti, congiuntamente, la salvaguardia dell’autodeterminazione dei popoli e
il perseguimento della cooperazione internazionale, che messi l’uno accanto
all’altro risultano a dir poco stridenti: l’autodeterminazione dei popoli si
realizza, infatti, soltanto se si verifica un serio passo indietro sulla
cooperazione, per fare in modo che ciascun popolo faccia il proprio percorso e
possa essere soggetto della propria storia. La MONUSCO sembra essere per certi
versi l’incarnazione di questa ambiguità di fondo, che certifica come
l’Occidente, che spesso si erge a “salvatore” dell’Africa, svolga a tutti gli
effetti il ruolo di “predone”.
Anche l’attività svolta dalle ONG – certamente
preziosa in tanti contesti – sembra risentire di un approccio per certi aspetti
contraddittorio. Spesso i progetti realizzati non risultano né funzionali né
necessari all’effettiva realtà del territorio. Non di rado si assiste ad una
vera e propria personalizzazione degli aiuti, che sembrano più volti a
realizzare un proprio progetto, calato astrattamente dall’alto nei confronti di
una popolazione identificata come “bisognosa”, che a mettersi realmente in
ascolto di una realtà inevitabilmente “altra”, che porta con sé bisogni e
necessità “altri”. La burocratizzazione dell’aiuto, volto a sovvenzionare le
grandi strutture delle ONG, innesca il paradosso della budgettizzazione,
che si traduce nel portare avanti progetti spesso slegati dalla realtà del
territorio, ma necessari per accaparrarsi fondi destinati a quella specifica
finalità (un caso più volte verificatosi è quello dei progetti sulla sanitation dell’acqua,
che in quelle zone è potabile e abbondante.)
Davanti a tutto ciò, il nostro scarno e distaccato
approccio alla comunicazione sull’Africa rispecchia perfettamente il ruolo
storicamente svolto dalle potenze occidentali. Il conflitto del Nord Kivu viene
infatti sommariamente derubricato a guerra tribale, lotta tra poveri, a cui noi
siamo del tutto estranei, e pertanto non responsabili. Secondo gli standard
dell’ONU, la regione del Nord Kivu presenta un livello 3 di pericolosità, come
zone – quali la Siria, lo Yemen e l’Iraq – raccontate ogni giorno dai
telegiornali, i quali però tacciono sistematicamente su ciò che avviene nella
zona dotata del suolo e del sottosuolo probabilmente più fertili e ricchi al
mondo. L’RdC sembra in tal senso avvolta da una sorte di coltre nebbiosa,
finalizzata a non far conoscere entità e interessi economici e politici in
campo.
Anche le strategie comunicative adottate dalle ONG non
sembrano volte a prendere sul serio la realtà della RdC. Il tipo di
comunicazione fortemente emotiva a cui quotidianamente assistiamo denota
infatti una mancanza di ragionamento, di logos. Gli spot pubblicitari
non sono rivolti alla testa, ma alla pancia dello spettatore, mirano a evitare
qualsiasi tipo di riflessione o di problematizzazione, riferendosi al
destinatario in maniera illogica, contraddittoria, irrazionale, atta a far leva
sui sensi di colpa di noi più “fortunati”. Secondo questa logica, donare è
sufficiente ad alleviare questo indefinito ma esistente senso di colpa che
l’occidente ha nei confronti dei paesi cd. in via di sviluppo.
2.
Dal piccolo e genuino villaggio di Muhanga (dove sono
stato nel 2015, grazie al legame di amicizia con la comunità Waibraimu) posto
nel cuore della foresta equatoriale a circa 230 km da Butembo, (per la sua
storia, cfr. G. Piumatti, Muhanga. Parole e storie d’Africa,
Torino, 2017) cosa si vede di tutto questo? «Senza togliere nulla alla gravità
del virus, ci troviamo di fronte all’ennesimo esempio di violenza: all’Africa
si impongono regole e atteggiamenti creati per il mondo-nord, e che non han
quasi nulla vedere con la vita concreta dell’Africa, specie nei villaggi, che
sono molti e conservano meglio la genuinità africana» (G. Piumatti, C.
Petriliggieri, G. Losito, Tra gli uomini, Trapani, 2019).
A Muhanga, come in tanti altri piccoli villaggi della
regione, il ruolo delle ONG rivestirebbe una grandissima importanza, poiché la
gente, e i profughi ruandesi in particolare, sono realmente abbandonati da
tutti, non vi è alcuna struttura istituzionalizzata finalizzata alla prima
accoglienza per chi fugge, né vi è traccia di campi per rifugiati. Il vero
intervento umanitario è realizzato dalla popolazione stessa. In questo
contesto, un tratto che accomuna l’operato delle ONG nel territorio è quello
della ricerca di visibilità. Per i grandi stradoni di Goma, dove si ha una
fortissima popolarità, le ONG sono presenti; a Muhanga negli ultimi anni si
saranno visti tre o quattro volte. Il sistema si regge perché poveri aiutano
altri poveri.
Ciò serve a sfatare il mito tutto occidentale di
ergersi e agire da “salvatori” o “paladini” dell’Africa. È semmai l’Africa, e
realtà come Muhanga in maniera particolare, a “salvarci” dalla nostra perdita
di contatto umano, vero, fraterno, disinteressato. Il dialogo, la conoscenza
profonda, l’ascolto accogliente, sono le vie per rapportarci in modo serio
all’Africa, nel rispetto dei suoi altri e diversi canali e modelli di sviluppo.
Tutto ciò che ci giunge dall’Africa è pertanto frutto di una comunicazione
costruita a regola d’arte, ed è necessario aprire gli occhi su questo, averne
consapevolezza; smontare un certo tipo di cliché, e provare a fare un discorso
diverso. Di fronte alla distruzione della memoria, realtà come Muhanga ci
spingono a raccontare e ascoltare il quotidiano, a partire dalle piccole
realtà, dalle storie di donne e uomini.
Da quando in Occidente sono arrivate difficoltà di
tipo economico, la nostra reazione a tutto ciò che viene dal diverso, dal Sud
del mondo, è stata la paura. Se non c’è il contatto, se non c’è la vicinanza,
chi viene da un mondo altro fa paura. Siamo diventati la società della paura
dell’altro – ancor di più se chiede aiuto – dell’indifferenza, del
disinteresse.
Il tema è senz’altro di matrice innanzitutto culturale
e didattica. La sola via è quella di prendere sul serio queste realtà,
sviluppare approfondimenti che richiedono tempo, energie, buona volontà e
collaborazione. Solo così l’altro non sarà strumentalizzato, né visto come
oggetto di cui appropriarsi o volto a lenire i nostri sensi di colpa, ma gli
verrà riconosciuta la dignità di soggetto. Nel nostro piccolo, una strada
credibile può essere quella di non lavare le nostre coscienze con azioni a buon
mercato, ma mettere in gioco le nostre storie, le nostre vite, per intessere
relazioni umane con persone in carne e ossa; di parlare in modo consapevole di
questi temi in contesti pubblici e di formazione, facendo leva su una
conoscenza seria e appassionata, che non si basa sull’emotività, ma
sull’approfondimento della complessa ricerca della verità delle cose.
Dal Congo e da Muhanga giunge a tutti noi un appello a
cambiare prospettiva.
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