Afghanistan. Boom in borsa e mega profitti per le aziende militari.
L’offensiva sull’Afghanistan ha spianato la strada ai conflitti successivi e
sdoganato l’uso dei contractors. Tutti i dati degli ultimi 20 anni: affari
armati e «guerra permanente»
La missione militare in Afghanistan è stata un fallimento. Ma non per
tutti. Non lo è stata per chi la lanciato l’offensiva militare e l’ha sostenuta
per 20 anni: il complesso militare-industriale americano e i suoi alleati.
Partiamo dall’andamento in borsa.
Secondo un’analisi condotta da The Intercept, l’acquisto di
10mila dollari in azioni equamente divise tra i principali fornitori militari
del governo Usa (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General
Dynamics) effettuato il 18 settembre 2001 – giorno dell’autorizzazione di
George W. Bush all’intervento militare in risposta agli attacchi terroristici
dell’11 settembre – varrebbe oggi, con utili reinvestiti, oltre 97mila dollari.
I rendimenti delle aziende
Un rendimento dell’872%, ben superiore a quello realizzato nello stesso
periodo dalle aziende del listino Standard & Poor’s 500 che si ferma al
516% (dai 10mila dollari iniziali se ne sarebbero ricavati “solo” 61mila). Il
«boom» in borsa è sotto gli occhi di tutti. Un’azione Lochkeed Martin (famosa
in Italia per la produzione degli F-35) è passata da 44,6 a 356,6 dollari; una di
Raytheon (la compagnia che inserisce le guide laser sulle bombe MK prodotte in
Sardegna e poi usate dai sauditi in Yemen) valeva 30,8 dollari nel 2001 ed è
ora quotata a 85,4.
Lo stesso vale per Northrop Grumman (da 42,8 a 363,16) e General Dynamics
(da 41,2 a 196,8). Queste quattro aziende ricevono la maggior parte delle loro
entrate dal governo degli Stati uniti. Ma la crescita è evidente anche per
Boeing. Con un portafoglio più differenziato anche sul civile, ha sperimentato
un balzo delle proprie azioni da 33,1 a 219 dollari.
L’elemento chiave della profittabilità delle aziende del complesso
militare-industriale non è principalmente legato alle loro performance
azionarie. Queste possono essere influenzate dai giochi di Borsa degli
investitori o da scelte strutturali ed errori dei manager. Ad esempio questo è
avvenuto nel caso dell’italiana Leonardo/Finmeccanica che, a differenza delle
aziende americane, ha più che dimezzato il proprio prezzo di listino. Il cuore
del successo economico dei produttori di sistemi militari risiede invece nel
«fatturato sicuro» e nella conseguente capacità di garantire dividendi sempre
più alti, che contribuiscono per oltre un terzo del rendimento finale.
Il fatturato sicuro
La già citata Lockheed Martin garantiva un dividendo di 0,44 dollari ad
azione nel 2001, mentre l’anno scorso ne ha distribuiti 9,80 (massimo storico).
Raytheon è passata da 56 centesimi all’anno a oltre due dollari, mentre
Northrop Grumman da 72 centesimi a ben 5,67 dollari all’anno per azione. Tutto
questo grazie proprio al «fatturato sicuro» garantito anche dal conflitto in
Afghanistan.
Gli 83 miliardi di dollari investiti nelle forze afghane sono quasi il
doppio del budget annuale per l’intero corpo dei marines. Superano i fondi
stanziati l’anno scorso da Washington per l’assistenza in buoni pasto a circa
40 milioni di americani.
Ovviamente le aziende produttrici di armamenti non hanno venduto i propri
prodotti solo ed esclusivamente per la guerra in Afghanistan. Ma proprio questo
conflitto è alla base della crescita poderosa e inarrestabile delle spese
militari mondiali. Comprese quelle dedicate a nuove armi, dopo il calo post
Guerra fredda. L’infinita «guerra al terrorismo», emersa come mantra politico
nelle relazioni internazionali dopo l’attacco alle Torri gemelle ha fornito
agli Stati di tutto il mondo e alle lobby transnazionali degli armamenti il
pretesto e la giustificazione politica per dedicare sempre più risorse e fondi
a eserciti e armamenti.
I dati SIPRI
Lo testimoniano i dati del Sipri di Stoccolma, che evidenziano l’enorme
crescita delle spese militari. Quasi un raddoppio tra il 2001 e il 2020 (da
1.044 a 1.960 miliardi di dollari a valori costanti comparabili) con un trend
in aumento che è destinato a rafforzarsi negli anni a venire. E che ha
garantito in questi ultimi due decenni risorse e contratti facili ai produttori
di armamenti.
Non a caso i dati dello stesso Sipri relativi al fatturato militare delle
prime quindici aziende del settore registrano un aumento complessivo del 30%
tra il 2002 e il 2018 (ultimo dato disponibile). Da 199 a 256 miliardi di
dollari. Lockheed Martin è la compagnia che è riuscita ad approfittare
maggiormente di questa congiuntura favorevole quasi raddoppiando il proprio
fatturato militare (da 26,3 a 47,2 miliardi di dollari a valori costanti)
seguita da General Dynamics (da 13,7 a 22 miliardi) e Raytheon (da 16,7 a 23,4
miliardi).
In questo senso anche le aziende non statunitensi sono riuscite a seguire
la scia di denaro aumentando di molto i propri ricavi armati. La britannica BAE
Systems è passata da 18,2 a 21,2 miliardi di dollari mentre l’italiana Leonardo
(in precedenza Finmeccanica) è passata da 6 a 9,8 miliardi di dollari.
I contractors
Il conflitto in Afghanistan ha dato il via a questa dinamica di profitto
armato permettendo di giustificare costosi interventi internazionali e
dispiegamenti di truppe fino a quel momento non previsti e comunque non
tollerabili dalle opinioni pubbliche e dai parlamenti. Dopo il dispiegamento
contro Kabul è stato più semplice intervenire militarmente in Iraq e in tutte
le altre zone di tensione che vedono attualmente impegnati gli eserciti
occidentali con nuovi armamenti, logistica e servizi.
Ma c’è di più. Il conflitto afghano ha permesso anche di sdoganare
l’utilizzo su ampia scala delle compagnie private non solo di natura militare,
ma anche e soprattutto con funzioni logistiche e di ricostruzione. Il tutto
iscritto però in un sistema impostato in modo da permettere ai cosiddetti contractors di
frodare a piacimento il Pentagono che spesso firmava i cosiddetti accordi
«costo zero»: qualunque fosse l’ammontare per un progetto presentato, il
governo avrebbe pagato.
Attirando dunque chiunque cercasse un profitto facile, ma con un prezzo
alto: in Afghanistan sono morti più dipendenti di queste compagnie che soldati
americani. Anche questo è servito a rendere sempre più «accettabile» la guerra
ai decisori politici e ai portatori di interessi economici.
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