Grande è il disordine nel mondo, ma
piccolo, ripetitivo, ininfluente vi è il disordine italiano, con l’ossessiva e
angosciante impressione di rimescolamenti sempre al livello più basso, di
aggiustamenti che non incidono sulla corazza della politica. Dove la “casta”
c’è, chi può negarlo?, e nuove cavallette presto vi si faranno spazio
aggiungendosi alle vecchie e riuscendo, con fatica, a scacciarne qualcuna. A
sinistra, la novità sono sinora De Magistris Vendola e
dio-ne-scampi Renzi, più o meno “carta conosciuta”, come
si diceva a Napoli un tempo. Ci sono da attendersi anche la novità di una nuova
Democrazia cristiana, secondo le non inermi aspirazioni di un Vaticano
tardissimo a svegliarsi dalla tacita e proficua accettazione del berlusconismo,
e di una destra anche estrema che si dirà sociale, eccetera. Un balletto
stantio.
La crisi sta producendo finora effetti secondari, plateali tentativi di riciclaggio che sono particolarmente evidenti (sempre all’avanguardia nel paese dei trasformisti e dei clientes) soprattutto nel più ipocrita dei mondi, quello dei media, che è riuscito ad accogliere pienamente nel suo seno quello delle arti. Se ne vedranno, si fa per dire, delle belle. Ma in questo “tutto cambi perché poco cambi” ci si dimentica sempre il problema maggiore, sul quale tornano a insistere non i filosofi e pensatori italiani, esaltati dalle loro passerelle festivaliere, ma qualche altro nel mondo sì, che è quello di come ridurre (o abolire) l’oscena distanza che corre tra i ricchi e i poveri, l’esigenza di una società più equa, il sine-qua-non di diritti comuni e del controllo delle avidità private, corporative, mafiose. Il francese Rosanvallon, per esempio, poco noto ai modaioli italiani, insiste nei suoi ultimi saggi, proprio su questo. Ed è proprio pensando a questo che le mie convinzioni e indignazioni pauperiste si riaccendono, pensando per esempio al dislivello corrente tra i grandi entertainer televisivi e giornalistici e le persone comuni, perché se per abolire la distanza tra un Agnelli e me ci vorrà più di una crisi e più di una rivoluzione, per quelle, mettiamo, tra Santoro e me, basterebbe una legge che abbassasse lui, senza affatto pretendere che innalzi me, che ho, per ora, quel che mi basta e perfino qualcosa di più. Pretendo solo che guadagnino meno lui, e quelli come lui, la cui funzione sociale non giudico affatto più pregevole della mia o di quella di milioni di altri italiani.
Molti anni fa, durante un governo di sinistra, venne
in mente a uno sciagurato grande politico “post-comunista”, di propormi un’alta
carica televisiva che ovviamente rifiutai. Ma mi divertii a pensare a come si sarebbe potuto
affrontare il moloch Tv e ridare una funzione positiva a un mezzo che si era
trasformato col tempo in un mostruoso strumento di addormentamento dei suoi
utenti, chiave di mercato e di governo per il tramite della pubblicità diretta
e indiretta, della manipolazione delle coscienze. Affidato a una schiera di
servi e prosseneti. Avrei proposto la chiusura per
tre anni delle televisioni, di tutte, lasciando ai tre canali
statali la possibilità di trasmettere a orari fissi notiziari solo letti o al più con poche immagini
fisse, la riproposta serale di vecchi film e sceneggiati scelti da
critici competenti per due ore al massimo, e nel pomeriggio di
disegni animati per bambini, preferibilmente europei. Durante quei tre anni,
una commissione internazionale di probiviri formata da psicologi e filosofi,
sociologi e antropologi di specchiata intelligenza e riconosciuta serietà, mai
provenienti dalla tv e dal giornalismo, avrebbe dovuto studiare come una
diversa tv avrebbe potuto essere d’aiuto alla crescita dell’intelligenza dei
suoi utenti. Beninteso, sarebbero stati licenziati in
tronco tutti i dipendenti della Rai-tv, che avrebbero potuto, volendo,
ripresentarsi tre anni dopo ai concorsi per le nuove assunzioni (con
regole stabilite dai probiviri di cui sopra), senza usufruire di nessun
privilegio rispetto ai nuovi aspiranti.
Questi sogni erano forse sogni da “dittatura
illuminata” più che da democrazia, ma sognavano le forme di una nuova
democrazia, tagliando dalle radici ciò che contribuiva alla sua morte. Sogni,
in ogni caso. Oggi che la crisi della tv comincia a essere evidente a tutti,
provocata dai nuovi mezzi non meno rischiosi, forse è il momento buono per
sognarli di nuovo, perché è di sogni simili, anche se più saggi e meno
fantastici di questi, che la crisi che stiamo attraversando. in un paese
incapace di ripensarsi, avrebbe bisogno mentre invece si assiste e si
assisterà, come sempre, a nuovi aggiustamenti, a nuove ambiguità, a nuove
compromissioni che non risolveranno granché. È di grandi e non di piccole
riforme che questo tempo ha bisogno, e del coraggio di pensarle, proporle,
imporle.
(l'Unità, 2 ottobre 2011)
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