A cura del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino
Ci sono
molte cose che non ti aspetti tra le colline boschive che separano la
Bosnia-Erzegovina dalla Croazia. Le armi da fuoco, per esempio. La settimana
scorsa c’era una pistola puntata contro una donna nigeriana dal suo passeur, chiusa in una casa e stuprata. E’ riuscita a
fuggire lanciandosi da una finestra e ora è ospitata in una casa sicura.
Qualche giorno fa un’avvocata ci ha informato anche di un traffico di organi
lungo il confine e sappiamo di gang che, come nelle migliori tradizioni
medioevali, rapinano i migranti che provano a passare la frontiera. Per non
parlare di droni, microfoni nei boschi, telecamere, migranti marchiati con
vernice sulla testa o dai bastoni della polizia croata. Per non farsi mancare
nulla possiamo citare anche mine e orsi nelle foreste. Dopo le prime settimane
di permanenza lungo il confine bosniaco-croato, lavorando attivamente e in modo
complice con i migranti che quotidianamente cercano di valicarlo, iniziamo a
farci un’idea dell’atrocità dei meccanismi di accoglienza dell’Unione europea.
Il buco nero d’Europa
Quella
bosniaca è una migrazione giovane, iniziata tre anni fa, nel 2018. Da allora la
Bosnia ed Erzegovina (Bih) è diventata il nuovo crocevia delle rotte dei
migranti in fuga da Paesi in guerra o dove forte è l’instabilità politica nel
continente asiatico, come Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan. I due centri di
raduno più significativi sono Bihać e Velika Kladuša, due piccole cittadine del
Cantone Una-Sana nella parte Nord-occidentale del Paese. Questo per la loro
prossimità al confine con la Croazia e per il fatto che le altre regioni che
costituiscono la federazione bosniaca rivendicano apertamente di non volere
migranti e pertanto non autorizzano la presenza di campi che, quindi, si
concentrano nel cantone dell’Una-sana e attorno a Sarajevo.
Da Bihać e
Velika Kladuša sono circa 240 i chilometri che dividono i migranti dal confine
italiano e austriaco, chilometri che macinano a piedi in una decina di giorni
con lo zaino pieno di pane, il timore di essere individuati dalla polizia
croata e la fame e la sete degli ultimi giorni, quando ciò che si erano portati
dietro è finito e a spingerli in avanti sono solo la speranza e la disperazione
impastate assieme. Spesso i pochi fortunati che arrivano a Trieste arrivano in
condizioni difficili, a volte critiche.
Secondo un
rapporto dell’OIM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di maggio
2021, sono 3.220 i migranti che, a fine aprile 2021, vivono in accampamenti
informali fuori dai centri di ‘accoglienza’. Vista l’immobilità e
l’ingovernabilità dello Stato bosniaco, in un primo momento è stata l’OIM a
occuparsi della creazione e della gestione dei campi autorizzati. Il Rapporto
denuncia tuttavia la progressiva diminuzione dei posti disponibili, arrivando a
3.242 nel 2021, situati in poche strutture isolate, con standard insufficienti
(assenza di elettricità, di acqua calda o di servizi essenziali). Questo
nonostante i fondi dell’Unione europea arrivati in Bosnia ed Erzegovina per la
gestione dei flussi migratori ammontino a più di 88 milioni di euro dal 2018 al
2021. Ovviamente a questi finanziamenti bisogna sommare quelli erogati per la
gestione delle frontiere e il rafforzamento delle capacità della polizia nelle
attività di controllo dei flussi migratori per oltre 23 milioni di euro.
Nonostante
quanto scritto finora, la recente politica del governo bosniaco è quella di una
progressiva chiusura dei campi preesistenti su proprietà private, anche a causa
degli alti costi pagati a personaggi non sempre trasparenti, l’esclusione delle
ONG internazionali dalla gestione delle strutture di ‘accoglienza’ e il
passaggio sotto la giurisdizione del Ministero per la Sicurezza.
Verosimilmente, questo comporterà l’abbandono di standard internazionali
nell’organizzazione dei campi che finiranno per essere sotto il diretto
controllo di un Paese al momento incapace, per volontà e capacità, di gestire
un fenomeno migratorio pur di modesta portata [1]].
Altre
conseguenze rilevanti saranno il progressivo aumento della logica securitaria
all’interno dei campi, un cambiamento di paradigma della finalità di queste
strutture, sempre più simili a luoghi di detenzione, e una diversa politica nei
confronti delle organizzazioni informali e delle ONG non registrate. Finora
questi gruppi sono stati generalmente tollerati dalle autorità locali e non,
data l’impossibilità da parte loro di affrontare, per il momento, la gestione
dei migranti in territorio bosniaco. Quando però il campo di Lipa sarà pronto è
prevedibile un inasprimento della repressione nei confronti di queste
organizzazioni.
Lipa: un passato di tende, un futuro di container
Il campo di
Lipa rientra all’interno delle dinamiche appena descritte: il nuovo insediamento
dovrebbe essere inaugurato il 6 settembre. "Nuovo" perché il 23
dicembre del 2020 è andato a fuoco lasciando centinaia di persone in ciabatte
in mezzo alla neve. Il nuovo campo sarà costituito da container e dovrebbe
ospitare 1.500 persone (1.000 uomini singoli, 300 membri di nuclei familiari e
200 minori non accompagnati). La strategia è quella di chiudere i campi vicino
alle zone di confine e relegare le persone in questa enorme struttura, situata
su un altopiano isolato. Al momento il campo di Lipa è costituito da 30 tendoni
con una capienza di 30 persone l’uno. Per il momento sono 600-700 le persone
‘ospitate’ e possono entrare e uscire a piacimento; in passato, tuttavia, si è
arrivati a contenerne fino a 1.500. Anche se tutto dovesse andare secondo i
piani del Governo, non sarà possibile coprire il numero di migranti presenti in
Bosnia ed Erzegovina (tra i 7.000 e i 9.000) che avrebbero bisogno di un
ricovero, almeno nel periodo invernale. La previsione è comunque già quella di
un futuro ampliamento. Il fine, ben poco celato, è il rallentamento dei flussi
di migranti verso l’Unione europea. Questa nuova politica dei campi sta già
probabilmente modificando le rotte migratorie che potrebbero spostarsi in zone
differenti, probabilmente più vicine alla Serbia.
C’era una volta la Jugoslavia
Se si
volesse fare un paragone tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina, si potrebbe dire
che la prima ha una tradizione più lunga di gestione dei flussi migratori:
iniziata come rotta nel 2016, ora sono presenti 18 centri per il transito e i
richiedenti asilo. Il numero dei People On the Move -
POM (persone in movimento, ndr.) presenti sui rispettivi territori nazionali è
simile (8.000-10.000 in Serbia, 7.000-9.000 in Bosnia). I campi con meno
servizi e meno organizzati sono quelli per uomini singoli e vicino al confine
(per il gran numero di persone che tenta il game e i
problemi di gestione ad esso legati). Capita che d’inverno i POM tornino in
Serbia date le condizioni di invivibilità all’esterno dei campi e per la
migliore qualità dell’accoglienza.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra Croazia e Bosnia, quest’ultima non
accusa formalmente la Croazia per le riammissioni [2], quanto per i respingimenti illegali fatti
all’interno del suolo nazionale. La questione dirimente non è quindi la
violenza sistematica e illegale di una polizia che sequestra telefoni, bastona
e toglie le scarpe ai migranti anche in pieno inverno per ributtarli in mezzo
al nulla, quanto la violazione della sovranità nazionale. Purtroppo sono
pochissimi i POM che decidono di denunciare i respingimenti violenti subiti:
molti non ne vedono l’utilità o hanno paura che questo possa rallentare o
impedire il riconoscimento del loro stato di rifugiato. Spesso, molto più
prosaicamente, non hanno alcuna intenzione di stare fermi un anno per attendere
i tempi burocratici della pratica o preferiscono dimenticare senza essere
costretti a rivivere il trauma. A volte capita siano i migranti stessi a
giustificare quanto hanno subito “Mi hanno picchiato, ma io sono
un migrante irregolare”. Al di là dei motivi, lo Stato croato
continua ad affermare che non ci sono prove di respingimenti violenti e che i
segni delle percosse, le ferite, i traumi sono auto inflitti dagli stessi
migranti o causati da conflitti tra loro [3].
“Migranti big problem”
Per il
momento gruppi di cittadini organizzati e razzisti non sono ancora
preoccupanti. Esistono e uno dei più significativi è guidato da Sej Ramić, un
professore d’arte il cui slogan è “stop all’invasione dei migranti”
e la cui propaganda è caratterizzata da contenuti xenofobi e razzisti. Pur
avendo un certo seguito sui social e tra la gente, quando si è candidato alle
elezioni nella città di Bihac nel 2020 non ha riscosso grandi consensi anche a
causa del forte legame degli elettori con i tre partiti etno-nazionalisti.
La dove la politica manca, bisogna farla
Non vi sono
lotte collettive o autorganizzate da parte dei POM, questo per svariati motivi:
la fatica fisica, la miseria del viaggio e la mancanza di leader politici o di
comunità. Vi è un egoismo più che comprensibile che nasce dalla volontà di
sopravvivere nonostante tutto e tutti e, nelle zone di confine, disperde mesi o
anni di relazioni costruite durante il viaggio. Le poche battaglie fatte
avvengono a titolo personale.
Il governo
bosniaco sembra intenzionato a promuovere la costruzione di pochi grandi campi
lontani dalle zone di confine, in modo da ridurre il numero di migranti che
tentano di entrare in Croazia. Questo per svolgere al meglio il ruolo che
l’Unione Europea ha deciso di attribuire a questa terra, cioè quella di uno
Stato cuscinetto in grado di ridurre gli ingressi in cambio di milioni di euro
di denaro pubblico. Il tutto condito con livelli di inefficienza, corruzione e
confusione legislativa e burocratica importanti.
Le ONG
presenti sul territorio svolgono un lavoro difficile e prezioso, calmierando
quella che potrebbe essere una mattanza silenziosa e silenziata, senza però
riuscire a evitare di trasformare un fenomeno migratorio che ha cause politiche
e responsabilità chiare in rivoli infiniti di disperazioni monodose, di morti e
ferite tutte individuali. Tuttavia, la necessità di farsi riconoscere a livello
ufficiale dal Governo bosniaco riteniamo comporti scelte che, pur tatticamente
utili al fine di alleviare le sofferenze dei migranti, strategicamente possano
comportare una difesa dello stato di cose presente, piuttosto che un suo
ribaltamento. Inoltre, vi è un rischio che queste organizzazioni dovrebbero
valutare nella progettazione delle loro attività: l’essere funzionali a un
processo di invisibilizzazione del fenomeno a quasi vantaggio solo delle
autorità locali, permettendo una qualche sorta di sopravvivenza nelle jungle fuori dalla città e, conseguentemente,
l’allontanamento dei migranti dai centri urbani e dalla vista degli onesti
cittadini.
Pertanto
riteniamo sia necessario e urgente, da parte di organizzazioni, collettivi e
singoli individui che si sentono solidali con i migranti e nemici delle
frontiere, riempire quello spazio politico che i vari attori di questo
spettacolo non possono o non vogliono agire. Nascondersi dietro la finzione che
siamo solo turisti in vacanza e non collettivi politici, riteniamo non sia
utile a porre la questione su un piano che non è più rimandabile. Scegliamo di venire lungo le rotte per denunciare le politiche
mortifere di esclusione dei poveri da parte dell’UE. Questa nostra
rimane una riflessione sicuramente iniziale e incompleta, dato che vorremmo
fosse arricchita da una molteplicità di contributi di chi lavora sul campo e di
chi, invece, si spende su altri ambiti.
Pensiamo che
sul lungo periodo non riconoscere pubblicamente il contenuto politico del
nostro operato possa essere controproducente: non siamo turisti che regalano
pantaloncini, anche perché non basterebbero tutte le braghe del mondo per mettere anche solo una pezza
su quanto sta succedendo qui, tutti i giorni.
Un elemento
della discussione, proposto spesso da chi lavora sul campo, è che portare una
qualche forma di conflitto può mettere a rischio le attività o addirittura le
persone in movimento. Di questo dobbiamo tenerne conto, ovviamente, essendo una
realtà complessa e articolata. Tuttavia alzare il livello del conflitto ora
dovrebbe essere visto come un aprire spazi di agibilità in futuro, quando le
politiche securitarie saranno efficienti e rodate.
Le
manifestazioni di Trieste prima e Maljevac dopo sono state un piccolo passo in
questa direzione, ma importante. Abbiamo capito che è possibile portare
pressanti richieste anche dove fino a quel momento sembrava impossibile. Tutto
ciò si collega anche con le lotte contro le denunce arrivate e che ci
aspetteranno nel breve futuro. Gli attivisti e le attiviste denunciate non
possono restare sole nel percorso giudiziario, dobbiamo contrastare questo
attacco alla solidarietà creando un fronte comune. E continueremo a stare dove
non dovremmo stare.
—
Per
contattare il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: pagina
FB
—
Bibliografia
Dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata
accoglienza Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati
dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021
https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/
Consiglio europeo Comunicato stampa 18 marzo
2016, Dichiarazione UE-Turchia, 18 marzo 2016
https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/18/eu-turkey-statement/
L’OIM chiede la fine dei respingimenti e delle
violenze contro i migranti lungo le frontiere esterne dell’UE
https://italy.iom.int/it/notizie/loim-chiede-la-fine-dei-respingimenti-e-delle-violenze-contro-i-migranti-lungo-le-frontiere
IOM: Temporary Reception Center Profiles
https://bih.iom.int/temporary-reception-center-profiles
Save the Children, “Viaggio (attra)verso
l’Europa", report 20 giugno 2021
https://www.meltingpot.org/Report-di-Save-the-Children-Nascosti-in-piena-vista-Minori.html
La vittoria dei talebani è inevitabile? - Il
Post
https://www.ilpost.it/2021/08/07/afghanistan-talebani-vittoria-inevitabile/
"Le riammissioni dei migranti in Slovenia
sono illegali", il Tribunale di Roma condanna il Viminale di Giuseppe
Smorto, Fabio Tonacci
https://www.repubblica.it/cronaca/2021/01/21/news/viminale_condannato_riammissioni_illegali_respingimenti_slovenia_migranti-283542228/
Note
[1] Per approfondire quanto questa crisi sia creata ad hoc
più che giustificata dai numeri, si veda il prezioso dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza
artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea,
RiVolti ai Balcani, luglio 2021 - https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/
[2] Sarebbe interessante fare un’analisi del linguaggio
utilizzato, in una logica sostanzialmente orwelliana. Per “riammissioni” si
intendono gli allontanamenti informali (e illegali) attuati dalla polizia del
Paese d’ingresso che, in modo generalmente violento, riporta i migranti al
precedente Paese di transito senza dare loro la possibilità di presentare
domanda di protezione internazionale. Famoso è il caso della sentenza del tribunale ordinario di
Roma che
condannò il Ministero dell’Interno accusandolo, con queste prassi, di star
violando contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea e persino lo stesso accordo bilaterale
Italia-Slovenia.
[3] Vi sono casi sporadici di poliziotti croati che, tra
il 2019 e il 2020, hanno denunciato in modo anonimo al loro sindacato le azioni
criminali di cui sono stati testimoni. Quando vengono prese in carico queste
denunce e non si concludono con un’impossibilità a procedere, finiscono per
colpire singoli poliziotti presentati all’opinione pubblica come “mele marce”
di un sistema sano che tutela i migranti secondo il diritto internazionale e
nel rispetto dei diritti umani.
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