Manifesto per la nuova scuola
1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto
intergenerazionale
La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte
scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e
l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano –
intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea – tra loro
interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello
tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.
L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di
“competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello
scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e
della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione
integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari
dell’apprendimento e della crescita.
2) Per una scuola della conoscenza
Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola
pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del
sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei
giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali,
la loro elaborazione e acquisizione – a partire da un’approfondita e reale
alfabetizzazione – gli studenti potranno diventare cittadini liberi e
consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza
l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di
sostanza.
3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini
Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere,
sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento,
compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o
ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma
se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua
attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle
conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i
deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini
che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni – al punto che
alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della
didattica – e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento
(spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore
didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e
plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare
come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito
non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese
altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per
l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto
a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un
indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di
cui via via essi si appropriano.
In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso
sempre più pervasivo della tecnologia digitale – che il ricorso alla “didattica
a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza
didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi – sia collegato ai
disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro
sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici,
fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della
mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza e della
negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è
fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre
ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella
comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli
insegnanti, gli unici davvero indispensabili.
4) Il mancato
coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni
Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione
umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di
ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della
trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva – insegnanti, psicoanalisti,
intellettuali, educatori – e non con i rappresentanti di associazioni private –
Fondazione Agnelli, Treelle, Anp – che rappresentano e perseguono appunto
interessi privati.
5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti
La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al
centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano
dei contenuti disciplinari, – solo degli autentici esperti possono infatti
trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline
– la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale
e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto
relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti
dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche
attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per
esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter
sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.
6) Restituire centralità all’ora di lezione
Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non
acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un
prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente
più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le
dinamiche dell’insegnamento/apprendimento – e non pensi che consistano in una
rapida verniciatura di “competenze” – sa benissimo che in due o tre settimane,
alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che
si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di
devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e
profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di
tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora
squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la
funzione e la rendono un’attività residuale. Se davvero si vuole
recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e
insegnamento:
– via gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO),
da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga
la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di
classe;
– via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività
scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e
l’utilità;
– via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione
linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto
psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri
professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti
improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra
istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile,
indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata
la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che
singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola
che però di base fa altro;
– via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei
documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende
il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione
del nulla;
– via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei
“territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento
dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle
tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia, della
storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche
attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica…non basta? Quelli che
dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di
prezioso la scuola offre;
– via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo,
attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente
all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:
7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”
L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da
oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, –
“organo costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei –
in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la
conquista della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e
di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua
figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche
ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a
esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile
dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e
nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa
interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella
cioè di istruire ed educare.
8) Un diverso rapporto
numerico tra studenti e insegnanti
Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire
nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano
davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione
oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere
fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una
didattica personalizzata – richiesta che si risolve in realtà nella
proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo –
e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in
classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti.
Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione,
secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena
l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per
la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano
essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.
C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può
essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali
permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti,
magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È
vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente
inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non
esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback
verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra
studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.
https://www.change.org/p/manifesto-per-la-nuova-scuola
https://nostrascuola186054220.wordpress.com/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/
Appello per creare dal basso e collegialmente una nuova scuola per un futuro
inedito - Davide Viero
Si vuole qui fare
un appello in vista dell’inizio dell’anno scolastico; un tempo in cui si
definiscono le linee programmatiche per l’intero anno.
È un appello
rivolto a insegnanti e genitori affinché facciano sentire la propria voce negli
organi collegiali, che formalmente hanno voce in molte questioni fondamentali
riguardanti la scuola. Ora come ora questi organi sono svuotati di senso nella
loro funzione meramente ratificante. Si tratta di ridare sostanza e vita alla
loro ormai vuota forma.
Oggi vediamo la
scuola destinataria di una miriade di atti normativi e legislativi con
circolari, note ministeriali che ne stanno ridefinendo il ruolo: non più quello
di emancipare in vista del compimento soggettivo di ognuno attraverso il sapere
e la cultura affrontati rigorosamente e con passione, bensì quello di
attagliare, conformare ed adattare le soggettività degli uomini di domani al
canone dominante di oggi, così che questi stessi uomini lo implementino senza
mai metterlo in discussione. L’uniformazione del soggetto nella sua totale
inconsapevolezza è la cambiale per avere i benefici pre-disposti da altri.
Nel versante
interno alla scuola, l’artificio con cui si ottiene il cambiamento
istituzionale è l’atomizzazione dei suoi elementi costitutivi e il conseguente
smarrimento dell’identità. Con l’autonomia scolastica il centro è diventato
l’esterno a cui conformarsi attraverso la concorrenza. Il dirigente non è più
un primus inter pares, ma un imprenditore che tratta gli
insegnanti da suoi operai invece di stare dalla parte di allievi ed insegnanti
per il bene dei primi. Il tutto in una crescente burocratizzazione verticista
che sta lentamente soppiantando la sfera umana e collegiale e che dovrebbe
portare a chiedersi quale sia il fine stesso dell’organizzazione perseguita
strenuamente dai dirigenti e dagli uffici territoriali; un fine che sembra
assolutamente autoreferenziale.
Questa ricercata
disgregazione ha frammentato l’identità della scuola rendendola plastica e
malleabile rispetto alle esigenze ad essa eterogenee della sfera economica, la
quale ha colonizzato la scuola con i suoi principi della concorrenza, della
meritocrazia, della misurabilità e del raggiungimento di obiettivi sempre più
precisi ma allo stesso insignificanti per gli uomini che la popolano.
Un’insignificanza che allontana passione ed interesse profondi, sostituiti dai
belletti del successo, da una competizione e da una distribuzione di identità
preconfezionate (per docenti ed alunni) che fanno strame della sfera umana nel
suo mutevole darsi e costruirsi. Una scuola che deve essere una efficiente
emanazione della sfera economica nella precisa conformazione di stampo
mercantilistico-finanziario. Un modello che, è bene ricordare, non estende i
suoi benefici a tutti ma, al netto della retorica inclusiva, oramai elemento
della concorrenza stessa, produce innumerevoli scarti che sono sotto gli occhi
di tutti. Perché se tutto diviene una competizione, per uno che vince ci sarà
una schiera di perdenti. Che resteranno tali anche al netto delle stesse
politiche “inclusive”: scarti passati di mano in mano come tali per estrarre
l’ultima stilla di valore e non destinatari di amorevole attenzione. Una scuola
serva di questo nuovo padrone e indifferente verso gli uomini a cui essa si
rivolge.
Questo appello
vuole essere una chiamata ad agire contro questa forma che si sta imponendo a
macchia d’olio, proprio a partire dagli organi collegiali: Collegio docenti e Consiglio
di istituto.
I temi sui quali
agire nelle riunioni degli organi collegiali sono molteplici. Vediamone alcuni.
– L’orario delle
lezioni, con la cosiddetta settimana corta che ormai è generalizzata. Sappiamo
che il lavoro intellettuale non è assimilabile a quello di fabbrica e che
concentrando le ore su meno giorni non è possibile accrescere l’efficacia.
Questo perché la sfera culturale abbisogna di tempi brevi e costanti: solo
questi infatti permettono al sapere di lasciare traccia interiore nel soggetto.
Altrimenti con le molte ore giornaliere il fare diventa compilativo, esecutivo
e meccanico, conformando su tale canone le generazioni future.
– Insegnanti come
oggetti e non soggetti di formazione. Ricordiamo che un insegnante, se vuole
insegnare, deve essere autonomo perché riceve linfa vitale tanto dagli alunni
quanto dai saperi con cui si confronta; sono queste le fonti di un rinnovamento
continuo e non eteronomo. Ora purtroppo si sta affermando una figura di
insegnante vuoto e sempre in attesa di istruzioni; un insegnante inteso come
facilitatore, esecutore di ordini di altri che di volta in volta gli
dicono cosa deve essere fatto, non apertamente, ma
attraverso l’imposizione del come. Un fare oggi improntato
su una concezione di stampo economicista.
– Le figure
organizzative e le commissioni nei singoli istituti. Figure e commissioni che
sono corpi estranei rispetto all’attività educativa dal momento che sono
afferenti alla sfera organizzativa. Una sfera che diventa sempre più complicata
e necessaria a causa della frammentazione e dell’iperspecializzazione. Senza
più il controllo dell’intero processo da parte del singolo, scrive S. Weil,
sale alla ribalta la burocrazia come forma di controllo del generale. Ma più
che aggiungere figure organizzative, nella scuola è giunto il momento di
semplificare. Il docente e i suoi alunni. E l’universalità in questa relazione
mediata dalla cultura. Il resto è in più.
– Rifiutare tutta
la gran messe di progetti e interferenze del territorio sulla scuola. Tutte iniziative
che sono la conseguenza dell’universalità che è stata espunta a seguito della
specializzazione e dell’oggettivazione. Un’universalità che però ritorna a
bussare, da fuori, sotto forma di millanta iniziative, dallo yoga
all’educazione finanziaria e altre amenità; tutti sintomi di come la scuola
ridotta al punto e all’attimo si senta debole e sperduta e per farsi forte e di
nuovo universale accolga queste “universalità” di volta in volta, come la somma
dei numeri naturali anziché affidarsi al simbolo dell’infinito. Che dovrebbe
essere la porta in comunicazione con qualunque contenuto culturale affrontato a
scuola. Perché l’universalità va coltivata nell’ora di lezione e in ogni
contenuto, non attesa dall’esterno dopo che la si è rifiutata aprendo la porta
all’iperspecialismo.
– L’esproprio
della valutazione. Con l’INVALSI a guidare le procedure valutative, si sta
costruendo una valutazione per test su modelli eteronomi che, come scrive lo
storico Mauro Boarelli, sono di matrice economicista. Test che misurano
l’interiorizzazione di stereotipie da applicare come psitacismi nelle
condizioni date. La metrica di tutto deve essere sostituita dallo sguardo
attento e preciso dell’insegnante, che non può essere espropriato del giudizio
relativo all’alunno, oggi ridotto a poche frasi preconfezionate da scegliere da
un elenco predisposto.
– I curricula
verticali, che vengono affrontati nella direzione sbagliata. Perché invece che
essere i gradi-scuola successivi a tenere conto delle basi costruite
precedentemente, sono i gradi inferiori che si attagliano su ciò che verrà
richiesto poi e lo anticipano senza dare prima le basi delle discipline;
creando una scuola che non istruisce perché si accontenta di offrire vacue
formule. Che solo pochi comprendono e una gran massa esegue dimenticandole poco
dopo.
Tutto ciò va
contrastato negli organi collegiali, che devono riappropriarsi delle questioni
con la consapevolezza del proprio ruolo e attraverso deliberazioni collegiali e
non ratificative. Importante a tal proposito è richiedere il rispetto della
normativa e della legge che, molte volte non essendo ancora state riformate,
possono fungere da solide barriere alla deriva scolastica.
Se noi insegnanti
e genitori abbiamo questa consapevolezza, votando per il bene dei nostri alunni
e figli e rifiutando incarichi in contrasto a ciò, sicuramente saremo sulla via
per una scuola umana attraverso la cultura. Che è libertà nella rigorosità
attenta all’universale.
Iniziare a
contrastare con altre proposte tutti i punti citati. Sarebbe un ottimo inizio
di anno. Per una nuova scuola.
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