Il 5 luglio, dopo nove mesi di carcere, è morto l’anziano gesuita Stanislaus Lourduswamy, noto per le sue battaglie a difesa degli oppressi. Le autorità avevano accusato l’84enne di cospirazione. La contestata legge antiterrorismo ha consentito di prolungare la detenzione nonostante la falsità delle prove a suo carico.
La morte di
un anziano gesuita noto per la sua battaglia in difesa dei diritti degli adivasi,
i “popoli originari” dell’India, e degli oppressi ha suscitato sgomento in
India, dove la sua comunità e molti difensori dei diritti umani parlano di un
“omicidio istituzionale”. Padre Stanislaus Lourduswamy, noto come Stan Swamy,
aveva compiuto 84 anni in carcere. Era stato arrestato l’8 ottobre 2020 da
agenti della National investigation agency (la polizia federale indiana), che
lo avevano prelevato in un raid notturno dal suo alloggio
nella comunità chiamata Bagaicha che lui stesso aveva fondato vicino a Ranchi,
nello stato Nord-occidentale del Jharkhand. Accusato di attentare alla
sicurezza dello Stato, era stato tradotto in un carcere di massima sicurezza a
Mumbai.
L’anziano
gesuita non è mai stato processato e molti sono convinti che le accuse nei suoi
confronti non avrebbero retto davanti a un giudice, soprattutto dopo che le
“prove incriminanti” erano risultate false. Ma una legge antiterrorismo
duramente contestata (“Unlawful acts prevention act”) ha permesso alle autorità
di prolungare all’infinito la detenzione preventiva, e le ripetute richieste di
libertà provvisoria di padre Stan sono state respinte. Così, ancora prima di
considerare le ragioni dell’arresto, resta un senso di sgomento per quei nove
mesi di detenzione di un uomo anziano malato di Parkinson, privato di ogni
assistenza personale: i magistrati di sorveglianza avrebbero lasciato cadere
perfino la richiesta di una tazza con cannuccia, visto che non poteva reggere
da solo un bicchiere. Il carcere era di fatto una condanna a morte.
Durante
l’ultima udienza per la sua libertà provvisoria davanti all’Alta corte di
Mumbai padre Stan aveva dichiarato che non gli restava molto da vivere, e
chiedeva di finire i suoi giorni nella sua comunità. Gli è stato negato. Alla
fine di maggio, per ordine della Corte suprema, era stato infine ricoverato in
un ospedale cattolico di Mumbai, dove gli è stato diagnosticato il Covid-19,
contratto in carcere, e dove è morto il 5 luglio 2021.
“Questa non è
una morte naturale ma l’omicidio istituzionale di un animo gentile commesso da
uno stato inumano”, scrivono in un lungo comunicato alcuni attivisti della
comunità di Stan Swamy, insieme a compagni e parenti di altre quindici persone
tuttora in carcere con le stesse accuse dell’anziano gesuita: avrebbero
cospirato per sovvertire lo Stato d’intesa con il partito armato maoista. Si
tratta del cosiddetto “caso Bhima Koregaon”, dal nome di un villaggio del
Maharashtra (lo Stato che ha per capitale Mumbai) dove nel 2018 una
manifestazione per commemorare un’antica rivolta dei dalit (i
“fuoricasta”, quelli una volta chiamati intoccabili, lo scalino più basso della
scala sociale indiana) si concluse con grandi violenze. Padre Stan Swamy non
era là e neppure gli altri quindici attivisti sociali, avvocati del lavoro,
difensori dei diritti umani arrestati un anno fa: ma tutti sono stati accusati
di aver istigato quelle violenze. I giudici hanno parlato addirittura di un
complotto per uccidere il primo ministro indiano Narendra Modi.
Poco prima
di essere arrestato, padre Stan Swamy aveva registrato una dichiarazione in cui
confutava le accuse contro di lui. La polizia federale aveva già perquisito la
sua comunità e sequestrato il suo computer, e stava costruendo un’accusa nei
suoi confronti fondata su una montatura, diceva. In quella dichiarazione, padre
Stan parlava tra l’altro del suo lavoro per denunciare l’alienazione delle
terre e dei diritti dei gram sabha (gli organismi
rappresentativi locali), e lo sradicamento degli adivasi. Parlava
di arresti indiscriminati di migliaia di giovani nativi, accusati di essere
“maoisti” solo perché “mettono in dubbio e resistono all’ingiusta alienazione e
sradicamento dalle terra”. Giurista di formazione, nel 2017 l’anziano gesuita aveva
avviato un’azione legale in difesa di alcuni adivasi che
languivano in carcere da anni senza processo con l’accusa di essere dirigenti
maoisti. Questo, diceva Stan Swamy, potrebbe essere il motivo principale per
cui è stato messo sotto accusa.
Del resto,
l’esistenza stessa della comunità Bagaicha era una sfida: un luogo “aperto ai
giovani delle comunità adivasi, ai dalit, ai movimenti
popolari in genere”, spiegava padre Stan Swamy quando l’ho visitata nel 2011.
Vi ospitava assemblee popolari e incoraggiava i giovani adivasi a
mettere per iscritto le loro storie, oltre a fare un attivo lavoro di
consulenza legale e di informazione sui diritti delle popolazioni native. Aveva
cominciato a documentare come lo sfruttamento di risorse minerarie e altri
progetti di sviluppo (“parola usata a vanvera”, diceva) si risolvano nella
cacciata delle comunità più povere dalle loro terre: “E chi perde la terra,
perde e basta”. Diceva che la Chiesa “non può restare in silenzio” davanti
all’ingiustizia.
Che le
accuse contro padre Stan Swamy e gli altri detenuti del “caso Bhima Koregaon”
fossero una montatura sembra confermato dall’analisi compiuta da un’agenzia di
indagini forensi di Boston, Arsenal Consulting, pubblicata lo scorso febbraio dal Washington Post e
ripresa anche dai media indiani. Su richiesta della difesa degli imputati, gli
esperti avevano esaminato i computer sequestrati a padre Stan e ad altri
imputati, e dimostrato che decine di lettere e altri documenti vi erano stati
inserito in cartelle nascoste usando un malware, incluse lettere in
cui si parlava di come procurare armi, o di uccidere il primo ministro Modi.
“Siamo
indignati che padre Stan abbia dovuto pagare con la vita per questa montatura
fatta in malafede”, dice il comunicato diffuso da attivisti e amici dopo la
morte del gesuita. “Padre Stan non meritava di morire così, imprigionato con
false accuse da uno stato vendicativo”. Padre Stanislaus Lourduswamy (era il
suo nome completo) era nato a Tiruchirappalli, presso Madras (oggi Chennai), nel
1937, ed è stato per 51 anni in prete che aveva fatto propria la battaglia
di adivasi e fuoricasta per “jal, jangal e zameen”. Cioè
acqua, foresta e terra. Rifiutava di essere “spettatore silenzioso”.
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