Mentre il Partito comunista cinese (Pcc) celebra i suoi cento anni di esistenza, i paesi occidentali faticano a definire il loro atteggiamento nei confronti del regime di Pechino. Diciamolo chiaramente: bisognerebbe smetterla con l’arroganza occidentale e promuovere un nuovo orizzonte di emancipazione e di uguaglianza a livello mondiale, attraverso una nuova forma di socialismo democratico e partecipativo, ecologista e postcoloniale. Se invece i paesi occidentali continueranno a sentirsi superiori e a difendere un modello di capitalismo esasperato e fuori dal tempo, avranno difficoltà a rispondere alla sfida cinese.
Il regime di Pechino ha molte fragilità. Secondo il Global Times,
quotidiano legato al Pcc, la democrazia in versione cinese sarebbe superiore al
supermercato elettorale occidentale perché affida il destino del paese a
un’avanguardia motivata e determinata, al tempo stesso selezionata e
rappresentativa della società (il Pcc ha 90 milioni di iscritti, il 10 per
cento della popolazione), e quindi più impegnata a servire l’interesse generale
rispetto all’elettore occidentale, volubile e influenzabile.
Di fatto, però, il regime si avvicina sempre di più a una dittatura
digitale, talmente perfetta che nessuno vuole somigliarle. Il modello di
governo all’interno del partito è ancora meno convincente visto che non lascia
alcuna traccia all’esterno, mentre tutti possono osservare il sistema di
sorveglianza generalizzata attivo sui social network, la repressione dei
dissidenti e delle minoranze, lo stravolgimento del processo elettorale a Hong
Kong e le minacce contro Taiwan.
A tutto questo bisogna aggiungere la forte crescita delle disuguaglianze, e
il sentimento d’ingiustizia sociale non potrà essere sempre risolto con qualche
eliminazione mirata. Ma, nonostante queste debolezze, Pechino ha dei punti di
forza: quando arriveranno le catastrofi climatiche potrà facilmente
sottolineare le responsabilità delle vecchie potenze, che rappresentano una
parte ridotta della popolazione mondiale ma hanno prodotto quasi l’80 per cento
delle emissioni di anidride carbonica accumulata dall’inizio dell’era
industriale.
Inoltre la Cina ricorda che si è industrializzata senza fare ricorso allo
schiavismo e al colonialismo, di cui ha subìto le conseguenze. Non ha l’eterna
arroganza dei paesi occidentali, sempre pronti a dare lezioni al mondo in
materia di giustizia e di democrazia ma incapaci di affrontare disuguaglianze e
discriminazioni, e disposti a compromessi con gli oligarchi. Dal punto di vista
economico e finanziario, lo stato cinese ha risorse considerevoli, molto
superiori ai suoi debiti, cosa che gli permette di avere una politica ambiziosa
sul piano interno e su quello internazionale, in particolare sugli investimenti
nelle infrastrutture e nella transizione energetica.
Attualmente il potere pubblico ha il 30 per cento di tutto quello che si
può possedere in Cina (controlla il 10 per cento del settore immobiliare e il
50 per cento delle aziende), il che corrisponde a una struttura di economia
mista non lontana da quelle viste in occidente durante gli anni del boom
economico, tra il 1945 e il 1975. Al contrario è incredibile constatare che i
principali stati occidentali si ritrovano oggi con risorse patrimoniali quasi
nulle o addirittura in debito. Incapaci di far quadrare i conti pubblici
(serviva una maggiore pressione fiscale sui contribuenti più ricchi), questi
paesi si sono indebitati sempre di più e hanno messo in vendita una parte
crescente delle risorse pubbliche.
Chiariamo un punto: i paesi ricchi sono ricchi nel senso che i patrimoni
privati non sono mai stati così grandi, ma gli stati sono poveri. E se
continuano così avranno un patrimonio pubblico sempre più ridotto, e i
proprietari di titoli pubblici avranno non solo l’equivalente di tutti i beni
pubblici (edifici, scuole, ospedali, infrastrutture, eccetera), ma anche il
diritto di prelevare una quota crescente delle imposte dei futuri contribuenti.
Al contrario si potrebbe fare come è stato fatto nel dopoguerra, ridurre il
debito pubblico rapidamente aumentando le imposte sui patrimoni privati più
grandi, dando allo stato un certo margine di manovra. Solo a questo prezzo
infatti si potrà portare avanti un’ambiziosa politica d’investimento
nell’istruzione, nella sanità, nell’ambiente e nello sviluppo.
Inoltre bisogna togliere i diritti di copyright sui vaccini, condividere le
entrate delle multinazionali con i paesi del sud del mondo e mettere le
piattaforme digitali al servizio dell’interesse generale. Bisogna promuovere un
nuovo modello economico fondato sulla condivisione del sapere e del potere a
tutti i livelli. Il neoliberismo, lasciando il potere ai più ricchi e
indebolendo i poteri pubblici, non ha fatto altro che rafforzare il modello
cinese. È tempo di passare a qualcosa di diverso.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
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