(da Avis de tempêtes, via finimondo.org)
Fin dal suo inizio, la gestione dell'epidemia di Covid-19 da parte del potere è stata logicamente segnata alle nostre latitudini da una predominanza degli imperativi economici e da una preservazione dell'ordine sociale, cosa che oggi nemmeno la ragione medica di Stato tanto invocata riesce più a celare.
Ma ciò che colpisce è che le infinite forme di auto-organizzazione che avrebbero potuto emergere dalle singolarità individuali per far fronte al virus e continuare ad agire malgrado il virus, siano state d’un tratto come paralizzate dalle sabbie mobili di raccomandazioni contraddittorie e di cifre sfibranti: tasso di mortalità e di letalità, tasso di positività, tasso di incidenza, tasso di passaggio al pronto soccorso e di posti occupati nelle terapie intensive, tasso di anticorpi persistenti, tasso di reinfezione… e via di questo passo. Ciò evidenzia ancora una volta che ponendosi sul terreno della politica dei grandi numeri invece di partire da se stessi — con i propri dubbi come con i propri infuocati desideri — la riflessione finisce generalmente per impantanarsi in una logica gestionaria, in cui il calcolo produttivo prende rapidamente il posto della vita e dei suoi eccessi dispersivi. Per spezzare lo stesso schema che presiede ad ogni riduzione statistica della complessità umana, bisogna dare vita ad un’unicità al di là dei media e ricreare diversità smontando gli aggregati di dati — non ci sono molte altre soluzioni. Questo è lo stesso terreno in cui ogni individuo è invitato a piegarsi di fronte ad un interesse superiore collettivo che sarebbe da rifiutare. È il suo rapporto sensibile con la vita, la morte, la malattia, i rischi da prendere, il mutuo appoggio, le stelle da cogliere, che va difeso davanti all’esigenza sociale di sacrificarlo sull'altare della quantità. Che quest'ultima si chiami patria, economia, bene comune... o anche immunità collettiva.
Se il metodo medico di comprensione statistica è certo costitutivo del rapporto contemporaneo con le epidemie, come mostra il vecchio dibattito tra contagionisti e infezionisti durante quella del colera nel 1832 (per gli uni la malattia si trasmette dal contatto coi malati, per gli altri dall'insalubrità dell’ambiente) o anche la prima elaborazione matematica a partire dall’epidemia di peste in India (1927), questo rapporto autoritario che ingabbia le singolarità ha tuttavia radici assai più lontane ancora. Si potrebbe magari farlo risalire alle origini della scrittura in Bassa Mesopotamia, dove tale invenzione non era concepita come un mezzo per rappresentare il linguaggio, ma direttamente per bassi fini di contabilità amministrativa e commerciale, collegando intrinsecamente i primi numeri incisi su tavolette alla comparsa del dominio statale (con le sue esigenze di identificare, tassare, misurare, classificare, uniformare, gestire, prevedere). Tanto che potremmo persino chiederci se non sia con la stessa nozione di calcolo e con la volontà di quantificare il mondo che è cominciato il processo di addomesticamento dei nostri sensi.
Oggi non stupisce nessuno che in materia medica come in molte altre, la politica statistica dei grandi numeri sia diventata padrona nell'amministrazione della nostra vita da parte dei potenti, come ha ancora mostrato l'epidemia di Covid-19. Per quanto riguarda le autorizzazioni pubbliche per i vaccini (e i farmaci), il criterio viene definito tranquillamente rapporto benefici/rischi, basando gli studi su piccoli campioni considerati rappresentativi, a partire dai quali vengono poi proiettate estrapolazioni sull’insieme dei nostri congeneri, riducendo la vita ad una collezione di macchinari più o meno standardizzati e funzionali. A costo di trasformare la popolazione mondiale in cavie di un gigantesco laboratorio sperimentale con misture a base di chimere genetiche, di cui uno degli attuali miracoli scientifici non è quello di evitare i vaccinati né d’essere contaminati, e neppure d’essere contagiosi, ma solo di sviluppare le forme gravi della malattia.
Nella stessa logica, al fine di effettuare il loro smistamento in materia di cure vitali, pesanti, costose, di emergenza o crisi, tra chi può eventualmente sopravvivere e chi tutto sommato non serve più, gli statistici in camice bianco ad esempio assegnano quotidianamente dei punteggi ai pazienti. Questi non sono ovviamente collegati alla complessità di ogni individuo, sulla quale la fabbrica inospitale non si prende comunque la briga di soffermarsi, ma sulle probabilità medie di sopravvivenza potenziale al momento di questo smistamento decisivo: abbiamo così il punteggio di fragilità (da 1 a 9, con gli ultimi livelli attribuiti in base alla «aspettativa statistica di vita a 6 mesi»), il punteggio OMS (da 1 a 4, basato ad esempio sul fatto che si resti allettati «più o meno il 50% della giornata») e il punteggio GIR (da 1 a 6, determinante il livello di dipendenza, legato al fatto che un individuo possa effettuare un certo numero di compiti «spontaneamente, totalmente, correttamente o abitualmente»). È questa combinazione di punteggi, tanto performativa quanto arbitrariamente normativa, a determinare ufficialmente chi può vivere o morire, qui tra un paziente affetto da Covid e una persona vittima di un incidente stradale o di un infarto, e là tra due malati di Covid. Uno smistamento chiamato pudicamente selezione o priorizzazione, e di cui è meglio conoscere in anticipo le griglie di valutazione in caso di cura.
Ovviamente, è possibile sottolineare che questi strumenti di gestione dalla pretesa scientifica e oggettiva sono innanzitutto il riflesso di un mondo che ha bandito la qualità e l'individuo a beneficio dell'efficienza e della massa, dopo aver espropriato ciascuno di ogni autonomia, all'interno di un ambiente sempre più degradato che a sua volta richiede una moltiplicazione di situazioni di crisi o d’emergenza. E che quando aleggia la paura e la morte, per molti è indubbiamente più rassicurante trincerarsi dietro il noto della fredda razionalità di Stato che affrontare l'ignoto sperimentale di individui liberamente associati per farvi fronte. A ciò si potrebbe rispondere con un sorrisetto, che quando non si ha alcuna pretesa né volontà di gestire la merda esistente a un livello così globale come quello di una società, neppure in maniera alternativa, si può tuttavia auto-organizzarsi per tentare di porvi fine.
Attualmente, questo rapporto autoritario del quantitativo non riguarda unicamente la gestione clinica immediata della situazione instabile in corso — che passa anche attraverso la priorità assoluta data alla Covid-19 rispetto ad altre gravi malattie con pesanti conseguenze posticipate nel tempo — ma include anche un'altra dimensione di cui si intravedono appena le premesse: il rapido adattamento dell'apparato statale a un'epidemia che non è disposta a fermarsi, creando un nuovo tipo d’ordine sanitario e produttivo segnato in poco più di un anno da un'accelerazione dell'artificializzazione tecnologica della nostra vita.
Tralasciando la Cina che figura troppo facilmente da comodo spaventapasseri, la molto democratica Corea del Sud, per esempio, ha fissato fin dal marzo 2020 un tracciamento dei contatti della popolazione sfruttando i dati personali accumulati dai vasti sondaggi sanitari, come la situazione finanziaria, le fatture telefoniche dettagliate, lo storico di geolocalizzazione, le immagini di videosorveglianza pubblica o le informazioni trasmesse dalle amministrazioni e dai datori di lavoro. Tutte informazioni raccolte e poi integrate in un registro nazionale e liberamente accessibile, indicante la nazionalità delle persone, la loro età, il sesso, il luogo della loro visita medica, la data del loro contagio e informazioni più precise come l’orario di lavoro, il loro rispetto di misure come indossare la mascherina in metropolitana, le fermate abituali, i bar o i centri massaggi frequentati. Un gran bell’esempio di abbinamento di algoritmi informatici per alimentare la costruzione di un modello epidemiologico e permettere una gestione ottimale da parte delle autorità, il tutto completato da quarantene individuali obbligatorie, implementate tramite un'applicazione di geolocalizzazione sonora e che avvisa direttamente le forze dell'ordine se gli individui interessati si spostano, o se il loro smartphone è spento per più di 15 minuti, al fine di formare un «recinto elettronico» attorno ai refrattari, con in aggiunta chiamate casuali della polizia e una segnalazione al vicinato tramite SMS della presenza di una persona contagiosa.
Per quanto caricaturale sia questo esempio ben reale, potrebbe non essere un caso se un rapporto senatoriale uscito all'inizio di giugno in Francia per delineare alcune prospettive in vista di future epidemie (o di «catastrofi naturali o industriali, o attacchi terroristici») che richiedano reclusioni di massa, abbia appunto avanzato alcune proposte in tal senso. Nell’èra della connessione permanente, quando chiunque passeggia volontariamente con una spia elettronica in tasca, abituatosi a poco a poco al telelavoro, alla telemedicina e all’insegnamento a distanza, per il sogno totalitario cosa c’è di meglio di un democratico digitalizzato, a cui poter finalmente disattivare da remoto il pass per il trasporto, trasformando gli smartphone in braccialetti elettronici (coi selfie alle forze dell’ordine per dimostrare la propria presenza) o consegnare/ritirare dei lasciapassare differenziati di ogni tipo sotto forma di codici QR grazie a una Crisis Data Hub centralizzata?
Per chi, poniamo, ha iniziato a travestirsi in viaggio, vedendo pattuglie di droni della polizia durante il gran confinamento; per chi si è immobilizzato vedendo aggiungersi nello spazio pubblico a telecamere di videosorveglianza intrusive nuovi dispositivi di controllo del corpo come i rilevatori termici, i certificati di spostamento e altri certificati di vaccinazione; per chi è giunto più spesso di tanti altri alla conclusione che è molto meglio essere soli e selvaggi che accompagnati da reti algoritmiche… è certamente tempo di alzare gli occhi verso quei grossi cavi di rame tesi nel cielo o sporgersi verso tutte quelle canaline in cui le catene del ventunesimo secolo sfrecciano sotto i nostri piedi alla velocità della luce.
[Avis de tempêtes, n. 42, 15/6/21]
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