venerdì 24 febbraio 2017

Un conto ancora aperto. Quanto valgono duecentocinquant'anni di schiavitù? - Ta-Nehisi Coates

A partire dall'abolizione della schiavitù i problemi negli Usa non sono certo diminuiti.
Iragionamenti di Ta-Nehisi Coates non fanno una piega e non sono astratti, ma legati alla vita delle persone, con nome e cognome.
Ta-Nehisi Coates pone un problema, come risarcire personalmente e come comunità chi ha avuto dei trattamenti pessimi,  a essere gentili, per motivi, economici, ideologici, etnici, e non solo, da parte di un'altra comunità, che se ne è avvantaggiata.
L'oggetto del libro sono i neri negli Usa, ma Ta-Nehisi Coates cita, per allargare il discorso, tedeschi ed ebrei,e il risarcimento della Germania a Israele, e l'apartheid in Sudafrica.
Il punto è solo questo, se la continua discriminazione (e oppressione) di una parte della popolazione, pur nella legalità, deve portare a un risarcimento.
E questa strada non presa farà la differenza.
Non esiste un organismo, come le Nazioni Unite, per esempio, che sancisca che ogni discriminazione, a livello di stati, prima o poi dovrà essere risarcita, Ta-Nehisi Coates pone il problema.
"Sappi, Stato ora potente, che poi pagherai tutto, con gli interessi", ecco un articolo che non esiste nei trattati internazionali, e non ancora nel senso comune di moltissimi cittadini del mondo.
Il pensiero poi lascia gli Stati Uniti d'America e lo spettro del risarcimento si aggira per il mondo, dalla Palestina, ai territori Mapuche, per fare qualche esempio, e agli altri indigeni americani, dal Canada a capo Horn, ai Rohingya del Myanmar, agli aborigeni australiani e neozelandesi, una lista lunghissima.
Buona lettura, e grazie a Ta-Nehisi Coates, che sa scrivere e si fa capire benissimo.




…Coates non fa sconti e punta il dito sull’ipocrisia dei bianchi che non vogliono riconoscere il carattere razzista di molte leggi del passato.
C’è una rimozione della schiavitù, dell’apartheid, della discriminazione che continua a persistere. E non bastano certo delle leggi come le affirmative action, che secondo l’autore in realtà ribadiscono la differenza, invece di annullarla. Non è con le indennità, che peraltro sarebbero elevatissime, che si risolve il problema, dice Coates, ma con l’ammissione e il riconoscimento del fatto che gli USA nascono su e da un presupposto razzista. Men che meno il tentativo di accomunare le lotte per i diritti degli afro-americani con quelle di tutti i poveri della nazione: la povertà dei neri non è la povertà dei bianchi, afferma Coates, riprendendo le parole di Lindon Johnson. 
Una storia nera, in tutti i sensi, che non lascia spazio a facili risposte, ma che ha il grande pregio di togliere il velo dell’ipocrisia autoassolutoria su un problema che non è solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, anche dell’Europa, dove assistiamo ogni giorno a rigurgiti razzisti di cui troppo spesso sottovalutiamo la portata.

Dopo l’acclamato Tra me e il mondo, Ta-Nehisi Coates mette in discussione un altro grande conto che l’America ha in sospeso con la storia: il risarcimento ai neri americani per gli oltre duecento anni di schiavitù, la segregazione e la negazione dei diritti più elementari. Anche dopo l’abolizione formale della schiavitù, gli afroamericani sono stati ostacolati nell’esercizio dei diritti inalienabili di ogni cittadino: al voto, allo studio, al lavoro. Soprattutto, scrive Coates, del diritto alla casa, «il tesserino d’accesso al sacro ordine della classe media americana». Affrancare uno schiavo per poi farne un cittadino
a metà equivale a lasciargli le catene addosso, con il benestare di chi dovrebbe tutelarlo. Dalle spietate pratiche  discriminatorie del mercato immobiliare alle strane incongruenze del New Deal, Coates presenta il conto all’America.
E non è un conto da poco.

Un conto ancora aperto non deve difendere una teoria, una ricostruzione, un’opinione: il danno compiuto è conclamato, perché gli esseri umani ridotti in schiavitù sono stati trattati e organizzati come merci. Ricorda lo storico David W. Blight: “Nel 1860 gli schiavi come bene patrimoniale valevano più di tutte le produzioni manifatturiere, più dell’intera rete ferroviaria e dell’intera capacità produttiva di tutti gli Stati Uniti messi insieme. Gli schiavi erano di gran lunga il bene di proprietà più importante dell’intera economia americana”. Questo vuol dire un’immane sofferenza perché trattare uomini e donne come parti di ricambio vuol dire distruggere le comunità e “separare una famiglia di schiavi equivaleva di fatto a un assassinio. Ecco dove affondano le loro radici la ricchezza e la democrazia americane: nella lucrosa distruzione del bene più importante a cui ogni individuo possa aspirare, la famiglia. Questa distruzione non è stata un elemento incidentale nell’ascesa dell’America: l’ha facilitata. Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha potuto gettare le basi economiche per il suo grande esperimento democratico”. Riconoscere l’esigenza di un risarcimento sarebbe (il condizionale è d’obbligo) un decisivo cambio di prospettiva, anche se il saldo finale, per la civiltà tutta, resta negativo.


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