Alla vigilia
del ritorno a scuola di milioni di studenti è importante riaffermare, con forza
intellettuale e slancio emozionale, un concetto sempre più dimenticato,
travisato o addirittura negato e contrastato: fare
l’insegnante è un mestiere profondamente politico, è un agire educativo
dirompente, è un atto di quotidiana ribellione rispetto alle catene
dell’esistente.
Chi
dimentica la natura politica dell’insegnare è spesso figlio della grande
disillusione che caratterizza la fine del Novecento e i primi decenni del XXI
secolo. Un tempo, forse, il docente era uno dei principali protagonisti
dell’educazione critica e consapevole degli allievi. Ora occupa un ruolo
marginale se non addirittura del tutto inutile. Il
ruolo educativo è stato inghiottito dalla burocrazia e il docente si è
trasformato in un impiegato della formazione, in un controllore dei
biglietti del bus chiamato scuola, in un
vigilantes dell’ordine pubblico. L’insegnante è
stato spodestato da altri centri politici educativi quali la TV, la rete, lo
star system e i social media. Secondo chi si rassegna, l’insegnante
politico appartiene ad un passato ormai mitico ed è come un vello d’oro
perduto, senza che ci siano dei nuovi Argonauti disposti a salpare in mare
aperto per andare a cercarlo. Cercasi, pertanto, dei volonterosi Teseo per riprendere
il viaggio.
Chi travisa la politicità dell’insegnante è
probabilmente figlio di un crescente e inarrestabile analfabetismo di ritorno
che confonde il termine politico con partitico. Tale ignoranza conduce ad esaltare il falso idolo
dell’insegnante oggettivo e neutrale. Tale neutralità porta alla noia
formativa, all’apatia esistenziale e ad un pernicioso relativismo valoriale, in
cui tutto si equivale. Tutto si studia, tutto si comprende criticamente, ma i
partigiani e fascisti non si equivalgono, così come Mandela e Pinochet non
stanno dalla stessa parte della storia. Insegnare significa, infatti, fare una
scelta educativa netta, significa avere come bussola politica la Costituzione,
i diritti umani, il rispetto della natura, la libertà, la giustizia sociale, i
diritti del lavoro, la lotta al razzismo e la pace, intesa come ripudio netto
della guerra, da sempre strumento di aggressione e di dominio. L’insegnante
neutrale è di fatto un Ponzio Pilato educativo.
Chi nega la natura politica della professione
docente è invece figlio, legittimo o illegittimo, della fine delle ideologie e
del trionfo disarmante della tecnica. In questa prospettiva, l’insegnante è un sofista
2.0, un personal trainer della formazione, un
trasmettitore acritico dei contenuti e delle competenze richieste dal mercato,
dalle imprese e da un progresso tecnologico e scientifico che da mezzo per
l’emancipazione umana si è tramutato in una finalità assoluta dalle sembianze
metafisiche, da perseguire ciecamente in quanto tale. L’insegnante apolitico è
dunque il cortigiano di un presente che si fa dittatura, di un pensiero unico dominante che
cannibalizza ogni ricchezza del possibile, che annulla ogni strada alternativa.
Infine, vi è
chi apertamente contrasta la politicità dell’insegnante, considerandolo un
pericoloso sovversivo. In questa caso, siamo, quasi sempre, in presenza dei
figli del potere e di quella logica dello status quo, che serve a mantenere inalterata la
struttura sociale in cui si realizza il dominio dei pochi sui molti.
Coloro che contrastano la politicità dell’insegnante sono i costruttori di
muri, i difensori di una tradizione che discrimina, i cantori delle
disuguaglianze, gli esaltatori dell’uomo monodimensionale, mansueto esecutore
di ordini e comandi. Si tratta dei nemici più intimi della democrazia, di
coloro che spargono sale sulla terra per evitare la
fertilità della disobbedienza e delle diversità.
L’apoliticità
dell’insegnante segna, pertanto, la mutazione genetica, se non addirittura
l’eutanasia della stessa professione docente. Insegnare, infatti, è l’atto
politico più nobile e vitale che si possa compiere.
L’insegnante deve educare al pensiero critico, deve
trasmettere la potenza liberatoria del conoscere e del saper fare.
Insegnare è un’azione di ribellione contro l’opacità
e l’ingiustizia del presente.
Insegnare è un atto d’amore verso la possibilità di
cambiare la realtà e di trasformare noi stessi.
Insegnare è stimolare i desideri di libertà, di
scoperta, di viaggio e di giustizia.
Insegnare è saper distinguere le bellezze della vita, troppo spesse nascoste e
imprigionate nella mediocrità dei tempi.
Insegnare significa immaginare altri mondi e altri
modi di stare al mondo.
Insegnare è
il mestiere politicamente più rivoluzionario di tutti perché può portare gli
uomini e le donne ad aver fame e sete di felicità, conoscenza ed emancipazione.
Per questo motivo il mestiere dell’insegnante è un’arte pericolosa e faticosa
che dobbiamo continuare a praticare con tenacia, resistendo alle sirene che
voglio fare della scuola una industria dell’omologa e del consumo veloce e
compulsivo.
Ottimo. Grazie.
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