(da Fatto Quotidiano, 14 novembre 2024)
Una imbarazzata, vile, indecente indifferenza di fronte ad un genocidio che
si svolge davanti i nostri occhi sembra paralizzare la comunità internazionale da
un anno a questa parte.
Con il pretesto di vendicare una strage di innocenti a sua volta subita,
uno stato assassino sta sterminando senza ritegno la popolazione inerme di un
altro stato con lo scopo dichiarato di volerla annientare fisicamente e farla
fuggire dalla propria terra.
Non è la prima volta che ciò accade, ma è la prima volta che lo spettacolo
di morte può essere gustato gratuitamente, stando seduti sul divano di casa
invece che sulle gradinate del Colosseo. I media dominanti alternano gli
aggiornamenti sulle partite di calcio a quelli sugli eccidi di Gaza senza
mostrare alcuna empatia per le vittime. I due genocidi più vicini nel tempo,
quello del Rwanda del 1994 e quello della Bosnia del 1995, non hanno goduto del
privilegio di una copertura mediatica quotidiana.
Ma è proprio questa insolente evidenza che mette in risalto l’insensibilità
dei governi e delle istituzioni globali di fronte ad una catastrofe che poteva
essere evitata fin dal suo inizio se non ci fossero stati di mezzo Israele e
gli Stati Uniti. Non ci sono al riguardo valide giustificazioni. Il “crimine
dei crimini” è ben codificato fin dal 1948 da una apposita Convenzione contro
il genocidio che obbliga i firmatari ad intervenire anche in via preventiva, ed
è anche ben studiato a livello accademico. Anche l’indifferenza dei più verso i
primi atti di un genocidio è stata individuata come una condizione fondamentale
per il completamento dello stesso.
Gli studi più recenti hanno abbandonato vecchie chiavi di lettura. I genocidi
non sono più visti come il prodotto del lato bestiale e sadico della natura
umana, pronto a scatenarsi contro la diversità razziale, politica, etnica o
religiosa. Le “soluzioni finali” sono di regola progetti razionali, concepiti
da consorterie di potere intente a preservare il loro dominio che ricorrono
allo sterminio dei civili come un mezzo per restare in sella oppure come ultima
ratio dopo aver esaurito le alternative.
Le pulizie etniche contro popolazioni disarmate sono lucidi programmi di
sopraffazione messi in piedi da piccoli gruppi di politici o di militari capaci
di attivare macchine di coercizione e propaganda micidiali. La cui efficacia
prescinde in larga misura dal consenso o dalla partecipazione attiva di larghe
masse.
Secondo questi studi, non c’è nulla di incomprensibile e di irrefrenabile
nella dinamica delle “soluzioni finali”. Le discese nel regno dell’oscurità
continuano ad accadere perché non sono difficili da organizzare. Sono opera di
minoranze risolute e di governi tirannici o fintamente democratici che
confidano nell’indifferenza, nello scoramento e nella passività della grande
maggioranza della gente.
I nazisti, i khmer rossi, i militari indonesiani dei massacri anticomunisti
del 1967, gli ufficiali bosniaci, i capi Hutu, sapevano di poter contare sul
fatto che i loro connazionali non avrebbero alzato un dito di fronte ai loro
crimini. Si sarebbero voltati dall’ altra parte per fingere di non vedere, e
per non dare ascolto alla propria coscienza.
Ed è precisamente su questo che contano oggi Netanyahu ed i suoi ministri.
La società israeliana, un tempo reattiva in tema di stragi di palestinesi, è
stata avvelenata dai sentimenti di vendetta e dall’odio antipalestinese diffuso
dal governo. Il senso di impunità dei perpetratori viene inoltre amplificato
dalla protezione americana e dalle deboli condanne internazionali. Solo una
decina di stati hanno censurato Israele e preso misure punitive nei suoi
confronti.
Ma non tutto è perduto. Anzi. Il modo di concepire il genocidio che abbiamo
citato ha conseguenze pratiche di rilievo. La più importante è che i
macrocrimini sono prevedibili e contrastabili. Per evitare i bagni di sangue
non occorre rimuovere le montagne. Non è necessario risalire alle sorgenti
della cattiveria umana. Ci sono precisi segni premonitori che possono essere
decifrati – sono stati individuati i 5-10 passi che precedono l’olocausto.
Tecniche, dinamiche e protagonisti dei genocidi sono simili dovunque. Ed esiste
una vasta gamma di possibilità di intervento che non richiedono, nelle prime
fasi, grandi risorse.
Il più grave genocidio - quello del Rwanda – poteva essere spento nelle sue
prime settimane (durò in tutto cento giorni), e quello di Srebrenica non
sarebbe neppure iniziato se le Nazioni Unite, presenti sul posto con
contingenti di caschi blu sufficienti alla bisogna, non avessero rinunciato ad
usarli nei modi e nei tempi necessari.
Al pari delle guerre e delle malattie infettive, le atrocità possono essere
prevenute senza sforzi sovrumani. Colpendo con precisione e durezza quel nucleo
iniziale di politici falliti o in via di fallimento (vedi Netanyahu),
avventurieri a profittatori senza scrupoli (vedi industrie militari),
professionisti della violenza (vedi mafie) e della provocazione (media
intossicanti) decisi a costruirsi posizioni di potere o ad arricchirsi
sfruttando vecchi risentimenti o inventando pericoli mortali.
Se nelle prime settimane del macello di Gaza, il Segretario generale
dell’ONU avesse attivato l’unità costituita proprio per lanciare gli allarmi
preventivi sulle pulizie etniche ed i genocidi, la comunità internazionale non
avrebbe dovuto attendere il gennaio dell’anno successivo per ricevere il monito
della Corte di giustizia internazionale sull’esistenza di un tentativo di
genocidio che era, in realtà, già in corso da mesi.
Questo ufficio esiste da quasi 20 anni, ed è stato creato dal mio diretto
superiore, Kofi Annan. Non è molto, ma è tutto quello che lui è stato capace di
fare per rispondere alle critiche sulla sua personale responsabilità, come capo
del peacekeeping ONU, per non avere impedito sia il Rwanda che Srebrenica.
Cosa sarebbe accaduto se Guterres avesse chiesto subito - nelle prime
settimane dei bombardamenti su Gaza - agli organi dell’ONU di intervenire
usando lo strumento più pesante a loro disposizione, una missione di caschi blu
in difesa dei civili palestinesi massacrati?
E cosa sarebbe accaduto se, di fronte al prevedibile veto USA in Consiglio
di Sicurezza, Guterres avesse invitato gli stati membri o le associazioni
regionali - in base al capitolo VII della carta delle Nazioni Unite, quello che
disciplina l’uso della forza - a costituire comunque una coalizione di paesi in
grado di formare un contingente di intervento a protezione dei civili di Gaza e
del personale e delle strutture dell’UNRWA bombardate quotidianamente?
A fare cioè la stessa cosa che una associazione regionale come la NATO ha
fatto nel 1999 in nome del capitolo VII intervenendo contro la Serbia per
ostacolare un genocidio che per giunta era inesistente!
Probabilmente non sarebbe accaduto nulla di sconvolgente, salvo una
richiesta americana di dimissioni immediate del Segretario generale. La furia
necrofila di Israele sarebbe continuata implacabile.
Certo. Ma sarebbe proseguita in condizioni sicuramente più difficili,
perché la scossa ONU si sarebbe trasmessa alla comunità internazionale. Ne
avrebbe lacerato l’apparente passività di fronte alla catastrofe di Gaza ed
alla degenerazione di Israele.
Questa passività è in fondo una maschera che cela la frustrazione e
l’impotenza del mondo accumulate da decenni di sconfitte sul fronte del
mantenimento della pace. E ancora più in profondo, in realtà, continuano a
scorrere una immutata volontà di giustizia ed una sotterranea empatia verso le
vittime delle atrocità che potrebbero affiorare in superficie.
Ma è il mondo stesso che deve prendere atto, finalmente, di essere
diventato multipolare, e quindi più libero di dare sfogo alle forze della pace
e dei diritti. Nell’ Assemblea generale delle Nazioni Unite si è ormai formata
una ampia maggioranza coerente con questo nuovo ordine mondiale. Dobbiamo
tracciare il cammino perchè l’indifferenza e lo scoramento di oggi si
trasformino in impegno operativo in soccorso delle vittime di Gaza.
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