venerdì 22 novembre 2024

Come ribellarci all’economia di guerra - Pasquale Pugliese

È in corso un arricchimento senza precedenti per le industrie belliche internazionali. Anche in Italia la spesa per la Difesa raggiunge vette raccapriccianti. La ribellione al dominio dell’economia di guerra è un sentiero impervio, quello di un alfabeto diverso nel quale mezzi e fini non sono separati.

L’elezione di Donald Trump non modificherà la curvatura bellica imposta dai governi al nostro tempo. La crisi sistemica globale, innescata dalla catastrofe climatica (Trump è anche negazionista), che si è manifestata in tutta la sua violenza a Valencia, svilupperà sempre maggiori conflitti, a partire da quelli per le risorse energetiche e idriche, che – in assenza di alternative nonviolente e con la totale delegittimazione delle Nazioni Unite – sfoceranno in guerre aperte. Contemporaneamente la lotta per il dominio globale tra la Nato e le altre potenze militari, riunite nella cornice dei Brics, sta avvenendo manu militari attraverso conflitti armati per procura che si saldano tra i diversi scenari e che, senza la messa in campo di saperi negoziali, sfocerà prima o poi in una nuova guerra mondiale.

L’impatto che stiamo già subendo di questo scenario è la trasformazione dell’economia civile in economia di guerra, con un trasferimento di enormi risorse pubbliche dagli investimenti civili alle spese militari, un impoverimento dei popoli – che favorisce la vittoria delle destre estreme in tutto il mondo – e un arricchimento mai visto per le industrie belliche internazionali. È il caso dell’economia italianacome documenta il Milex l’Osservatorio sulle spese militari italiane, in riferimento al passaggio in Parlamento della Legge di Bilancio 2025, per la quale il budget per la “Difesa” sfiorerà i 32 miliardi di euro. “Al fine di comprendere la portata di questa continua crescita, non certo episodica – scrivono i ricercatori del Milex – è opportuno fare alcuni confronti in prospettiva storica: nel 2016 il budget proprio della Difesa era pari a 19.423 milioni di euro, mentre nel 2021 si attestava su 24.541 milioni di euro. L’aumento decennale in termini assoluti è stato dunque pari a quasi 11,9 miliardi (+61% nel decennio), mentre quello quinquennale è stato pari a 6,7 miliardi (+27,5% nel lustro)”.

A che cosa serva questa esplosione delle spese militari italiane, se non fosse ancora sufficientemente chiaro, lo ha esplicitato anche il Capo di Stato maggiore dell’Esercito Carmine Masiello in un recente discorso ai militari: “L’esercito è fatto per prepararsi alla guerra. Punto. Quindi questo deve essere un messaggio molto chiaro che dovete avere tutti in testa: fino a qualche anno fa, era una parola che non potevamo utilizzare. Oggi la realtà ci ha chiamato a confrontarci con la guerra, questo non vuol dire che l’esercito vuole la guerra ma vuol dire che noi ci dobbiamo preparare e più saremo preparati per la guerra e maggiori probabilità ci saranno che ci sia la pace”. Un discorso coerente con la deriva dei decisori internazionali, fondata sul pensiero magico del se vis pacem para bellum – esplicitato, per esempio, anche da Charles Michel presidente uscente del Consiglio europeo – ma in netta contraddizione con la Costituzione italiana, secondo la quale per avere la pace bisogna non preparare ma “ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il punto, dunque, non è che la parola guerra non si poteva utilizzare, ma che la guerra non si può fare: è necessario costruirne le alternative per affrontare e risolvere davvero i conflitti.

Mentre anche Mario Draghi, consulente per la Commissione europea, spinge i governi europei e quello italiano in particolare ad aumentare ancora, almeno fino al 2% del Pil, le spese militari tanto “poi i soldi si trovano”, i cittadini sono molto più accorti, come emerge dal sondaggio che Greenpeace Italia ha commissionato a SWG, secondo il quale il 55% degli intervistati è contrario a portare il budget della Difesa al 2% del Pil e il 65% ritiene necessaria l’introduzione di una tassa sugli utili straordinari dell’industria bellica. Anche perché, mentre si preparano nuove guerre e si alimentano con le armi quelle in corso – dal genocidio israeliano dei palestinesi alla guerra russo-ucraina – ci sono gigantesche emergenze sociali da affrontare nel nostro paese, per le quali i soldi non si trovano mai: a cominciare dalla guerra, anch’essa reale e non metaforica, in corso a Napoli tra i più giovani.

Di fronte a questa economia di guerra, che veicola anche una pedagogia bellicista secondo la quale le armi hanno priorità su tutto e con esse si regolano i conti, fa bene il segretario della Cgil Maurizio Landini ad evocare il tempo di una “rivolta sociale”, annunciando il prossimo sciopero generale. Ma perché la rivolta sia efficace deve attingere alla forza della nonviolenza, nei mezzi e nei fini, come Le tecniche della nonviolenza di Aldo Capitini che opportunamente l’editore Manni ha rimandato in libreria in questi giorni. Scriveva lungimirante Capitini:

“Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile ‘se vuoi la pace, prepara la guerra’, ma attraverso un’altra legge: ‘se vuoi la pace, prepara la pace’…”.

Ovvero il contrario di ciò che stiamo facendo.


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