Analisi del Ddl 1660: così con la scusa della sicurezza si colpiscono (ancora) il dissenso e le forme di vita non compatibili
(da Jacobin
Italia)
Il 18 settembre, la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge n. 1660, ormai conosciuto come «Decreto Sicurezza». Il testo, proposto congiuntamente dai Ministri
dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, deve adesso passare al Senato per
l’approvazione in via definitiva.
Il disegno di legge è, nel suo contenuto, un insieme
eterogeneo di interventi normativi che incidono sul codice penale, sul
cosiddetto codice Antimafia e su numerose leggi speciali. Ma non è solo questo:
il testo può essere inteso come un insieme – da questo punto di vista, molto
omogeneo – di messaggi nei confronti di una serie di destinatari. Analizzeremo
uno per volta, dunque, gli interlocutori cui si fa riferimento e le norme che
li riguardano: i manifestanti, le forze dell’ordine, le persone private della
libertà personale, le persone migranti e, infine, gli autori (ma soprattutto le
autrici) di reati minori contro il patrimonio.
La prima considerazione tecnica, che vale per tutti
gli interventi in questione, è che si è davanti a un complessivo progetto di
quello che dai penalisti è chiamato «diritto penale d’autore»: se il diritto
penale moderno dovrebbe essere caratterizzato dalla sua natura di diritto
penale «del fatto», dunque sanzionare più o meno gravemente delle condotte in
ragione della loro concreta offensività, si intende per diritto
penale «dell’autore» un sistema in cui ha rilevanza preponderante chi commette
un fatto, e non quanto questo fatto risulti dannoso o pericoloso. Ancor più
eloquentemente, si parla dunque di diritto penale del nemico.
(Ancora) la criminalizzazione del dissenso
Un primo insieme di norme è quello che si rivolge agli
attivisti, soprattutto agli attivisti per il clima. In realtà, questi ultimi
erano già stati oggetto di un’iniziativa legislativa ad hoc il
cosiddetto «decreto eco-vandali» del gennaio 2024, che aveva inasprito le sanzioni per i reati di
imbrattamento e danneggiamento e previsto nuove sanzioni amministrative
pecuniarie.con il nuovo disegno di legge si prosegue lungo la via già tracciata
dalle precedenti innovazioni normative, sancendo un aggravamento di pena nel
caso in cui il reato di danneggiamento sia commesso in occasione di
manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico con violenza alla persona
o minaccia. Il reato di imbrattamento, in pratica, è ormai tutto dedicato agli
attivisti di Ultima Generazione: un’aggravante, inserita dal citato decreto
«eco-vandali», è volta a punire più severamente le pratiche di protesta nei
musei («se il fatto è commesso su teche, custodie e altre strutture adibite
all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali»), quella di
nuovo conio fa invece riferimento alle condotte di deturpamento o imbrattamento
commesse «su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni
pubbliche» con la finalità di «ledere l’onore, il prestigio o il decoro»
dell’istituzione alla quale appartengono. Leggasi: gli imbrattamenti
dimostrativi dei palazzi del Governo e del Parlamento portati avanti negli
ultimi anni. In quest’ultimo caso, si applicherà la pena della reclusione da
sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.
Un altro esempio di diritto penale d’autore è
rappresentato dall’introduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, che
punisce a titolo di illecito penale (e non più con la sola sanzione amministrativa)
chiunque «impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata,
ostruendo la stessa con il proprio corpo». La pena è significativamente
aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite, a dimostrazione, se ce
ne fosse ancora bisogno, del fatto che il fenomeno che si intende sanzionare è
quello delle mobilitazioni collettive di protesta: tanto che la norma è stata
battezzata dai movimenti come «norma Anti-Gandhi».
Ultimo messaggio ai manifestanti: in virtù di un
emendamento approvato nel corso della discussione parlamentare, viene prevista
un’ulteriore circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia a un
pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e altri simili illeciti
se il fatto è commesso «al fine di impedire la realizzazione di un’opera
pubblica o di un’infrastruttura strategica». Evidente, in questo caso, il
riferimento ai movimenti No Tav e alle proteste che si prefigurano contro la
costruzione del Ponte sullo Stretto.
Se, da un lato, il Governo rimarca chiaramente il
proprio posizionamento verso gli attivisti e le attiviste per il clima e contro
le grandi opere (si segnala anche, a completamento del quadro, un emendamento
proposto dalla Lega che mirava espressamente a criminalizzare gli scioperi,
emendamento non approvato forse perché troppo scopertamente
anticostituzionale), dall’altro, altrettanto chiaramente, si intende
rafforzare la tutela delle forze dell’ordine (una tutela articolata perlopiù
nei termini di nuove e più gravi sanzioni penali, più che, ad esempio, di
miglioramento delle condizioni di lavoro). Con la modifica dell’art. 583-quater del
codice penale, si introduce la nuova fattispecie di reato di «lesioni personali
a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto
o a causa dell’adempimento delle funzioni»; in secondo luogo, le modifiche agli
articoli 336, 337 e 339 del codice penale introducono una circostanza
aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico
ufficiale se il fatto è commesso «nei confronti di un ufficiale o un agente di
polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza», peraltro prevedendo il divieto di
prevalenza delle attenuanti sulla predetta aggravante.
Come già segnalato da più parti, ad esempio nel parere reso alla Camera da Asgi e Antigone, queste
norme creano un sottoinsieme inedito all’interno della categoria dei pubblici
ufficiali, composto solo da agenti di polizia. In questo modo, un atto di
violenza contro un agente di polizia è punito più severamente rispetto a quello
commesso contro qualsiasi altro pubblico ufficiale, come, ad esempio, un
magistrato.
Sorvegliare e punire
Per quanto sicuramente gravi nelle intenzioni
scopertamente liberticide, le norme previste dal decreto sicurezza sul dissenso
e sulla libertà di manifestazione hanno un effetto più propagandistico che
repressivo se paragonate alle norme previste nei confronti di altri soggetti. È
forse il caso di decolonizzare lo sguardo sul decreto sicurezza: non sono gli
attivisti l’epicentro di questo provvedimento normativo. La criminalizzazione
del dissenso è solo un tassello della teoria dello Stato e della società che si
vuole rendere concreta con un disegno di legge che, ancora una volta, alla sua
approvazione esplicherà gli effetti più distruttivi nei confronti dei soggetti
più deboli ed emarginati.
Veniamo, dunque, al messaggio che il Governo intende
dare alle persone recluse nelle carceri del paese. Con l’obiettivo del
«rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari», il disegno di
legge prevede anzitutto una nuova aggravante del reato di «istigazione a
disobbedire alle leggi» di cui all’art. 415 del codice penale., se questo è
commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o
comunicazioni diretti a persone detenute; si prevede, poi, l’inserimento nel
codice penale di un nuovo delitto di «rivolta all’interno di un istituto
penitenziario». (art. 415-bis).
Vale la pena analizzare nel dettaglio il testo
proposto. Ai sensi del nuovo 415 bis,«chiunque, all’interno di un
istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o
minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre
o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni» (la
pena va invece da 2 a 8 anni per i promotori e organizzatori della rivolta). Il
legislatore precisa, poi, cosa si intende per resistenza all’esecuzione degli
ordini: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza
passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in
cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio,
impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla
gestione dell’ordine e della sicurezza». Con una definizione involuta, che ben
poco definisce, si sancisce l’equiparazione tra gli atti di violenza e di
minaccia e la mera disobbedienza, se questa crea in qualche modo scompiglio
rispetto al mantenimento dell’ordine.
Si tratta di disposizioni che hanno un significato
chiaro, in un contesto come quello odierno: da un lato, si intende
criminalizzare ogni tentativo di mobilitazione interna rispetto alle condizioni
critiche nelle quali versano le carceri, con un tasso di sovraffollamento
strutturale (del 131% rispetto alla capienza consentita) e un altissimo numero
di eventi suicidari, 69 nel solo anno 2024, cui si aggiungono 17 morti «per
cause da accertare», come evidenziato negli ultimi rapporti del Garante Nazionale (dati aggiornati al 23
settembre 2024). Dall’altro, si riducono gli eventi rivoltosi a mere
questioni di «ordine e sicurezza», rispetto alle quali ci si colloca sempre e
comunque dalla parte delle Forze dell’Ordine coinvolte. Non c’è spazio, in
questo schema, per la voce delle persone detenute: sorvegliate, silenziate, se
necessario punite.
L’iniziativa governativa si colloca, tralaltro, in un
momento in cui sono in corso numerosi procedimenti penali, alcuni in fase di
indagine e altri già in fase più avanzata, per torture e pestaggi nelle carceri italiane: Cuneo, Torino, Biella, Ivrea, persino l’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, nonché per la nota vicenda
di Santa Maria Capua Vetere, dove rispetto ai fatti avvenuti
nel 2020 (documentati dai video di sorveglianza pubblicati dal giornale
online Domani) sono oggi a processo 103 persone.
Questo posizionamento non stupisce, considerato che un
gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, tra cui Delmastro Delle Vedove, oggi
sottosegretario alla Giustizia, il 15 giugno 2020 per gli stessi fatti
presentava un’interpellanza parlamentare proponendo «il conferimento
dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso
l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere».
Non è tutto. La norma sulla rivolta carceraria
prosegue prevedendo sanzioni fino a dodici anni «se dal fatto deriva, quale
conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima» e fino a 18
anni se, ancora quale conseguenza non voluta, dalle rivolte deriva la morte di
taluno. La norma apre scenari punitivi di grande incertezza: morte o lesioni
sembrano essere imputati a promotori e partecipanti della rivolta come eventi
collegati alle condotte dei rivoltosi solo materialmente – si parla,
tecnicamente, di «reati aggravati dall’evento», quindi di ipotesi di
responsabilità in assenza di dolo o colpa, sanzionate in questo caso con pene
gravissime. Potenzialmente, si potrebbero dunque imputare ai detenuti in
rivolta – ricomprendendo, lo si ricorda, in tale nozione anche chi compie atti
di resistenza passiva, come uno sciopero della fame – eventi rispetto ai quali
non hanno avuto controllo alcuno: non si può non pensare alle 14 morti avvenute dopo le rivolte nelle carceri di Rieti,
Bologna e Modena nel marzo del 2020 in circostanze che risultano, ad oggi,
ancora misteriose.
Per rimarcare il messaggio di vicinanza alle Forze
dell’Ordine si va ancora oltre proponendo il riconoscimento di un beneficio
economico a fronte delle spese legali sostenute (10.000 euro per ciascuna fase
del procedimento) da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria, Forze armate e Vigili del Fuoco, indagati o imputati nei
procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Questo, lo si
ripete, nello stesso periodo storico in cui pendono innanzi ai Tribunali di
mezza Italia procedimenti per pestaggi cruenti, umiliazioni e abusi di potere nei
confronti dei detenuti.
Infine, ancora nel nome della «tutela del personale
delle forze di polizia», si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a
portare – senza licenza e fuori servizio – alcune tipologie di armi (arma lunga
da fuoco, rivoltella e pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lama di
lunghezza inferiore a 65 cm).
Migranti e altri nemici
Tra gli obiettivi del decreto sicurezza non possono
mancare, coerentemente con gli orientamenti sinora espressi dal Governo Meloni,
le persone migranti in Italia.
Il nuovo reato di «rivolta carceraria» è infatti
introdotto, con una disposizione del tutto omologa, anche per chi promuove,
organizza, dirige una rivolta non solo nei Cpr, centri di permanenza per i
rimpatri, ma persino presso i centri che fanno parte del sistema di
accoglienza.
La differenza tra queste strutture, forse, non è nota
ai più, ma può essere riassunta in questo modo. I centri di permanenza per i
rimpatri sono «strutture di detenzione amministrativa», ossia centri nei quali
vengono trattenuti, per un tempo massimo di tre mesi prorogabile fino a
diciotto mesi, stranieri che non sono in possesso di un regolare titolo di
soggiorno nella prospettiva dell’espulsione dal paese. Dall’altro lato, i
centri governativi e i Cas (centri di accoglienza straordinaria) sono le
strutture entro le quali viene data accoglienza ai richiedenti protezione
internazionale privi di mezzi di sostentamento; infine, i centri del cosiddetto
«Sai», sistema accoglienza e integrazione, sono strutture all’interno delle
quali sono accolte alcune categorie di richiedenti asilo in situazioni di
vulnerabilità (ad esempio, i richiedenti che fanno ingresso attraverso i
corridoi umanitari) e i soggetti già titolari dello status di rifugiato o altra
forma di protezione internazionale.
Questa puntualizzazione è indispensabile per far luce
sulla portata ideologica della nuova norma penale. Si equiparano alle carceri i
Cpr, strutture in effetti para-detentive, benché permettano la detenzione senza
che sia accertato alcun reato, dove più volte sono state denunciate, anche dal
Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
le condizioni critiche nelle quali le persone migranti sono
trattenute. Ma non solo. Si equipara espressamente a una forma di detenzione
anche il sistema dell’accoglienza, persino nei confronti delle persone cui è
già stato riconosciuto lo status di rifugiato (ossia, per il
quale è stato accertato il timore fondato di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o
opinione politica): lo si riconosce come un sistema in cui, sostanzialmente, si
intende creare un rapporto non di cura, di accoglienza o integrazione, ma di
sorveglianza. Dove al richiedente protezione internazionale, e persino al
soggetto rispetto al quale la protezione è già stata riconosciuta, è chiesta la
piena obbedienza rispetto agli ordini impartiti.
A completamento di questo quadro, il decreto prevede
una modifica del codice delle comunicazioni elettroniche sancendo che, per la
conclusione di un contratto di telefonia mobile, al cliente cittadino di un
paese fuori dall’Unione europea sia richiesto a fini di identificazione un
documento che attesti il regolare soggiorno in Italia, nello specifico, un
valido permesso di soggiorno. Non si vede altra ratio di
questa norma diversa dall’accanimento nei confronti delle persone straniere in
Italia. Il legislatore, infatti, non può non sapere che, anche avendone il
diritto in presenza di tutti i presupposti di legge, prima che le Questure
italiane rilascino un permesso di soggiorno o persino ne accertino il rinnovo
possono passare anni, a causa dei lunghissimi tempi burocratici: tanto che è
stato necessario esplicitare normativamente, ad alcuni fini, l’equiparazione
tra il permesso vero e proprio e la semplice «ricevuta» della richiesta del
medesimo, onde evitare, ad esempio, che nelle more del rinnovo la persona
straniera non possa validamente stipulare un contratto di lavoro.
C’è di più: anche per la sola richiesta di un permesso
la Questura competente, ad oggi, chiede un recapito telefonico e un indirizzo
email presso il quale fornire tutte le comunicazioni riguardo alla pratica. Non
è chiaro come si dovrebbe risolvere, nella prassi, questo vero e proprio
cortocircuito: serve un permesso di soggiorno per avere un telefono, un
telefono per avere un permesso di soggiorno. Di fatto, si privano le persone
migranti di un mezzo essenziale per comunicare con il paese d’origine ma anche
per prendere contatti con associazioni o con i propri legali. Peraltro,
privando anche di un mezzo diretto per ricevere le comunicazioni dalla stessa
Questura, si rischia di creare ulteriori fonti di irregolarità a causa di
appuntamenti mancati, istanze di integrazione documentale senza risposta, e
così via.
Parallelamente, si sanzionano eventuali iniziative di
solidarietà che si pongano in contrasto con la norma in questione: è prevista
la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o
dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a
vendere schede Sim non adempiano a tale obbligo di identificazione. Per i
singoli che vogliano interporsi, acquistando per altri, si ipotizza velatamente
la possibilità che si configuri il reato di sostituzione di persona (articolo
494 del codice penale).
Non dovrebbe passare inosservata, proprio
contestualmente alla grande mobilitazione per il raggiungimento delle 500.000
firme a sostegno del Referendum per dimezzare i tempi necessari per la
richiesta della cittadinanza italiana, la modifica delle norme sulla revoca
della cittadinanza. Il decreto, infatti, interviene sulle ipotesi di revoca
della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per gravi reati,
introdotte nel 2018 estendendo da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato
della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di
revoca. La revoca può essere disposta soltanto quando la cittadinanza italiana
sia acquisita non alla nascita – iure sanguinis – ma in un
momento successivo, per naturalizzazione o per matrimonio. Insomma: il
legislatore ammetteva già nel 2018 che non tutti i cittadini italiani sono
uguali. Se nasci «non italiano», non diventerai mai italiano quanto gli altri:
se condannato, la cittadinanza (come fosse un dono ricevuto) potrà essere
revocata persino 10 anni dopo la sentenza di condanna.
Occupazioni abitative: norme «Anti-Salis»
Rimangono da analizzare, a questo punto, le norme che
vengono ricomprese tra le «Disposizioni in materia di sicurezza urbana».
In nome della sicurezza urbana, si introduce tra i
delitti contro il patrimonio il reato di «occupazione arbitraria di immobile
destinato a domicilio altrui». Tale norma, giornalisticamente rinominata «norma
Anti-Salis», a voler dirne bene è inutile, a voler essere obiettivi è
giuridicamente incomprensibile, perché si sovrappone ad almeno altre tre norme
già esistenti. Gli articoli 633 e 634 del codice penale prevedono già i reati
di «invasione di terreni o edifici» e «turbativa violenta del possesso di cose
immobili», che puniscono le medesime condotte; con il cosiddetto. «decreto
rave» del 2022 si era introdotto anche l’art. 633 bis, che
punisce l’«invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o
l’incolumità pubblica». Adesso si propone di punire con la reclusione da due a
sette anni la condotta di chi si «appropria dell’immobile destinato al domicilio
altrui con violenza, minaccia o artifizi o raggiri» ovvero la condotta di chi,
con violenza o minaccia, ne impedisca il rientro. L’unica differenza rispetto
alle fattispecie già esistenti sta nel trattamento sanzionatorio, grave al di
là di ogni principio di proporzione (il massimo di 7 anni è più alto di quello
previsto, ad esempio, per l’omicidio colposo).
Torna il tema del diritto penale dell’autore: si crea
un’esigenza punitiva tramite l’individuazione di un nemico (in questo caso, lo
spunto sono le dichiarazioni dell’europarlamentare Salis, che, dopo gli attacchi della
stampa, aveva ribadito la sua vicinanza ai movimenti milanesi per il diritto
alla casa) e si appronta una facile soluzione. Non a caso, la nuova norma
incriminatrice si rivolge sia agli occupanti sia a chi «si intromette o coopera
nell’occupazione dell’immobile» (potenzialmente, gli attivisti), equiparati a
chi «riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione».
Che l’iniziativa sia destinata più a un nemico
immaginario che a un pericolo sociale in atto è dimostrato anche dalla nuova
«procedura di rilascio coattivo e di reintegrazione nel possesso ad opera della
polizia giudiziaria», che può procedere allo sgombero previa autorizzazione del
pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice nel caso in cui
l’immobile occupato «sia l’unica abitazione effettiva del denunciante». Si
prefigura, dunque, una situazione in cui un qualsiasi cittadino torna dalle
vacanze in casa propria – unica abitazione effettiva – e la trova occupata da
altri. Un fenomeno che non solo non è statisticamente rilevante, ma che di
certo non è l’attività di occupazione di immobili rivendicata da Salis e dai
movimenti per la casa in Italia, che si rivolgono invece alle case sfitte
dell’edilizia popolare. Chi ha mai fatto ingresso in un’aula di Tribunale sa
che, nei procedimenti per occupazione, la parte civile costituita è sempre
l’ente per l’edilizia pubblica del luogo, non privati cittadini espulsi da casa
propria.
Attenzione Pickpocket
Per comprendere chi sono i destinatari dell’ultimo
insieme di norme sulla «sicurezza urbana» che andremo a descrivere serve fare
un passo indietro e mettere a parte il lettore di un fenomeno social e
del correlato dibattito pubblico.
Negli scorsi anni è diventata virale la voce cantilenante di una donna italiana che
avverte, perlopiù nei pressi delle stazioni ferroviarie e delle metro, della
presenza di «borseggiatrici»: il mantra «attenzione borseggiatrici,
attenzione pickpocket» è diventato un meme, rilanciato
su Instagram e Tik Tok come sottofondo dei più svariati contenuti video. La
voce appartiene a Monica Poli, consigliera di municipio a Venezia con la Lega e
membro di un gruppo di residenti che si fa chiamare Cittadini Non Distratti,
impegnato a scovare e segnalare con video-gogna sui social i
presunti responsabili di borseggi ai danni dei turisti che visitano la città.
Non sfuggono i contorni vagamente razzisti di queste e altre pratiche da vigilantes privati:
nella maggior parte dei video non si mostrano i borseggi ma si additano le
borseggiatrici, quindi perlopiù si mostra la presenza di donne straniere
che prima facie sembrano borseggiatrici (Poli ha dichiarato
al New York Times di riconoscerle con il suo sesto senso).
Il tema delle borseggiatrici nelle stazioni, anche
sulla scia di queste iniziative, è dunque entrato nel dibattito pubblico come
l’ennesima problematica di sicurezza e decoro, suscitando un allarme sociale a
cui il Governo intende porre rimedio con numerose norme ad hoc.
Anzitutto, si introduce nell’articolo 61 del codice
penale, tra le cosiddette «aggravanti comuni», che possono dunque accedere a
qualsiasi altro delitto, la nuova circostanza aggravante dell’aver commesso il
fatto «nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture
ferroviarie o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri». E
ancora, si stabilisce che, in caso di condanna per reati contro la persona o il
patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti pubblici la
concessione della sospensione condizionale della pena debba essere subordinata
all’osservanza del divieto di accesso, imposto dal giudice, a luoghi o aree
specificamente individuate. Se il divieto di accesso non è osservato, il
giudice revoca la sospensione condizionale della pena. Al tempo stesso, viene
aggiunta la possibilità per il Questore di disporre la misura di prevenzione
del divieto di accesso (il cosiddetto Daspo urbano)
alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico anche a
soggetti condannati in via non definitiva o anche solo denunciati per reati
contro la persona o il patrimonio. In sintesi: si forniscono numerosi strumenti
per cacciare dalle stazioni e dai mezzi di trasporto pubblici i responsabili di
atti di microcriminalità urbana. Una violenza sproporzionata che colpirà, com’è
ovvio, chi è ai margini delle metropoli italiane.
Infine, sempre in nome della sicurezza urbana, è
ancora alle «borseggiatrici» che ci si rivolge con la modifica gli articoli 146
e 147 del codice penale, che fino a oggi rendono obbligatorio il rinvio
dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età
inferiore a un anno. Una norma di civiltà per la tutela delle donne e dei
neonati, i cui interessi però, all’approvazione del decreto, potranno
soccombere dinanzi all’immane pericolo sociale dei furti in metropolitana. Il
rinvio dell’esecuzione sarebbe meramente facoltativo: si precisa però, come
metro di giudizio, che l’esecuzione non è rinviabile se sussiste «il rischio di
eccezionale rilevanza di commissione di ulteriori delitti». Da notare come
l’eccezionale rilevanza si riferisca al «rischio», e non alla gravità dei
delitti.
Che venga approvato o meno in via definitiva, potremo
ricordare questo provvedimento come il testamento di questo esecutivo, la più
completa rappresentazione del suo posizionamento per i contemporanei e per i posteri.
La compiuta manifestazione di quale idea di sicurezza, e per chi, si intende
portare avanti.
https://www.osservatoriorepressione.info/ddl-sicurezza-manuale-della-repressione/
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