La campagna d’Albania del Governo italiano che introduce una sorta di gestione esternalizzata dei flussi migratori, vantata come un modello da proporre in Europa, ha subito una prima clamorosa disfatta per effetto dei decreti emessi dal Tribunale di Roma il 18 ottobre che hanno negato la convalida del trattenimento dei primi migranti trasportati in Albania, determinandone il ritorno in Italia (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/21/il-grande-bluff-del-trasferimento-dei-migranti-in-albania/). Di fronte ad uno smacco così grave, c’è stata una reazione scomposta con insulti ai giudici di ministri, politici e media e minacce di reazioni istituzionali per mettere a posto i giudici. È stato quindi emanato a tambur battente un decreto legge (23 ottobre 2024, n. 158) per superare gli ostacoli giuridici che avevano indotto il Tribunale di Roma a negare la convalida del trattenimento. Nelle premesse del provvedimento si riconosce che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, del 4 ottobre 2024 ha escluso che un paese terzo possa essere designato come Paese di origine sicuro quando alcune parti del suo territorio non lo sono. Il decreto stabilisce che l’elenco dei paesi sicuri deve essere disposto con legge, non più con atti amministrativi e, facendo finta di dare attuazione al principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia, esclude Camerun, Colombia e Nigeria dall’elenco dei “paesi sicuri”, confermando tutti gli altri, compresi Egitto e Bangladesh.
Il decreto,
presentato per la conversione alla Camera, è stato spostato al Senato e poi
ritirato dal Governo che intende ripresentarlo sotto forma di emendamento da introdurre nel decreto flussi in
discussione alla Camere il 21 novembre. In questo modo è stata sottratta al
Parlamento una discussione che sotto molti profili si presentava imbarazzante
per il Governo di Giorgia Meloni, tanto più che il Tribunale di
Bologna, con un’ordinanza in data 25 ottobre, ha dubitato della conformità del
decreto al diritto dell’Unione ed ha rivolto alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea due questioni pregiudiziali che attengono ai presupposti
per la determinazione dei paesi sicuri e al dovere del giudice nazionale di
disapplicare l’atto di designazione del paese sicuro contrastante con i criteri
europei. Anche contro questo provvedimento sono sorte roventi polemiche aizzate
da Giorgia Meloni, che ha definito quello del Tribunale di Bologna: un
volantino propagandistico. In realtà, il fuoco di sbarramento polemico
sollevato dalla politica contro la magistratura, ulteriormente esasperato a
seguito dei provvedimenti dei giudici di Catania che hanno disapplicato il
decreto paesi sicuri, fa da velo ed impedisce di cogliere gli aspetti umani,
giuridici ed istituzionali di questa vicenda.
Il problema
di fondo riguarda le modalità d’esercizio del diritto d’asilo. Il
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea attribuisce all’UE la competenza
ad emanare delle regole comuni per la gestione del diritto d’asilo in
conformità alle Convenzioni internazionali, compresa l’adozione di procedure
comuni per garantire l’accesso al diritto d’asilo. Per velocizzare le procedure
e rendere meno gravoso per gli Stati membri la gestione dei flussi dei
migranti-richiedenti asilo è stato definito il concetto di “paese d’origine
sicuro” ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. Per
i richiedenti che provengano da un paese d’origine qualificato come sicuro è
prevista una procedura accelerata con minori garanzie. In questi casi vige
una sorta di presunzione di infondatezza della domanda che può essere superata
solo se il ricorrente sia in grado di indicare delle circostanze specifiche
fondate su gravi motivi. Inoltre per coloro che provengono da un paese sicuro
non vale la regola generale che consente di permanere sul territorio nazionale
fino all’esaurimento dei rimedi giurisdizionali, quindi la decisione
amministrativa di rigetto della domanda consente il rimpatrio immediato. Nella
c.d. “procedura di frontiera” a cui sono destinati i migranti deportati in
Albania, la Commissione territoriale decide nel termine di sette giorni dalla
ricezione della domanda. Il progetto che sta alla base del modello
Albania è quello di procedere speditamente, nel giro di una settimana, al
rimpatrio dei richiedenti asilo nei paesi sicuri d’origine, con i quali
evidentemente è stato stipulato un accordo (semplificato) di riammissione. È
evidente che questa procedura comporta la compressione massima del diritto
d’asilo, sino quasi ad annullarlo. Per questo, dal punto di vista della tutela
dei diritti umani, diventa di importanza vitale il rispetto dei criteri
che consentono di qualificare un paese terzo come “sicuro”.
Secondo
l’Allegato 1 alla Direttiva 2013/32/UE: «Un paese è considerato paese di
origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della
legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica
generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente
persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né
tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo
a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o
internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro,
della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i
maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni
legislative e regolamentari del paese e il modo in cui sono applicate; b) il
rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione
delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si
può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione
europea; c) il rispetto del principio di non-refoulement conformemente
alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi
effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà».
L’inclusione
di un paese terzo nella lista dei paesi sicuri deve rispettare rigorosamente i
criteri stabiliti dalle regole europee. Per questo tale scelta non è un atto di
discrezionalità politica, incensurabile in sede giurisdizionale, bensì un atto
di discrezionalità tecnica, sempre passibile di valutazione in sede
giurisdizionale sotto il profilo dell’eccesso di potere e della violazione di
legge (in questo caso le regole europee). Il fatto che adesso la
definizione di paese terzo sicuro avviene con legge, anziché con atto
amministrativo, è una truffa delle etichette che non cambia la sostanza del
problema. Il giudice deve applicare la legge ma, nel contrasto fra
la legge italiana e le regole europee, sono queste che devono prevalere per giurisprudenza
pacifica della Corte Europea di Giustizia e della Corte costituzionale italiana.
Un esempio ci aiuta a comprendere meglio. Il paese dove è stato torturato e
ucciso Giulio Regeni (e con lui centinaia o migliaia di oppositori), dove i
torturatori hanno goduto e godono della massima protezione essendo la
magistratura asservita al potere politico, può essere considerato un paese
sicuro ai sensi delle regole europee? Il Governo italiano ha stabilito con
legge che l’Egitto è un paese democratico dove non si fanno torture e vigono le
regole dello Stato di diritto, ciononostante l’Egitto resta, pur sempre il
paese dove si torturano e uccidono le persone come Regeni. Con una legge si può
anche stabilire che l’asino vola, ma gli asini continueranno a non
volare. Meloni non se ne abbia a male se i magistrati disapplicando la
sua legge, riconoscono che l’asino non vola.
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