La carenza
di personale è il segno più grave del collasso della sanità pubblica. I mancati
investimenti tradiscono il diritto alla salute. La rubrica di Nicoletta Dentico
Tratto da Altreconomia 275 — Novembre
2024
Nonostante
derivi dall’ambiente manageriale, il termine “risorse umane” evidenzia il
valore intrinseco del personale, per le sue competenze e professionalità.
Questa accezione risulta di particolare rilevanza quando parliamo di servizio
sanitario, un settore in cui i livelli professionali elevati sono
necessariamente diffusi e le capacità relazionali fondamentali. L’attività
svolta da medici e infermieri, e da altre tipologie di personale della salute
pubblica, è la chiave di volta di un servizio dedicato alla persona, una voce
non comprimibile di spesa a fronte del mantenimento di qualità e accessibilità.
Quando la
Fondazione Gimbe racconta il collasso della sanità pubblica italiana -come ha
fatto di recente con la presentazione del settimo Rapporto sul Servizio
sanitario nazionale (Ssn)-, proiettando “una tenuta prossima al punto di non
ritorno” e contando “quasi 4,5 milioni di persone che nel 2023 hanno rinunciato
alle cure”, racconta gli effetti sistemici e non congiunturali di una strategia
di contenimento della spesa sanitaria che in Italia è stata largamente attuata
con la riduzione del personale (i famosi tetti di spesa introdotti nel 2004 dal
secondo Governo Berlusconi, e poi riconfermati).
A differenza
della produzione di oggetti, quella di servizi -specialmente in ambito
sanitario- ha come perno la scelta di puntare sugli investimenti nelle risorse
umane, sia sotto il profilo qualitativo -con la formazione continua, la
valorizzazione di competenze ed esperienze- sia quantitativo, con la programmazione
degli accessi all’università e la capacità di attrarre e trattenere le
professionalità all’interno del sistema sanitario pubblico. Non fare questa
scelta significa tradire il diritto alla salute, i principi costituzionali di
universalismo, equità e uguaglianza, fondamentali per uno Stato responsabile e
per un compiuto sviluppo della società.
Dopo la
pandemia da Covid-19, non fare questa scelta significa tradire la popolazione
italiana tout court. Soprattutto perché si registra nel Paese un accanito
incremento delle fasce socioeconomiche più deboli, un aumento dei bisogni
assistenziali dovuto alle modifiche della struttura familiare e
all’invecchiamento della popolazione (nel 2050 il 34,9% degli italiani avrà più
di 65 anni, a fronte della drastica riduzione di quelli in età lavorativa al
53,4%), per non parlare di quanti vivono nel Mezzogiorno e nelle aree interne,
sempre più disagiate.
È del
55% la percentuale di medici italiani con oltre 55 anni di età. La media dei
Paesi Ocse è del 33%, mentre è del 9,2 quella del numero di infermieri per
mille abitanti. L’Italia ne ha solo 6,2. Si stima che il personale
infermieristico dovrebbe essere incrementato di circa 350mila unità (Crea
2023).
Queste
tendenze pongono sfide sanitarie decisive: il consumo di farmaci, il ricorso a
visite mediche, i ricoveri ospedalieri e le patologie per le quali non esistono
ancora strumenti di prevenzione e di terapia risolutivi -la demenza, il
Parkinson, l’Alzheimer- sono tutti fenomeni correlati all’età. E che dire poi della
salute mentale che dopo la pandemia da Covid-19, lo abbiamo già raccontato,
colpisce con effetti diretti anche le giovani generazioni? Un altro fattore,
dopo il 2020, ci impone di incrementare le risorse umane in ambito sanitario:
le emergenze epidemiche, ricorrenti prima e dopo Covid-19 (basti pensare al
vaiolo delle scimmie, alla influenza aviaria, alla “pandemia silente” della
resistenza antimicrobica), legate a doppio filo al rapporto malato dell’umanità
con la natura che la circonda.
Ogni Paese deve
essere enormemente grato al proprio personale sanitario e assistenziale:
“Questo non è mai stato più evidente che al culmine della pandemia da Covid-19,
quando i professionisti sanitari si sono schierati come principale difesa […]
spesso a grande rischio personale, mettendo a repentaglio la propria vita”
(Organizzazione mondiale della sanità, 2022). Sosteniamo le loro battaglie,
invece di attaccarli in corsia.
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