Gaza è distrutta. Non verrà ricostruita, almeno per i
palestinesi. Chi ci ha vissuto trascorrerà la vita, come i sopravvissuti al
Genocidio Armeno, cercando disperatamente di preservare la memoria.
Mi trovo nel Centro
“The Krikor and Clara Zohrab” accanto alla cattedrale armena di San Vartan a
Manhattan, New York. Ho in mano un libro di memorie scritto e rilegato a mano,
che include poesie, disegni e ritagli di immagini di Zaven Seraidarian, un
sopravvissuto al Genocidio Armeno. La copertina del libro, uno dei sei volumi,
recita “Diario Insanguinato”. Gli altri volumi hanno titoli come: “Gocce di
Primavera”, “Lacrime” e “Il Cucchiaio di Legno”.
“Il mio nome rimarrà
immortale sulla terra”, scrive l’autore. “Parlerò di me stesso e racconterò di
più”.
Il Centro ospita
centinaia di documenti, lettere, mappe disegnate a mano di villaggi scomparsi,
fotografie ingiallite, poesie, disegni e storie, molte delle quali non
tradotte, sui costumi, le tradizioni e le famiglie illustri delle comunità
armene perdute.
Jesse Arlen, il
direttore del Centro, guarda sconsolato il volume che ho in mano.
“Probabilmente nessuno
l’ha letto, guardato o sapeva nemmeno che fosse qui”, dice.
Apre una scatola e mi
porge una mappa disegnata a mano da Hareton Saksoorian del villaggio di Havav a
Palu, dove gli armeni nel 1915 furono Massacrati o espulsi. Saksoorian ha
disegnato la mappa a memoria dopo essere fuggito. I disegni delle case armene
hanno segnati in minuscolo i nomi dei morti del tempo.
Questo sarà il destino
dei palestinesi a Gaza. Anche loro presto combatteranno per preservare la
memoria, per sfidare un mondo indifferente che è rimasto a guardare mentre
venivano Massacrati. Anche loro cercheranno ostinatamente di preservare
frammenti della loro esistenza. Anche loro scriveranno memorie, storie e
poesie, disegneranno mappe di villaggi, campi profughi e città che sono stati
cancellati, scriveranno storie dolorose di Massacro, Carneficina e Perdita.
Anche loro nomineranno e condanneranno i loro assassini, deploreranno lo
Sterminio di famiglie, tra cui migliaia di bambini, e lotteranno per preservare
un mondo scomparso. Ma il tempo è un compagno crudele.
La vita intellettuale
ed emotiva di coloro che vengono cacciati dalla loro Patria è definita dal
crogiolo dell’esilio, ciò che lo studioso palestinese Edward Said mi ha detto
essere “la frattura insanabile forzata tra un essere umano e un luogo nativo”.
Il libro di Said “Fuori Posto” è una testimonianza di questo mondo perduto.
Il poeta armeno Armen
Anush è cresciuto in un orfanotrofio ad Aleppo, in Siria. Cattura la condanna a
vita di coloro che sopravvivono al Genocidio nella sua poesia “Ossessione
Sacra”.
Scrive:
Paese di luce, mi
visiti ogni notte nel sonno.
Ogni notte, esaltata,
come una dea venerabile,
Porti nuove sensazioni
e speranze alla mia anima esiliata.
Ogni notte allevi i
tentennamenti del mio cammino.
Ogni notte riveli i
deserti sconfinati,
Gli occhi aperti dei
morti, il pianto dei bambini in lontananza,
Il crepitio e la
fiamma rossa degli innumerevoli corpi bruciati,
E la carovana senza
riparo, sempre incerta, sempre barcollante.
Ogni notte la stessa
scena infernale e mortale –
L’Eufrate stanco che
lava il sangue dai corpi feriti,
Le onde che si
rallegrano con i raggi del sole,
E alleviano il
fardello del suo peso inutile e stanco.
Gli stessi pozzi umidi
e neri di corpi carbonizzati,
Lo stesso fumo denso
che avvolge l’intero deserto siriano.
Le stesse voci dalle
profondità, gli stessi lamenti, dolci e senza sole,
E la stessa barbarie
brutale e spietata della folla turca.
La poesia si conclude,
tuttavia, con una supplica non che questi terrori notturni finiscano, ma che
“vengano da me ogni notte”, che “la fiamma dei tuoi eroi” accompagni sempre “i
miei giorni”.
“La lotta dell’uomo
contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”, ci ricorda Milan
Kundera.
È meglio sopportare un
trauma paralizzante che dimenticare. Una volta che dimentichiamo, una volta che
i ricordi vengono eliminati, l’obiettivo di tutti gli Assassini Genocidi, siamo
schiavi di bugie e miti, separati dalle nostre identità individuali, culturali
e nazionali. Non sappiamo più chi siamo.
“Ci vuole così poco, così infinitamente
poco, perché una persona attraversi il confine oltre il quale tutto perde
significato: amore, convinzioni, fede, storia”, scrive Kundera nel “Libro Della
Gioia e Dell’Oblio”. “La vita umana, e qui sta il suo segreto, si svolge nelle
immediate vicinanze di quel confine, persino a diretto contatto con esso; non è
lontano miglia, ma una frazione di pollice”.
Coloro che hanno
attraversato quel confine tornano da noi come profeti, profeti che nessuno
vuole sentire.
Gli antichi greci
credevano che quando le anime dei defunti venivano traghettate nell’Ade,
fossero costrette a bere l’acqua del fiume Lete per cancellare la memoria. La
distruzione della memoria è l’obliterazione finale dell’essere, l’ultimo atto
della mortalità. La memoria è la lotta per fermare la mano del traghettatore.
Il Genocidio a Gaza
rispecchia l’annientamento fisico dei Cristiani armeni da parte dell’Impero
Ottomano. I turchi ottomani, che temevano una rivolta nazionalista come quella
che aveva sconvolto i Balcani, cacciarono quasi tutti i due milioni di armeni
dalla Turchia. Uomini e donne venivano solitamente separati. Gli uomini
venivano spesso immediatamente giustiziati o mandati nei Campi di Sterminio,
come quelli di Ras-Ul-Ain (nel 1916 oltre 80.000 armeni furono Massacrati lì) e
Deir-el-Zor nel deserto siriano. Almeno un milione di persone furono costrette
a Marce della Morte, non diversamente dai palestinesi di Gaza che sono stati
sfollati con la forza da Israele, fino a una dozzina di volte, nei deserti di
quelli che oggi sono Siria e Iraq. Lì, centinaia di migliaia di persone furono
Massacrate o morirono di fame, stenti e malattia. I loro corpi erano sparsi
nella distesa desertica. Nel 1923, si stima che 1,2 milioni di armeni fossero
morti. Gli orfanotrofi in tutto il Medio Oriente furono inondati da circa
200.000 bambini armeni in miseria.
La Resistenza
destinata a fallire da parte di diversi villaggi armeni sulle montagne lungo la
costa dell’attuale Turchia e Siria che scelsero di non obbedire all’ordine di
deportazione fu colta nel romanzo di Franz Werfel: “I Quaranta Giorni di Musa
Dagh”. Marcel Reich-Ranicki, un critico letterario polacco-tedesco
sopravvissuto all’Olocausto, ha detto che era ampiamente letto nel Ghetto di
Varsavia, che aveva organizzato una rivolta destinata a fallire nell’aprile del
1943.
Nel 2000, quando aveva
98 anni, ho intervistato lo scrittore e cantante Hagop H. Asadourian, uno degli
ultimi sopravvissuti al Genocidio Armeno. Era nato nel villaggio di Chomaklou
nella Turchia orientale ed era stato deportato, insieme al resto del suo
villaggio, nel 1915. Sua madre e quattro delle sue sorelle morirono di tifo nel
deserto siriano. Ci sarebbero voluti 39 anni prima che si riunisse alla sua
unica sorella sopravvissuta, dalla quale era stato separato una notte vicino al
Mar Morto mentre fuggivano con un gruppo di orfani armeni dalla Siria a
Gerusalemme.
Mi ha detto che ha
scritto per dare voce alle 331 persone con cui ha arrancato in Siria nel
settembre del 1915, di cui solo 29 sono sopravvissute.
“Non si può mai
veramente scrivere quello che è successo, comunque”, ha detto Asadourian. “È
troppo macabro. Combatto ancora con me stesso per ricordarlo così com’è stato.
Scrivi perché devi. Tutto sgorga dentro di te. È come una buca che si riempie
costantemente d’acqua e non si svuota mai in nessun modo. Ecco perché continuo”.
Si è fermato per
riprendersi prima di continuare.
“Quando è arrivato il
momento di seppellire mia madre, ho dovuto chiedere ad altri due bambini di
aiutarmi a trasportare il suo corpo fino a un pozzo dove stavano gettando i
cadaveri”, ha detto. “Lo abbiamo fatto in modo che gli animali non li
mangiassero. La puzza era terribile. C’erano sciami di mosche nere che
ronzavano sopra l’apertura. L’abbiamo spinta dentro con i piedi per primi e gli
altri bambini, per sfuggire all’odore, sono corsi giù per la collina. Io sono
rimasto. Ho dovuto guardare. Ho visto la sua testa, mentre cadeva, sbattere
contro un lato del pozzo e poi sull’altro prima di scomparire. In quel momento,
non ho sentito nulla”.
Si fermò, visibilmente
scosso.
“Che tipo di figlio è
quello?” chiese con voce roca.
Alla fine trovò la
strada per un orfanotrofio a Gerusalemme.
“Queste cose ti
scavano dentro, non solo una volta, ma per tutta la vita, per tutta la vita,
ancora oggi”, ha detto a un intervistatore della Fondazione USC Shoah*. “Ho 98
anni, e ancora oggi non riesco a dimenticare nulla di tutto questo. Forse
dimentico quello che ho visto ieri, ma non sono riuscito a dimenticare queste
cose. Eppure, dobbiamo implorare le nazioni di riconoscere il Genocidio. Ho
perso undici dei miei famigliari e devo implorare le persone di credermi.
Questo è ciò che fa più male. È un mondo terribile, un’esperienza terribile”.
(*Fondata dal regista statunitense Steven Spielberg nel 1994, allo scopo di
registrare le testimonianze dei sopravvissuti e degli altri testimoni
dell’Olocausto come raccolta di interviste videoregistrate.)
I suoi 14 libri erano
una lotta contro la cancellazione, ma quando ho parlato con lui ha ammesso che
il lavoro dell’esercito turco era ormai quasi completato. Il suo ultimo libro è
stato “The Smoldering Generation” (La Generazione Bruciata), che ha detto
riguardava “l’inevitabile perdita della nostra cultura”.
Il presente è qualcosa
in cui i morti non hanno alcun ruolo.
“Nessuno prende il
posto di coloro che se ne sono andati”, ha detto, seduto davanti a una finestra
panoramica che dava sul suo giardino a Tenafly, nel New Jersey. “I tuoi figli
non ti capiscono in questo Paese. Non si può biasimarli”.
Il mondo degli armeni
nella Turchia orientale, menzionato per la prima volta dai greci e dai persiani
nel 6 a.C., è, come Gaza, la cui storia abbraccia 4.000 anni, praticamente
scomparso. I contributi della cultura armena sono stati dimenticati. Furono i
monaci armeni, ad esempio, a salvare dall’oblio opere di antichi scrittori
greci come Philo ed Eusebio.
Mi sono imbattuto
nelle rovine di villaggi armeni quando lavoravo come corrispondente nella
Turchia Sud-Orientale. Come i villaggi palestinesi distrutti da Israele, questi
villaggi non apparivano sulle mappe. Coloro che compiono un Genocidio cercano
l’annientamento totale. Non deve rimanere nulla. Soprattutto la memoria.
Questa sarà la nostra
prossima battaglia. Non dobbiamo dimenticare.
Chris Hedges è un
giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per
quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio
per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha
lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor
e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On
Contact.
Traduzione: Beniamino
Rocchetto – Invictapalestina.org
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