sabato 30 novembre 2024

Oblio Programmato - Chris Hedges

Gaza è distrutta. Non verrà ricostruita, almeno per i palestinesi. Chi ci ha vissuto trascorrerà la vita, come i sopravvissuti al Genocidio Armeno, cercando disperatamente di preservare la memoria.


Mi trovo nel Centro “The Krikor and Clara Zohrab” accanto alla cattedrale armena di San Vartan a Manhattan, New York. Ho in mano un libro di memorie scritto e rilegato a mano, che include poesie, disegni e ritagli di immagini  di Zaven Seraidarian, un sopravvissuto al Genocidio Armeno. La copertina del libro, uno dei sei volumi, recita “Diario Insanguinato”. Gli altri volumi hanno titoli come: “Gocce di Primavera”, “Lacrime” e “Il Cucchiaio di Legno”.

“Il mio nome rimarrà immortale sulla terra”, scrive l’autore. “Parlerò di me stesso e racconterò di più”.

Il Centro ospita centinaia di documenti, lettere, mappe disegnate a mano di villaggi scomparsi, fotografie ingiallite, poesie, disegni e storie, molte delle quali non tradotte, sui costumi, le tradizioni e le famiglie illustri delle comunità armene perdute.

Jesse Arlen, il direttore del Centro, guarda sconsolato il volume che ho in mano.

“Probabilmente nessuno l’ha letto, guardato o sapeva nemmeno che fosse qui”, dice.

Apre una scatola e mi porge una mappa disegnata a mano da Hareton Saksoorian del villaggio di Havav a Palu, dove gli armeni nel 1915 furono Massacrati o espulsi. Saksoorian ha disegnato la mappa a memoria dopo essere fuggito. I disegni delle case armene hanno segnati in minuscolo i nomi dei morti del tempo.

Questo sarà il destino dei palestinesi a Gaza. Anche loro presto combatteranno per preservare la memoria, per sfidare un mondo indifferente che è rimasto a guardare mentre venivano Massacrati. Anche loro cercheranno ostinatamente di preservare frammenti della loro esistenza. Anche loro scriveranno memorie, storie e poesie, disegneranno mappe di villaggi, campi profughi e città che sono stati cancellati, scriveranno storie dolorose di Massacro, Carneficina e Perdita. Anche loro nomineranno e condanneranno i loro assassini, deploreranno lo Sterminio di famiglie, tra cui migliaia di bambini, e lotteranno per preservare un mondo scomparso. Ma il tempo è un compagno crudele.

La vita intellettuale ed emotiva di coloro che vengono cacciati dalla loro Patria è definita dal crogiolo dell’esilio, ciò che lo studioso palestinese Edward Said mi ha detto essere “la frattura insanabile forzata tra un essere umano e un luogo nativo”. Il libro di Said “Fuori Posto” è una testimonianza di questo mondo perduto.

Il poeta armeno Armen Anush è cresciuto in un orfanotrofio ad Aleppo, in Siria. Cattura la condanna a vita di coloro che sopravvivono al Genocidio nella sua poesia “Ossessione Sacra”.

Scrive:

Paese di luce, mi visiti ogni notte nel sonno.

Ogni notte, esaltata, come una dea venerabile,

Porti nuove sensazioni e speranze alla mia anima esiliata.

Ogni notte allevi i tentennamenti del mio cammino.

Ogni notte riveli i deserti sconfinati,

Gli occhi aperti dei morti, il pianto dei bambini in lontananza,

Il crepitio e la fiamma rossa degli innumerevoli corpi bruciati,

E la carovana senza riparo, sempre incerta, sempre barcollante.

Ogni notte la stessa scena infernale e mortale –

L’Eufrate stanco che lava il sangue dai corpi feriti,

Le onde che si rallegrano con i raggi del sole,

E alleviano il fardello del suo peso inutile e stanco.

Gli stessi pozzi umidi e neri di corpi carbonizzati,

Lo stesso fumo denso che avvolge l’intero deserto siriano.

Le stesse voci dalle profondità, gli stessi lamenti, dolci e senza sole,

E la stessa barbarie brutale e spietata della folla turca.

La poesia si conclude, tuttavia, con una supplica non che questi terrori notturni finiscano, ma che “vengano da me ogni notte”, che “la fiamma dei tuoi eroi” accompagni sempre “i miei giorni”.

“La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”, ci ricorda Milan Kundera.

È meglio sopportare un trauma paralizzante che dimenticare. Una volta che dimentichiamo, una volta che i ricordi vengono eliminati, l’obiettivo di tutti gli Assassini Genocidi, siamo schiavi di bugie e miti, separati dalle nostre identità individuali, culturali e nazionali. Non sappiamo più chi siamo.

“Ci vuole così poco, così infinitamente poco, perché una persona attraversi il confine oltre il quale tutto perde significato: amore, convinzioni, fede, storia”, scrive Kundera nel “Libro Della Gioia e Dell’Oblio”. “La vita umana, e qui sta il suo segreto, si svolge nelle immediate vicinanze di quel confine, persino a diretto contatto con esso; non è lontano miglia, ma una frazione di pollice”.

Coloro che hanno attraversato quel confine tornano da noi come profeti, profeti che nessuno vuole sentire.

Gli antichi greci credevano che quando le anime dei defunti venivano traghettate nell’Ade, fossero costrette a bere l’acqua del fiume Lete per cancellare la memoria. La distruzione della memoria è l’obliterazione finale dell’essere, l’ultimo atto della mortalità. La memoria è la lotta per fermare la mano del traghettatore.

Il Genocidio a Gaza rispecchia l’annientamento fisico dei Cristiani armeni da parte dell’Impero Ottomano. I turchi ottomani, che temevano una rivolta nazionalista come quella che aveva sconvolto i Balcani, cacciarono quasi tutti i due milioni di armeni dalla Turchia. Uomini e donne venivano solitamente separati. Gli uomini venivano spesso immediatamente giustiziati o mandati nei Campi di Sterminio, come quelli di Ras-Ul-Ain (nel 1916 oltre 80.000 armeni furono Massacrati lì) e Deir-el-Zor nel deserto siriano. Almeno un milione di persone furono costrette a Marce della Morte, non diversamente dai palestinesi di Gaza che sono stati sfollati con la forza da Israele, fino a una dozzina di volte, nei deserti di quelli che oggi sono Siria e Iraq. Lì, centinaia di migliaia di persone furono Massacrate o morirono di fame, stenti e malattia. I loro corpi erano sparsi nella distesa desertica. Nel 1923, si stima che 1,2 milioni di armeni fossero morti. Gli orfanotrofi in tutto il Medio Oriente furono inondati da circa 200.000 bambini armeni in miseria.

La Resistenza destinata a fallire da parte di diversi villaggi armeni sulle montagne lungo la costa dell’attuale Turchia e Siria che scelsero di non obbedire all’ordine di deportazione fu colta nel romanzo di Franz Werfel: “I Quaranta Giorni di Musa Dagh”. Marcel Reich-Ranicki, un critico letterario polacco-tedesco sopravvissuto all’Olocausto, ha detto che era ampiamente letto nel Ghetto di Varsavia, che aveva organizzato una rivolta destinata a fallire nell’aprile del 1943.

Nel 2000, quando aveva 98 anni, ho intervistato lo scrittore e cantante Hagop H. Asadourian, uno degli ultimi sopravvissuti al Genocidio Armeno. Era nato nel villaggio di Chomaklou nella Turchia orientale ed era stato deportato, insieme al resto del suo villaggio, nel 1915. Sua madre e quattro delle sue sorelle morirono di tifo nel deserto siriano. Ci sarebbero voluti 39 anni prima che si riunisse alla sua unica sorella sopravvissuta, dalla quale era stato separato una notte vicino al Mar Morto mentre fuggivano con un gruppo di orfani armeni dalla Siria a Gerusalemme.

Mi ha detto che ha scritto per dare voce alle 331 persone con cui ha arrancato in Siria nel settembre del 1915, di cui solo 29 sono sopravvissute.

“Non si può mai veramente scrivere quello che è successo, comunque”, ha detto Asadourian. “È troppo macabro. Combatto ancora con me stesso per ricordarlo così com’è stato. Scrivi perché devi. Tutto sgorga dentro di te. È come una buca che si riempie costantemente d’acqua e non si svuota mai in nessun modo. Ecco perché continuo”.

Si è fermato per riprendersi prima di continuare.

“Quando è arrivato il momento di seppellire mia madre, ho dovuto chiedere ad altri due bambini di aiutarmi a trasportare il suo corpo fino a un pozzo dove stavano gettando i cadaveri”, ha detto. “Lo abbiamo fatto in modo che gli animali non li mangiassero. La puzza era terribile. C’erano sciami di mosche nere che ronzavano sopra l’apertura. L’abbiamo spinta dentro con i piedi per primi e gli altri bambini, per sfuggire all’odore, sono corsi giù per la collina. Io sono rimasto. Ho dovuto guardare. Ho visto la sua testa, mentre cadeva, sbattere contro un lato del pozzo e poi sull’altro prima di scomparire. In quel momento, non ho sentito nulla”.

Si fermò, visibilmente scosso.

“Che tipo di figlio è quello?” chiese con voce roca.

Alla fine trovò la strada per un orfanotrofio a Gerusalemme.

“Queste cose ti scavano dentro, non solo una volta, ma per tutta la vita, per tutta la vita, ancora oggi”, ha detto a un intervistatore della Fondazione USC Shoah*. “Ho 98 anni, e ancora oggi non riesco a dimenticare nulla di tutto questo. Forse dimentico quello che ho visto ieri, ma non sono riuscito a dimenticare queste cose. Eppure, dobbiamo implorare le nazioni di riconoscere il Genocidio. Ho perso undici dei miei famigliari e devo implorare le persone di credermi. Questo è ciò che fa più male. È un mondo terribile, un’esperienza terribile”. (*Fondata dal regista statunitense Steven Spielberg nel 1994, allo scopo di registrare le testimonianze dei sopravvissuti e degli altri testimoni dell’Olocausto come raccolta di interviste videoregistrate.)

I suoi 14 libri erano una lotta contro la cancellazione, ma quando ho parlato con lui ha ammesso che il lavoro dell’esercito turco era ormai quasi completato. Il suo ultimo libro è stato “The Smoldering Generation” (La Generazione Bruciata), che ha detto riguardava “l’inevitabile perdita della nostra cultura”.

Il presente è qualcosa in cui i morti non hanno alcun ruolo.

“Nessuno prende il posto di coloro che se ne sono andati”, ha detto, seduto davanti a una finestra panoramica che dava sul suo giardino a Tenafly, nel New Jersey. “I tuoi figli non ti capiscono in questo Paese. Non si può biasimarli”.

Il mondo degli armeni nella Turchia orientale, menzionato per la prima volta dai greci e dai persiani nel 6 a.C., è, come Gaza, la cui storia abbraccia 4.000 anni, praticamente scomparso. I contributi della cultura armena sono stati dimenticati. Furono i monaci armeni, ad esempio, a salvare dall’oblio opere di antichi scrittori greci come Philo ed Eusebio.

Mi sono imbattuto nelle rovine di villaggi armeni quando lavoravo come corrispondente nella Turchia Sud-Orientale. Come i villaggi palestinesi distrutti da Israele, questi villaggi non apparivano sulle mappe. Coloro che compiono un Genocidio cercano l’annientamento totale. Non deve rimanere nulla. Soprattutto la memoria.

Questa sarà la nostra prossima battaglia. Non dobbiamo dimenticare.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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