Bombardare una prigione e fare 70 morti. Sapere che, tra questi prigionieri, la maggioranza ha combattuto al tuo fianco, ed era detenuta proprio per questo dal nemico. Nonostante questo, decidere di bombardare lo stesso, costi quel che costi. Il risultato delle ultime 48 ore di guerra in Yemen – una guerra che è ormai entrata nel suo settimo anno di vita – rende bene l’idea dell’extrema ratio in cui il conflitto è entrato: un tutti contro tutti, un Armageddon finale senza logica, senza buon senso (ammesso che in guerra ce ne possa essere), senza una strategia che non sia l’eliminazione fisica totale dell’altro.
I fatti più
recenti ci dicono che nelle ultime 48 ore la Coalizione a guida saudita che
combatte a fianco del governo centrale del presidente Mansour
Hadi contro le milizie del Nord Yemen, gli Houthi, sostenute
economicamente e logisticamente dall’Iran, ha scatenato il bombardamento più
intenso su città, zone abitate e obiettivi civili del nuovo anno: sono state
colpite la capitale Sana’a, la città portuale e strategica Hodeida e la città
di Sa’ada, a Nord, roccaforte degli Houthi. Secondo lo Yemen Data Project, una eccellente raccolta di
dati sui bombardamenti della Coalizione dal 2015, curata dalla giornalista Iona
Craig, i dati sugli ultimi tre mesi del 2021, con 648 raid, avevano già
mostrato una crescita numerica del 43%, se comparati con tutti i dati
disponibili dal 2018 a oggi. Quel che è successo, è stato, da un lato, l’inizio
dell’ultima fase – probabilmente la più sanguinosa della guerra – che vede gli Houthi
avanzare alla conquista dei governatorati centrali di al-Jawf e Marib, ricchi
di idrocarburi (petrolio soprattutto e gas) ancora non pienamente utilizzati,
e, contemporaneamente, il fallimento della risoluzione delle Nazioni Unite sui
risultati delle investigazioni del gruppo di eminenti esperti (GEE), che per
anni ha lavorato sulle violazioni del diritto umanitario nel Paese, su tutte le
parti in conflitto. È la prima volta nella storia del Consiglio per i Diritti
Umani delle Nazioni Unite che una risoluzione venga cassata; di sicuro cade
l’unica speranza degli yemeniti di trovare ascolto internazionale
sull’identificazione delle responsabilità degli attori in guerra.
Da questo
momento, il conflitto si è fatto più cruento, irregolare, irrazionale. Nei
bombardamenti degli ultimi due giorni i target non sono stati solo militari o
infrastrutturali (porti, aeroporti): nel conteggio ci sono centri abitati,
strutture ospedaliere e la prigione di Sa’ada. Non è la prima volta che la
Coalizione colpisce una prigione, ma in passato, come nei bombardamenti del
settembre del 2019 nel governatorato del Dhamar, la giustificazione era data
dal fatto che la prigione era attaccata a un quartier generale militare degli
Houthi, nei capannoni abbandonati della ex tv di Stato. Stavolta, si parla del
cuore di una città e di una prigione che conteneva sia mercenari stranieri,
soprattutto sudanesi, che rappresentanti delle tribù locali al confine tra
Yemen e Arabia Saudita – area della cosiddetta battaglia della valle Jabara –
catturate dagli Houthi in più di un raid su quelle colline, nell’agosto del
2019, perché alleatisi con i sauditi. In questo tutto per tutto,
dunque, anche i propri prigionieri di guerra vengono sacrificati come agnelli pur di infliggere una perdita
strutturale al nemico.
Del resto,
anche da parte opposta, non prevale la saggezza. Gli Houthi non hanno una
visione politica sul lungo periodo, se non limitata da una parte al saldo
possesso del Nord del Paese, in funzione di rivendicazione tribale e
identitaria (sono originari del luogo, si sentono protettori e possessori di
esso, vennero messi all’angolo negli anni della dittatura di Ali Abdullah
Saleh, osteggiati, combattuti con ogni mezzo) e in funzione strategica ed
anti-saudita. Nella loro comunicazione propagandistica, per spingere i giovani
yemeniti a combattere al loro fianco contro l’invasore esterno, prevale sempre
questa narrativa apocalittica dove – usando animazioni in 3D – si immagina
l’ingresso delle truppe Houthi a La Mecca e la presa di possesso della piazza
della kaaba, la pietra nera sacra a tutti i musulmani del mondo e meta di
pellegrinaggio. Il loro canale di informazione ufficiale, al Masirah, ne contiene parecchi. In questa visione, anche
l’appoggio dell’Iran non guida scientemente tutte le loro scelte strategiche,
esterne al Paese, la cui principale funzione è quella di dimostrare la
debolezza dell’Arabia Saudita e degli Emirati e trovare falle e brecce nel loro
sistema di sicurezza. Così, l’evoluzione ingegneristica di tutto il sistema dei
droni armati che gli Houthi in parte organizzano home made con l’assemblaggio
di prodotti disponibili – come fanno molte altre milizie, si pensi a Isis
– in parte grazie a componentistica e tecnologia iraniana, la cui applicazione è stata
appresa in anni di scambi e viaggi culturali e diplomatici, ha un chiaro
obiettivo: dare noia a UAE e KSA, farli sentire deboli ed accerchiati. Peccato
che questa scelta strategica equivalga a delle fastidiose punture di calabroni
sul corpo di una coppia di grossi felini.
Le due
monarchie del Golfo, non potendo permettere un’offesa simile, anche se essa
possa avere causato, come l’ultimo attacco con drone armato all’aeroporto di Abu Dhabi negli Emirati, la
morte di tre operai pakistani (dunque esistenze che contano davvero poco
nell’economia del Paese), reagiscono come leoni feriti: pretendono dagli Stati
Uniti la difesa del loro territorio, rinsaldano questa alleanza più che
decennale, chiedono sostegno e approvazione alla loro reazione militare,
organizzano una campagna di bombardamenti sul Nord dello Yemen in grande stile.
Hanno piena mano libera e non hanno nessuna responsabilità, perché trattasi
tecnicamente di legittima difesa. A questo punto, con centinaia di attacchi
bomba sferrati contemporaneamente su tre città, gli Houthi possono rigiocare –
sul piano internazionale – il ruolo delle vittime e, su quello locale,
continuare a rinsaldare il loro legame con i cittadini del Nord, dimostrando
che il nemico esterno è sempre più assetato del sangue yemenita.
Ma nella
fase finale di questa guerra, del tutto per tutto, questo gioco sta funzionando
meno: l’ultima settimana le chat dei cittadini yemeniti del Nord e del Sud, e
degli espatriati, sono state assai più ricche di ragionamenti che di accuse
faziose tra il Nord e il Sud, tra i sostenitori degli Houthi e gli yemeniti
vicini a un governo debole che si fa spalleggiare dalle due monarchie del
Golfo: sempre più persone ritengono questo gioco di provocazioni tra le parti
sia un suicidio su tutta la linea e che l’invio di un drone armato
sull’aeroporto di Abu Dhabi sia stata la peggiore idea strategica possibile.
Questa guerra,
combattuta con armi sempre più sofisticate e con una tecnologia raffinata nella
precisione, sia che si tratti di bombe che di droni armati, si combatte anche
con le armi della comunicazione online. Per evitare la diffusione sui social e
sui siti delle emittenti degli Houthi immagini di bombardamenti, distruzioni,
vittime, la Coalizione si è affrettata a bombardare le infrastrutture di
comunicazione nella città di Hodeida per azzerare i collegamenti online, e
impedire ai giornalisti locali presenti di inviare testimonianze dirette
dell’accaduto. La maggior parte della popolazione dello Yemen, infatti, accede
a Internet tramite un cavo sottomarino che parte dal Mar Rosso e collega il
Paese tramite la struttura di telecomunicazioni di Hodeida, gestita dal
monopolio delle telecomunicazioni TeleYemen. Sia la città di Hodeida che
TeleYemen sono sotto il controllo degli Houthi. Oltre che da 48 di tentativi
degli yemeniti all’estero che tentano disperatamente di raggiungere i loro
parenti, per verificarne lo stato, la certezza che ciò sia accaduto è
confermato da Netblocks, il gruppo di monitoraggio
dell’internet globale, di proprietà del tecnologo e attivista Alp Tocker.
Netblocks ha
dimostrato una caduta verticale di tutti i servizi di collegamento del Paese,
da più di 48 ore, ormai, ed è stato anche in grado di catturare, servendosi di
fonti aperte Osint, confermate dal profilo Twitter Aleph, che il palazzo di
TeleYemen a Hodeida è stato completamente distrutto.
La Coalizione ha negato di avere colpito questi obiettivi, come anche l’intensità di questi bombardamenti. In questa guerra che diventa sempre più tecnologica si continua a non tenere conto della potenza della Rete e soprattutto di chi sa utilizzarla ai fini della ricostruzione di ogni responsabilità.
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