Da una situazione in cui nulla può accadere,
tutto di colpo torna possibile
M. Fisher, Realismo capitalista
Negli ultimi vent’anni ci si è focalizzati su un unico oggetto tecnologico,
sotto le diverse forme assunte dal personal computer, dai cellulari, dai tablet
e da altri strumenti per navigare. Quest’unico oggetto tecnologico è stato
investito in modo assoluto – nella doppia accezione della
totalità con cui agisce e dell’esclusione di qualunque legame con i contesti in
cui agisce – dalla qualifica di “innovazione”. Quel che possiamo oggi
osservare sono i fenomeni di disfunzionalità linguistica, i deficit di
attenzione e di concentrazione, la mancanza di sguardo “largo”, la smania di
fotografare e fotografarsi ossessivamente, in una nuova gerarchizzazione
dell’esperienza umana che la subordina alla sua rappresentazione immediata e
compulsiva, lo scarso ricorso alla memoria a lungo termine, lo schermo
utilizzato come protezione, come difesa dall’altro ma anche come
mistificazione, aggressività, menzogna, fino alle manifestazioni patologiche, talora
pericolosissime, del falso Sé.
Aspetti che colpiscono perché non ci vengono indicati solo dalle
neuroscienze, che ci allertano sui danni addirittura organici dell’esperienza
digitale immersiva sui cervelli plastici delle creature piccole, ma dal mondo
degli artisti che lavorano sul corpo e sulla figura, sull’immagine evocativa e
metaforica, rispetto alla fruizione adulta di cinema, teatro, pittura,
fotografia.
Così Susan Greenfield, nel suo Mind Change. Cambiamento mentale. Come
le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta nel nostro cervello (Fioriti
ed.), a proposito dell’accusa di eccessivo allarmismo da parte di chi caldeggia
le potenzialità del digitale:
“Che tipo di prova servirebbe per dimostrare, in tempi realistici e con la
soddisfazione di chiunque, che la cultura dell’interazione con lo schermo stia
arrecando cambiamenti a lungo termine su fenomeni diversi tra di loro, come
empatia, consapevolezza, comprensione, identità?”.
Già, che tipo di prova serve?
Viviamo in un mondo caratterizzato da processi socio-economici globali,
dall’accelerazione esponenziale di uno sviluppo tecnologico che, oltre a
modificare condizioni, modi e strumenti di produzione e consumo, agisce
collettivamente sulle strutture sociali e sui nostri abiti mentali, anche attraverso
l’interiorizzazione di forme di manipolazione individuale sempre più insinuanti
che producono l’elaborazione spontanea di condotte conformi al sistema1.
Con i nuovi media digitali, così enormemente presenti nelle nostre vite, in
cui la funzione creativa, riflessiva e immaginativa è schiacciata su
quella comunicativa, ogni giorno circolano velocemente informazioni che
superano vecchi perimetri e confini spazio-temporali.
In questa “modernità liquida”, secondo l’efficace definizione di Zygmunt
Bauman, a dominare è la quantità. Qualità, profondità,
attendibilità e veridicità di ciò che viene raccontato su quanto accade nel
mondo non sono affatto garantite; piuttosto, andrebbero scrupolosamente cercate
e indagate.
Il rischio è quello di essere sopraffatti da un profluvio crescente di
informazioni in cui progressivamente sembra sfumare non solo la distinzione
certa tra vero e falso, tra bugia e verità, tra ciò che accade realmente e ciò
che viene comunicato pubblicamente, ma anche la possibilità stessa di elaborare
una cornice di lettura e di interpretazione critica che rifletta sui dati per
selezionarli e per dare loro un significato, che non si limiti ad accostarli o
ad agglomerarli in statistiche, ma che sappia costruire o ricostruire una
prospettiva di senso, a partire dai nessi sincronici e diacronici di spazio,
tempo, cause e effetti.
Nelle spire di una condizione pervasiva di coercizione alla conformità
instillata dalla connessione digitale totale – il digital turn descritto
dal filosofo coreano Byung Chul Han – corriamo il rischio di
disimparare a pensare, a immaginare e a capire ma anche ad agire in modo
responsabile e soggettivamente critico […].
È sotto questo profilo che lettura e letteratura possono costituire un
fattore protettivo, antagonista rispetto alla condizione di alterità meccanicistica e al
depauperamento del simbolico che il dominio dell’immaginario digitale e la
trasformazione del reale esercitati dalle nuove tecnologie informatiche
possiede e mette spregiudicatamente in campo.
La letteratura – ovvero la lettura, in casa, appartata e silenziosa oppure,
a scuola, espressiva e condivisa del testo letterario – costituisce ancora una
preziosa occasione di formazione all’umano sentire, perché offre
l’opportunità di un posizionamento dinamico e creativo in un percorso di
risonanza, conoscenza e interpretazione, che è sempre, allo stesso tempo, di
soggettivazione e di relazione con l’altro da sé, nella temporanea
sospensione dell’esperienza solipsistica, a tratti autistica, realizzata dai
dispositivi e dai paradigmi del digitale.
Che si configuri come un percorso del riconoscimento del già noto oppure di
avvicinamento, scoperta e conoscenza dell’ignoto, la letteratura, a differenza
della Rete, ci vuole umanizzati e non reificati.
La letteratura chiama a gran voce la nostra umanità e la amplifica, riproponendoci al
cospetto di un mondo incorporato che ci invita ad una
relazione profonda e arricchente, ad un coinvolgimento etico ed estetico
carnale e diretto, ad un contatto significativo capace di lasciare il segno sui
nostri tracciati emotivi, in quell’engagement corporeo che
la Rete, al contrario, sistematicamente preclude.
Riavvicinare i giovani al libro di letteratura significa sottrarli alla
mortificazione del linguaggio quotidianamente perpetrata dai social media,
risarcirli del progressivo immiserimento della parola che, nelle forme
algoritmiche del digitale, non può che essere strumentale, limitata,
stereotipata, adattata e contingente. Non più intessuta in una trama di
significati potenzialmente inesauribile, non più capace di esercitare la sua
vitalità nella costante negoziazione semantica, nel reciproco adattamento tra
chi la pronuncia o la scrive e chi la riceve o la legge; piuttosto, deprivata
nella Rete dei suoi necessari riferimenti pragmatici, del contesto sociale,
storico, culturale in cui invece, con l’opera letteraria assume e trasmette la
sua forma-libro, la parola appare oggi, nell’immaginario e nel linguaggio più
diffuso, scarnificata e de-significata perché sempre più de-situata e irrelata.
[…]
Attraverso la letteratura e la lingua che la esprime possiamo ancora
imparare a guardare il prossimo e noi stessi, a
“porre in relazione fatti personali e fatti generali, attribuire valore a
piccole o a grandi cose, considerare i propri limiti e vizi e gli altrui,
trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua
forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non
pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza,
l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili”3. […]
Ma c’è di più. La narrazione, considerate dallo psicologo Jerome Bruner,
come la “modalità privilegiata per custodire, riorganizzare e comunicare
l’esperienza nella sua forma più aderente alla percezione originale”, sembra
possedere una irrinunciabile funzione epistemica: attraverso la
narrazione acquisiamo e sedimentiamo esperienza e conoscenza, attraverso la
narrazione interpretiamo le menti altrui e le cose del mondo, in una
prospettiva – circolare e ricorsiva – soggettiva e intersoggettiva, individuale
e sociale. La narrazione è un atto linguistico, ma è anche un raffinato
strumento cognitivo che ci consente pensiero riflessivo e immaginativo,
comunicazione interpersonale e attribuzioni di senso. La letteratura è una
forma espressiva della narrazione che trasforma la “parola vissuta” in “parola
incontrata”5: il linguaggio – che è azione –
in una scrittura, che è rivelazione. E la narrazione è la “nicchia
ecologica” che ha contribuito a garantire nel tempo la sopravvivenza dell’Homo
sapiens. Una nicchia narrativa in cui ci siamo adattati (in termini
evolutive) animando, attribuendo capacità di agire e interagendo empaticamente
con ciò che animato non è. Una nicchia narrativa che è vita.
Note
1 In Cina, la potente spinta del
Partito Comunista Cinese verso l’automazione e il controllo sta producendo due
fenomeni: il primo è l’adattamento del cittadino, indotto anche dall’emergenza
sanitaria che sembra giustificare il tracciamento; si vedono, in numerosi video
in rete, bambini giocare con “camerieri-robot”, ragazze che si mostrano con
civetteria al controllo facciale, persone costrette a mostrare il lasciapassare
decine di volte al giorno con rassegnata obbedienza (video che, anche qualora
fossero montature, mostrano aspetti ampiamente analizzati da sinologi); il
secondo sono le forme, sul modello occidentale, di sensibilità al concetto di
privacy, la sotterranea insofferenza verso l’invadenza delle telecamere
(installate anche nelle scuole di ogni ordine e grado per consentire ai
genitori di “guardare i propri figli in tempo reale”). Simone Pieranni
(2021). La Cina nuova. Laterza, Bari-Roma; id. (2020). Red
Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina. Laterza, Bari-Roma.
2 F. Fortini (1979). Letteratura,
in Enciclopedia Einaudi, 16 voll. Einaudi, Torino 1977-84, vol.
VIII, pp. 152-75:170.
3 I. Calvino (1995). Il
midollo del leone, in Una pietra sopra. Mondadori, Milano, p.
17.
4 S. Keen (2007). Empathy and
the Novel, Oxford University Press, Oxford-New York.
5 J. P. Sartre (1960). Che
cos’è la letteratura?. Il Saggiatore, Milano, p. 126
Grazie della condivisione di quest'ottimo pezzo.
RispondiEliminalettura e letteratura come cura è una cosa bellissima
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