Il 30 dicembre in Cina, a Jingxi, città della provincia meridionale di Guangxi, quattro uomini, accusati di traffico di esseri umani, aggravato dai confini chiusi per Covid, sono stati costretti a sfilare con le mani legate dietro la schiena, ognuno condotto da due persone, che li tenevano per le braccia. Completamenti coperti da tute bianche anti rischio biologico, risultavano comunque riconoscibili da un cartello appeso al collo con il loro nome e la loro foto. Questo ricorso alla gogna, all’umiliazione pubblica quale mezzo di punizione e contrasto al male compiuto, ha avuto una potente risonanza a livello mondiale, ed ha registrato qualche critica persino entro gli stessi confini cinesi, dove il dissenso all’operato delle autorità è per lo meno poco tollerato, tanto per usare un eufemismo: segno che si tratta di una pratica che conserva la sua connotazione particolarmente odiosa, anche nel confronto con tante altre forme di violazione dei diritti umani, che pure in Cina abbondano.
Si tratta di una pratica tutt’altro che indolore, in grado di distruggere
l’identità stessa di chi la subisce: le reazioni variano in funzione della
situazione e della forza di carattere, e quindi della resistenza psicologica,
di chi le sperimenta; ma la sensazione è sempre penosa perché è troppo
difficile affrontare la condanna altrui, di quegli altri che appaiono come un
tribunale morale, giudici inflessibili, misura del bene e del male, in assenza
di avvocati difensori. Lo scopo prefisso non è quello di provocare
sensi di colpa portando l’accusato a riflettere su quello che è considerato un
cattivo operato, ma di suscitare vergogna. Vergogna che è un’emozione sociale,
che dipende dalla riprovazione degli altri: il peso del loro giudizio
negativo ferisce la propria immagine, danneggia l’autostima, fa sentire indegni
dell’ideale che si ha di sé stessi o dell’idea di sé che attribuiamo agli
altri. Si vorrebbe scomparire, si gira lo sguardo e si abbassano gli occhi,
come se non vedere potesse magicamente corrispondere a non essere visti.
Nei paesi totalitari, in cui il sistema squalifica non solo chi disobbedisce
alle leggi, ma anche chi non condivide il pensiero dominante, il mezzo per
contrastare la devianza è anche quello di sottoporre i dissidenti alla
squalifica proprio attraverso l’esposizione alla vergogna, alla disconferma
pubblica, alla estromissione dal contesto di riferimento, che è invece
fondamentale: perché la solitudine, l’isolamento, la non condivisione sono
esperienze mortifere.
È più che lecito pensare che l’episodio di cui si parla non sia un fatto
isolato: anche se la pratica della gogna pubblica in Cina risulta abolita come
forma di punizione da una quindicina d’anni, non avrebbe potuto riapparire
improvvisamente se non all’interno di un contesto che è forse capace se non di
apprezzarla, almeno di tollerarla. Per nulla secondario è il fatto che la
sua abolizione è recente: se ha avuto modo di essere estromessa dal codice
penale, è lecito pensare che non altrettanto abbia potuto fare rispetto alle
coscienze che non hanno ancora avuto modo di eradicarla dal proprio universo,
dove era stata introiettata quale consuetudine, per quanto drammatica. Di certo
il suo uso è stato cospicuo in decenni non lontani: dalle maglie della censura,
anni fa ne era emersa una drammatica messa in onda all’interno di Vivere,
film di Zhang Yimou del 1994 che, ripercorrendo insieme alle sorti di una
famiglia i rivolgimenti epocali del paese, proponeva indimenticabili scene
sull’esposizione alla pubblica umiliazione di persone cadute in disgrazia
durante la rivoluzione culturale. La maschera di sofferenza fisica e mentale
del piccolo uomo costretto a correre tra ali di folla insultante rimane potente
rappresentazione dello sconquasso fisico e mentale conseguente.
Varie sono le forme di abuso con cui viene costretta a convivere parte del
popolo, in una terra dove sono legali pratiche inaccettabili per molti paesi
del mondo occidentale, a cominciare dalla pena di morte (con la scandalosa
eccezione di Stati Uniti e dall’altra parte del mondo, del Giappone), che in
quella terra non solo sopravvive, ma viene eseguita con una frequenza tale da
far guadagnare alla nazione il poco invidiabile primato mondiale nel numero
delle esecuzioni: Amnesty International ritiene lo si possa affermare con
certezza anche in assenza di dati precisi, che non vengono mai resi pubblici in
quanto considerati segreti di stato, esattamente come avviene in Corea del
Nord, Siria, Vietnam. Talmente segreti che a volte neppure i familiari dei
condannati vengono informati dell’imminente esecuzione: lo vengono a sapere
solo dopo, a morte avvenuta, a volte in contemporanea con la richiesta di
risarcire il costo della pallottola, se l’esecuzione ha avuto luogo tramite
fucilazione. Drammatici e rarissimi documentari mostrano poi l’ultimo saluto
del condannato al proprio figlio: l’uno deve fare ammissione della propria
imperdonabile colpa, e l’altro deve apprezzare la saggezza e l’equità dello
stato: viene in questo modo negato persino un ultimo momento di tenerezza e
pietà nella condivisione del dolore immenso della morte imminente, sacrificato
al dovere di omaggiare lo stato.
La Cina è anche lo stato in cui il controllo demografico attraverso la
politica del figlio unico, imperversata tra il 1979 e il 2015, ha significato
centinaia di milioni di aborti imposti, di abbandoni di neonate, di vendita o
di omicidi delle stesse, in una scempio di cui il documentario One
child nation della regista Nanfu Wang (1919; ora visibile su Netflix)
è riuscita a dare spasmodica testimonianza; in cui i dissidenti sono trattati
alla stregua di criminali; in cui le minoranze etniche subiscono
imprigionamenti di massa, torture e persecuzioni, dando vita a centri che la
segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, ha
definito un inferno distopico di dimensioni gigantesche.
Nelle cosiddette democrazie occidentali, siamo lontani anni luce da tutto
ciò; ma per quanto ci possiamo sentire assolti, alcune considerazioni non
guastano. A partire dal fatto che il “nostro” mondo non gode di
verginità al proposito: in epoca medievale il termine gogna definiva
addirittura uno strumento ben conosciuto, che immobilizzava il condannato di
turno, di solito reo di crimini non gravi, costretto alla pubblica esposizione
sulla piazza del mercato per un tempo che poteva essere di ore o di giorni,
alla mercè dello sguardo della gente, autorizzata a disprezzarlo e ad infierire
su di lui con una crudeltà inimmaginabile. Progressivamente, nei vari paesi, si
è arrivati ad una concezione del diritto che proibisce trattamenti degradanti
in un’ottica della pena che, almeno teoricamente, non viene più considerata
come il mezzo per far pagare il male compiuto con un altro male di uguale
intensità, ma percorso rieducativo. “Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”, recita l’articolo 27 della Costituzione Italiana; e,
per quanto la lontananza dalla sua efficace applicazione sia stratosferica,
l’assunto di base risulta almeno in parte introiettato dal pensiero comune,
nonostante i rigurgiti reazionari siano sempre virulenti.
Il discorso va allargato ad atteggiamenti che solo apparentemente non hanno
nulla da spartire con i fenomeni più drammatici: per esempio, non è da
sottostimare la diffusione dell’ammonimento Vergognati!
frequentemente rivolto ai bambini, vale a dire alla fascia più debole delle
persone, che, in funzione dell’età, possono non avere capacità alcuna di una
valutazione critica dell’imposizione. L’immagine del bambino, annichilito,
occhi bassi, magari in lacrime ben rappresenta la risposta all’emozione penosa
e distruttiva della vergogna, sollecitata dalle parole dell’adulto: non
valgo nulla, non sono degno, merito di essere svergognato: perché lo dice
lui, che è grande, sa tutto, e non può che avere ragione. L’asimmetria della
relazione rende il risultato dell’intervento “educativo” scontato. Sono
pochissimi i decenni che ci separano dai castighi comminati all’interno delle
aule scolastiche attraverso l’esposizione alla pubblica vergogna: staccare
un bambino dal contesto della classe e metterlo di fonte ai suoi compagni in
situazioni umilianti, come castigo a sue mancanze sortiva l’effetto di farlo
sentire inferiore, diverso, isolato: dal punto di vista psicologico una
punizione drammatica, capace di colpire nel profondo il senso di identità. Non
è difficile ritrovare nei racconti degli adulti richiami ad esperienze di
questo tipo che, pur lontanissime nel tempo, conservano tutta la loro potenza
devastante, incistate nel profondo come ferite indelebili, presenze ingombranti
a inondare con il senso di indegnità l’idea di sé negli anni successivi,
talvolta per l’intera vita. L’espressione Pedagogia Nera, che usa
Alice Miller nel raccontare i soprusi all’infanzia ne dà lugubre
rappresentazione.
E molto ci sarebbe ancora da dire sui riflessi lunghi di un altro tipo di gogna,
quella mediatica oggi drammaticamente diffusa: a volte investe giovani e
giovanissimi esposti alla derisione dei compagni per vere o presunte fragilità,
oppure ragazze consegnate alla stigmatizzazione pubblica attraverso la
diffusione di immagini private, in genere a sfondo sessuale; ma anche adulti di
cui vengono sviscerati segreti intimi o riservati, allo scopo di degradarne
l’immagine. Qualunque sia lo scopo che ci si prefigge, le reazioni possono essere
tragiche e a volte oltrepassare di gran lunga le previsioni: la propria
immagine in frantumi, il senso di isolamento, la disconferma della propria
persona si possono trasformare in forme acute e pericolose di depressione o
innescare risposte controaggressive di impensabile violenza, pari a quella subita.
Non basta: il suicidio non raramente è visto come l’unica risposta possibile a
tanto dolore.
Tutte le pratiche del male hanno un percorso di formazione, da forme
considerate tenui, lungo un continuum sempre più drammatico: non sarà mai
troppo presto prenderne atto, e riflettere come anche i personali comportamenti
di vita quotidiana, per quanto sottovalutati, abbiano un proprio peso specifico
nello tsunami autodistruttivo che incombe sulla nostra specie.
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