Cinquant’anni buttati - Paolo
Cacciari
Quest’anno
saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del Rapporto The Limits to
Growth elaborato da un gruppo di ricercatori del
Massachussets Institute of Technology guidato da Donella e Dennis Meadows,
commissionato dal Club di Roma (un “circolo di
discussione” o, come diremmo ora, un think tank, finanziato da
imprese e istituzioni pubbliche, guidato da Aurelio Peccei, un illuminato
economista e amministratore delegato della Olivetti, formato da scienziati,
uomini d’affari, attivisti dei diritti civili, alti funzionari internazionalii), pubblicato in Italia da
Mondadori con il titolo I limiti dello sviluppo. Il Rapporto
conteneva una grande quantità di dati e grafici elaborati con avanzati
programmi informatici per spiegare una cosa in realtà molto semplice –
“abbastanza scontata”, come ebbe a dire in seguito Giorgio Nebbia in un libro
intervista a Valter Giuliano (Non superare la soglia, edizioni Gruppo
Abele, 2016) -: una crescita esponenziale della
popolazione e dell’uso industriale delle risorse naturali avrebbe finito per
compromettere gli equilibri ambientali e mettere in pericolo lo stesso sviluppo
economico. Dimenticarsi della base materiale su cui poggia la
tecnostruttura sociale conduce inevitabilmente ad una catastrofe ecologica.
L’allarme non era certo
nuovo. Per rimanere nel secondo dopoguerra, già altri l’avevano
lanciato ad incominciare dalla biologa Rachel Carson (con il suo meraviglioso
racconto di un mondo avvelenato dai pesticidi e privato del canto degli
uccelli; Primavera silenziosa, del 1962), dall’economista
Kenneth Boulding (che fece sua l’efficace metafora del pianeta Terra come una
navicella spaziale; The Economics of the Coming Spaceship Earth,
del 1966), da Robert Kennedy (il suo celebre discorso di critica alla
divinizzazione del Pil, “che misura tutto ad eccezione di ciò che davvero
conta”, è del marzo del 1968), dal biologo Barry Commoner (il suo The
Closing Circle: Nature, Man, and Technology è del 1971, tradotto e
commentato da Virginio Bettini per Garzanti), da Nicholas Georgescu-Roegen,
fondatore della bioeconomia (il suo The Entropy Law and the Economic
Process, è del 1971), dalle stesse Nazioni Unite che, sulla spinta di
grandi movimenti di contestazione ecologica e a difesa dell’ambiente negli
Stati Uniti, istituirono la giornata mondiale della Terra il 22 aprile
(equinozio di primavera) nel 1970. Nel discorso alla Nazione dello stesso anno
il presidente degli US, Richard Nixon, affermava: “La grande domanda degli anni
Settanta è: ci arrenderemo a ciò che ci circonda, o faremo pace con la natura e
cominceremo a riparare i danni che abbiamo arrecato alla nostra aria, alla
nostra terra e alla nostra acqua? Riportare la natura al suo stato naturale è
una causa comune a tutto il popolo di questo Pese” (citazione in P.P. Poggio e
M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amur, Jaca Book, 2020).
Anche nel nostro “piccolo”, nei
primi anni Settanta la nozione di ecologia si era affermata per merito di
grandi personalità come Giorgio Nebbia e Laura Conti e
associazioni come Wwf, Pro Natura, Italia Nostra. Nel 1970 la Federazione delle
associazioni scientifiche e tecniche promosse alla Fiera di Milano il convegno
“L’uomo e l’ambiente” e l’anno dopo l’Istituto Gramsci organizzò alla scuola di
partito del Pci, alle Frattocchie, il convegno “Uomo, natura, società”
(novembre 1971). La stessa Chiesa conciliare si era spesa sulle questioni
ambientali. In una lettera pubblica del 1971 papa Montini, Paolo VI, così si
esprimeva: “Un’altra trasformazione si avverte, conseguenza tanto drammatica
quanto inattesa dell’attività umana. L’uomo ne prende coscienza bruscamente:
attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di
distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non
soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e
rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che
l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà
essergli intollerabile” (Citazione tratta da G. Nebbia in Non superare
la soglia).
Tutti i temi dell’intreccio
ambiente/economia, natura/cultura, tecnoscienza/umanesimo, benessere
psicofisico/crescita industriale erano già squadernati sul banco di studio
della politica
Il 1972 segna il punto
più alto dell’emergere della nuova cultura ecologista e della comprensione
della questione ambientale con il primo grande summit delle Nazioni unite a
Stoccolma, il 6 giugno, dal titolo: Unite
Conference on Human Environment. Tutti i protagonisti della politica
erano alla ricerca di un “eco-sviluppo” che riducesse le logiche dell’economia
all’interno delle leggi naturali ecosistemiche che regolano i grandi cicli
biologici della vita sul pianeta. Un passo che sembrava essere non solo
desiderabile, ma anche alla portata delle possibilità tecno-scientifiche e delle
ambizioni (come si direbbe oggi) dell’azione umana civilizzatrice. Tanto da far
ritenere al filosofo e sociologo Edgar Morin,
maestro del pensiero complesso, che l’umanità entrava nel “primo anno di una
nuova era” grazie alla nascita di una “ecologia generalizzata, scienza delle
interdipendenze, delle interazioni, delle interferenze tra sistemi eterogenei,
scienza al di là delle discipline isolate, scienza realmente transdisciplinare”
(E. Morin, L’anno I dell’era Ecologica, in Le Nouvel Observateur,
1972. Armando Editore, 2007). Oggi, con le parole di Bergoglio nella Ludato
si’, useremo l’espressione: “ecologia integrale”. Morin non sarà il solo a
confidare su un ravvedimento generalizzato e su una svolta radicale del
“modello di sviluppo” post miracolo economico e post Trenta Gloriosi anni della
ricostruzione. Giorgio Nebbia, padre dell’ambientalismo italiano amava
ricordare quegli anni come l’“alba dell’ecologia” o la “primavera ecologica”
(Vedi, di Giorgio Nebbia, Fatti, idee e movimenti dell’ambientalismo
italiano negli ultimi vent’anni, in N.Greco, Il difficile governo
dell’ambiente, Edistudio, Roma 1988).
Il 1973 è
un anno davvero magico per la fondazione del pensiero ecologico. Arrivano in
Italia, di Gregory Bateson, antropologo e psicologo britannico, Verso
un’ecologia della mente; di Konrad Lorenz, zoologo ed etologo
austriaco, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà; di
Barry Commoner, ecologo statunitense, Il cerchio da chiudere; di
Friedrich Schumacher, filosofo ed economista tedesco, Piccolo è bello;
di Ivan Illich, filosofo, pedagogista
austriaco, La convivialità: di Herman
Daly, economista ecologico statunitense, Toward a Steady-State Economy,
di Arne Naess, fondatore della Deep ecology e critico dell’utilitarismo
antropocentrico, The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology
Movements. In questo stesso anno viene firmato a Nyach, nello stato di New
York, il Manifesto per una economia umana, con N.
Georgescu-Roegen, K. Boulding, H. Daly e molti altri. Qualche anno dopo, nel
1979, James Lovelock formulava la sua ipotesi di Gaia pianeta vivente nel
1979 e Carolyn Merchant, nel 1980, scriveva La morte della natura.
Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, un testo di riferimento per
l’ecofemminismo che fa discendere la critica al capitalismo da quella al
patriarcato e all’androcentrismo. Da noi Giulio Maccacaro e Luigi Marra fondano
Medicina democratica (1976), Enrico Berlinguer fa il discorso sull’“austerità”
al teatro Eliseo nel 1977.
Da allora abbiamo
rimasticato le stesse questioni in una interminabile sequenza di conferenze
internazionali, protocolli, patti e accordi intergovernativi senza
riuscire a spostare di una virgola l’incremento, anno dopo anno, di gas tossici
e climalteranti emessi in atmosfera, di sostanze di sintesi non biodegradabili
rilasciate nel suolo, nelle falde e nei mari, di materiali grezzi estratti da
miniere, cave e pozzi, di foreste primarie distrutte, di chilometri quadrati di
suolo impermeabilizzati, di specie animali e vegetali estinte, di epidemie da
zonoosi a seguito della distruzione di habitat naturali. Il
surriscaldamento globale è solo uno dei sintomi del collasso ecologico. Gli
altri sono: la diminuzione dell’acqua potabile disponibile, la perdita di fertilità
dei suoli, le polveri sottili in atmosfera, l’inquinamento chimico (vedi
i 9 Planetary boundaries individuati da Johan Rockström,).
Aggiungiamoci gli inquinamenti radioattivi, elettromagnetici, acustici,
luminosi e, forse, la stessa diminuzione della capacità della fotosintesi
clorofilliana della biomassa vegetale.
Il professore di fisica
sperimentale dell’università di Ca’ Foscari e sostenitore di Extinction
Rebellion, Francesco Gonella, ha elaborato una imbarazzante correlazione tra la
curva della crescita del biossido di carbonio e le Conferenze delle Parti
intergovernative dell’Onu sulla lotta ai cambiamenti climatici.
Com’è potuta accadere
una rimozione così profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, oltre
che sociali e morali del pensiero ecologista? Rispondere con sincerità a questa
domanda è un passaggio indispensabile da compiere per chiunque desideri cercare
una via di uscita alla degradazione della vita sulla Terra.
Naomi Klein ha parlato di “dissonanza cognitiva”. Secondo il suo teorico, Leon
Festinger, psicologo e sociologo statunitense, si deve intendere
una dissociazione mentale tra la realtà e il proprio comportamento. Conosciamo
razionalmente le conseguenze delle nostre azioni, ma non ne teniamo conto.
Mentiamo a noi stessi pur di non mettere in discussione convinzioni secolari,
abitudini e ciò che ci sembrano comodità. Più semplicemente, forse, la logica
di funzionamento del sistema socioeconomico capitalista in cui siamo immersi
mette in contrapposizione accesso al reddito e qualità dell’ambiente naturale;
“la fine del mese e la fine del mondo” (per riprendere uno slogan polemico dei
gilet gialli contro le tasse sui carburanti); “fame o fumo” (per ricordare già
negli anni ’70 gli operai del Petrolchimico di Porto Marghera che accettavano
condizioni di lavoro mortifere). Con il turbo-capitalismo neoliberista il
”rischio” personale è divento un valore enfatizzato e premiato dalla società
individualizzata, come annotava Ulrich Beck, in La società del
rischio. Verso una seconda modernità. Più semplicemente la nostra è la
società dello “speriamo che me la cavo”. Ce ne freghiamo di ciò
che accade agli altri e di chi verrà dopo di noi. I sentimenti di solidarietà,
giustizia, convivenza nonviolenta, fratellanza/sorellanza, rispetto di ogni
forma di vita o sono stati ammutoliti, o sono ridotti a retorica delle feste
comandate. La religione della crescita economica è alimentata dalla
competizione di tutti contro tutti. Tra le persone oltre che tra aree
geopolitiche.
Cinquant’anni passati così
dovrebbero essere sufficienti per convincerci a cambiare criteri di
riferimento, immaginare cosmovisioni diverse, praticare relazioni di cura con
gli altri e con la natura. È ciò che mi auguro avvenga nei
prossimi cinquant’anni.
i Il Club di Roma è tutt’ora
attivo. Il suo ultimo, interessantissimo rapporto si titola: 1.5-Degree
Lifestyles: Towards A Fair Consumption Space for All. 2021.
da qui
Conquiste che stiamo perdendo - Angelo Baracca
L’amara ricostruzione di Paolo Cacciari del patrimonio di
elaborazione dagli anni ’60 – ’70 che sembra essersi perduto (Cinquant’anni buttati) è
molto accurata e completa, ma dalla mia intensa esperienza nei movimenti a
partire dalla contestazione studentesca e dall’Autunno Caldo (avevo trent’anni
ed ero da poco laureato in Fisica) essa racconta solo una parte della storia:
non è per un’astratta critica, poiché la ricostruzione di Cacciari è comunque
molto importante, ma per un intento costruttivo e di completezza (per quanto
possibile) della memoria storica che voglio brevemente discutere e ricostruire
un’altra parte, che presumibilmente non sarà l’unica.
Cacciari
discute gli aspetti che chiamerei, per capirci, di elaborazione intellettuale,
di ricerca, le pubblicazioni che certo furono importanti per tutti, le
iniziative istituzionali: rimane dalla mia esperienza attiva
scoperto l’aspetto dei movimenti, delle lotte, ed anche delle
conquiste importanti, aspetti che integrano in modo non marginale la
ricostruzione, la tempistica, nonché le eredità e le prospettive.
Personalmente
ho criticato esattamente un anno fa il concetto di “Primavera dell’Ecologia”, e
in particolare l’affermazione del compianto Giorgio Nebbia che «[i]l 1973 fu
l’ultimo anno della primavera dell’ecologia»1 (Baracca,
«Dal ‘68 agli anni ‘70, una radice trascurata, di classe, dell’ambientalismo in
Italia negli anni ‘70, e le sue valenze: il precoce ambientalismo “rosso”.
Memorie dei movimenti e documenti», Altro900, dicembre 2020):
quest’articolo, che sconfina anche negli anni ’80, è molto lungo e dettagliato
e mi riferirò solo ai concetti essenziali che qui interessano.
Mi
colpisce che Cacciari nella sua puntigliosa ricostruzione non citi Dario
Paccino de L’Imbroglio Ecologico del 19722, un
titolo che da solo dovrebbe sollevare qualche riserva sulla “armonia” di quella
Primavera dell’Ecologia: Paccino era senza dubbio persona molto diversa da
Nebbia per impostazione di fondo (come si può verificare anche dal carteggio
fra di loro, conservato nell’archivio di Altro9003). Non
è certo una considerazione del rispettivo valore, ma potrei dire che Paccino
aveva individuato molto chiaramente e precocemente le insidie insite nei
concetti e nell’impostazione dell’ecologia.
Quegli
anni non furono solo la culla dell’ecologia, ma furono (sembra superfluo
osservarlo) teatro di lotte di massa radicali che ebbero caratteristiche
precipue:
§ coinvolsero
tutti i soggetti sociali, dagli operai, agli studenti, alle donne, ai settori
cattolici, agli scienziati e i tecnici, agli operatori di tutti i settori;
§ pur
essendo i vari movimenti e settori attraversati da differenze profonde di
concezioni e strategie politiche, quelle lotte coinvolsero tutti e tutte con
un’impostazione radicale che puntava a una trasformazione profonda della
struttura sociale e produttiva;
§ fin
dall’Autunno Caldo furono trainanti le lotte operaie, che impressero una
decisiva impronta di classe.
Il
1973, anno della crisi petrolifera, lungi dal chiudere una “primavera” segnò un
deciso rilancio e una radicalizzazione delle lotte operaie, che trascinarono
gli altri settori sociali. Dalle
vertenze nelle fabbriche sui danni alla salute dei lavoratori causati dai cicli
produttivi, le lotte operaie si estesero al territorio, investirono i problemi
ambientali (1973, la crisi petrolifera e il problema energetico; 1976, i
disastri di Seveso, di Manfredonia4 che
vide successivamente un deciso protagonismo delle donne). Rimarrà nella storia
l’esaltante manifestazione nazionale unitaria di 250.000 metalmeccanici a Roma5 (in
pieno governo Andreotti di centrodestra), che rappresentò la spallata decisiva
per il rinnovo contrattuale caratterizzato principalmente dalla conquista dell’inquadramento
unico (operai-impiegati) e delle 150 ore, che aprivano agli operai la porta
della cultura scevra da espliciti interessi professionali e produttivi.
Il
movimento femminista portò nelle lotte una forte caratterizzazione, ad esempio
per la conquista del diritto all’aborto. Le proteste contro la guerra al
Vietnam produssero grandi manifestazioni con un carattere fortemente unitario e
antimperialista: uno dei temi di
discussione erano i sistemi di guerra tecnologica con i quali gli Stati Uniti
aggredivano unitamente la popolazione e l’ambiente, come il famigerato Agente
Orange, e la barriera elettrica per fermare i transiti dei Vietcong fra il
Nord e il Sud del paese.
La
trasversalità dei movimenti degli anni Settanta configurò un movimento complessivo
che chiamerei un eco-gender-pacifismo di classe. Sul terreno
dell’ambientalismo il “verde” trascolorò in “rosso” – Rossovivo,
quale era il titolo della rivista fondata nei primi anni ’70 da Dario Paccino,
di critica marxista all’ecologia dominante.
La
redazione della rivista Sapere diretta da Giulio Maccacaro
fu dal 1974 una fucina di elaborazione, riflessione, coordinamento che
coinvolse insieme quadri operai di fabbrica, tecnici, scienziati, studenti,
operatori della salute, ecc.. Per dare appena un’idea concreta di temi
ambientali trattati nella rivista (e praticati dai movimenti) ne elenco appena
alcuni che danno anche un segno dell’impostazione radicale e dell’attualità dei
temi (rinviando per maggiori dettagli al mio articolo citato all’inizio):
1974: la critica della
“rivoluzione verde”; Virginio Bettini sull’Ecologia Atlantica, cioè
controllata dalla NATO, legami fra ecologia e militari;
1975:
dossier “Ambiente e potere” (!); articolo di Barry Commoner “Le fabbriche del
veleno”;
1976:
dossier curato da Virginio Bettini su Gioia Tauro “Ecologia della Piana:
L’acciaio del sottosviluppo”; numero doppio novembre-dicembre “Seveso un
crimine di pace”;
1977:
W. Ganapini “Agricoltura industriale e ambiente”; M. Boato sul disastro di
Manfredonia e B. Terracini sulla diossina di Seveso;
1978:
energia nucleare, energie alternative, numero monografico “Il nucleare: una
scelta imposta”; “Energia: condizioni per l’alternativa”, solare, geotermia,
rifiuti, eolico, idroelettrico, agricoltura alternativa;
1979: dossier “Agricoltura,
Scienza e lotta di classe”;
1980: Legge Merli sui limiti delle
sostanze inquinanti negli scarichi delle acque.
Insomma, un
ambientalismo integrale e radicale, praticato nelle lotte, che ebbero un
culmine nel 1978 con le fondamentali conquiste della Riforma Sanitaria, della
194 e della Legge Basaglia. Indubbiamente un decennio fondamentale.
Poi
certo venne la sconfitta dei movimenti,
del sindacato di base (EUR), ma con tempi e cause diverse rispetto al preteso
tramonto precoce della Primavera Ecologica.
Ma
intanto erano sorti i grandi movimenti popolari contro i piani di sviluppo
dell’energia nucleare che negli anni ’80 portarono alla grande vittoria della
chiusura di questi programmi (referendum 1987). Un movimento che con la Crisi
degli Euromissili sconfinò nelle lotte per il disarmo nucleare (le
manifestazioni oceaniche del 1982-83, il primo accordo di disarmo Reagan-Gorbachev,
1987).
Attorno
al 1980 il manifesto inaugurò la pubblicazione di inserti di
quattro pagine dedicati a temi specifici denominati “La Talpa del giovedì”. Una
“Talpa” del 14 febbraio 1985 intitolata esplicitamente “L’ecologia politica” fu
incentrata proprio sui “Verdi”, con un articolo centrale di Rossana
Rossanda, e fra gli altri due contributi da Sergio
Bologna (sui verdi tedeschi) e del sottoscritto che iniziavo con
le parole inequivoche: «Il verde non è rosso», e infra «La produzione sta
cedendo il primato alla riproduzione sociale».
Senza
dubbio crisi ci fu, sconfitta ci fu, una indubbia frammentazione dei movimenti,
ma su una base a mio avviso diversa, con almeno altri due decenni di slancio e
di produzione di elaborazioni e di movimenti. La crisi climatica
non era ancora stata percepita con chiarezza, anche se è senz’altro
vero che molte elaborazioni l’avevano chiaramente prevista. Ma ricordo
nitidamente le tesi del Congresso di Democrazia Proletaria del 1987 basate sul
concetto dello “sviluppo autocentrato” dei territori, che anticipava molte
problematiche diventate poi di estrema attualità e importanza.
Una
cosa che sembra essersi perduta è la connessione fra ambiente e guerra: sia
Greta e i Fridays for
Future, che Extinction Rebellion hanno trascurato, se non ignorato, l’impatto delle
guerre, dei militari e degli armamenti sull’ambiente e le loro pesantissime
emissioni climalteranti (per
non citare le ambiguità sull’energia nucleare). Ma ancora nel 1991 conservo un
vivo ricordo delle esperienze delle Tende della Pace, che riunivano tutte e
tutti, dai cattolici ai comunisti, le donne, gli studenti; e nel 1999
l’opposizione alla guerra del Kossovo, nella quale si
denunciavano i brutali metodi di devastazione dell’ambiente. Era in qualche
modo l’onda lunga dei movimenti e delle lotte dei decenni precedenti.
Per
concludere questi appunti, considero che sia un aspetto della storia ancora da
approfondire e in sostanza da scrivere. Da anni lavoro per recuperare e
tramandare la memoria storica, perché un popolo che perde la memoria non ha una
bussola per il futuro, historia magistra.6.
Su una
conclusione mi trovo in completa sintonia con Cacciari: gli anni ’70, in parte
gli ’80, sono stati un periodo eccezionale, l’Italia era un paese completamente
diverso, gli italiani erano in gran parte erano sensibili e attivi, mossi da
sentimenti di solidarietà, impegno civile, rispetto per gli altri:
«I sentimenti di solidarietà,
giustizia, convivenza nonviolenta, fratellanza/sorellanza, rispetto di ogni
forma di vita o sono stati ammutoliti, o sono ridotti a retorica delle feste
comandate. La religione della crescita economica è alimentata dalla
competizione di tutti contro tutti. Tra le persone oltre che tra aree
geopolitiche».
Note
1. G. Nebbia,
La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, La Scuola di Pitagora,
Napoli 2015, p. 102. Anche G. Nebbia, “Scritti di storia dell’ambiente e
dell’ambientalismo, 1970-2013”, a cura di L. Piccioni, Quaderni di
Altronovecento, n. 4, 2014, p. 135.
2.
Recentemente ristampato e introdotto da Gennaro Avallone, Ombre Corte,
2021.
3. Ecologia e
lotta di classe. Una corrispondenza tra Giorgio Nebbia e Dario Paccino,
1971-1972, di Luigi Piccioni (a cura di): “Salvare le carte!”. Il completamento
del Fondo Giorgio e Gabriella Nebbia presso la Fondazione Luigi Micheletti, di
Alberto Berton.
4. Si vedano
le bellissime ricerche di Giulia Malavasi, il suo libro Manfredonia
Storia di una Catastrofe Continua, Jaca Book, 2018; molto incisivo il suo
articolo “Manfredonia: catastrofe continua, cittadinanza ritrovata e
rimozione”, Epidemiologia e Prevenzione, 2016; 40 (6):389-394.
5. Archivi
Fiom Cgil, Roma 9 febbraio 1973, “Unità, contratto, riforme,
Mezzogiorno”, http://archivio.fiom.cgil.it/net/manifestazioni/9_02_73.htm.
6. Ho
recentemente scritto insieme a Tiziano Cardosi un bilancio di prospettiva e
attualizzazione nell’anniversario della caduta del Muro di Berlino: “Ricorsi
storici: dalla cesura storica della Caduta del Muro, a quella della “prima
pandemia dell’Antropcene”. Qualche possibile ispirazione”, PeaceLink,
19 novembre 2021, https://www.peacelink.it/pace/a/48865.html.
I (presunti) limiti del capitalismo - Raúl Zibechi
Per molto tempo una parte dei marxisti ha sostenuto che il capitalismo ha
dei limiti strutturali ed economici, stabiliti in “leggi” che ne renderebbero
inevitabile l'(auto)distruzione. Quelle leggi sarebbero immanenti al sistema e in
relazione con aspetti centrali del funzionamento dell’economia, come quella
della caduta tendenziale del saggio del profitto, analizzata da Marx nel Capitale.
Questa tesi ha portato alcuni intellettuali a parlare del “crollo” del
sistema, sempre come conseguenza delle sue stesse contraddizioni.
Più di recente, non pochi pensatori hanno sostenuto che il capitalismo
ha dei “limiti ambientali” che lo porterebbero a distruggersi o quantomeno
a cambiare i suoi aspetti più predatori, quando in realtà ciò che ha dei limiti
è la vita stessa sul pianeta e, in particolare, quella della metà povera e
umiliata della sua popolazione.
Oggi sappiamo che il capitalismo non ha limiti. Nemmeno le
rivoluzioni sono state in grado di sradicare questo sistema perché, di volta in
volta, i rapporti sociali capitalistici si espandono all’interno delle società
post-rivoluzionarie e dentro lo Stato riemerge la classe borghese incaricata di
farli prosperare.
L’espropriazione dei mezzi di produzione e di scambio è stata, e continuerà
ad essere, un passo centrale nella distruzione del sistema, ma, a più di un
secolo dalla rivoluzione russa, sappiamo che è insufficiente, se non c’è il
controllo comunitario di quei mezzi e del potere politico a incaricarsi di
gestirli.
Sappiamo anche che l’azione collettiva organizzata (lotta di classe, di
genere e del colore della pelle, contro le oppressioni e gli oppressori) è
decisiva per distruggere il sistema, ma anche questa formulazione è parziale e
insufficiente, sebbene vera.
L’aggiornamento del pensiero sulla fine del capitalismo non può che andare
di pari passo con le resistenze e le costruzioni dei popoli, in modo molto
particolare degli zapatisti e dei curdi del Rojava, dei popoli originari di
vari territori della nostra America, ma anche delle popolazioni nere e
contadine, e in alcuni casi di ciò che facciamo nelle periferie urbane.
Le donne del Kongra Star, il movimento organizzato
delle donne della Federazione della Siria del Nord, si dedica in ogni quartiere
all’educazione popolare per pensare in modo libero e comunitario l’autonomia,
l’autogoverno e l’autodifesa delle donne. Foto tratta da Kongra Star Women’s movement
Alcuni punti sembrano centrali per superare questa sfida.
Il primo è che il capitalismo è un sistema globale, che abbraccia l’intero
pianeta e deve espandersi continuamente per non collassare. Come ci insegna
Fernand Braudel, la scala è stata importante nell’insediamento
del capitalismo, da qui l’importanza della conquista dell’America, perché ha
permesso a un sistema embrionale di spiegare le sue ali.
Le lotte e le resistenze locali sono importanti, possono perfino piegare il
capitalismo a quella scala, ma per porre fine al sistema è essenziale
un’alleanza/coordinamento con i movimenti di tutti i continenti. Da qui l’enorme
importanza della Gira por la Vida dell’EZLN in Europa.
Il secondo punto è che il sistema non viene distrutto una volta per sempre, come abbiamo
discusso durante il seminario intitolato El
pensamiento crítico frente a la Hidra capitalista, nel
maggio 2015. Ma qui c’è un aspetto che ci sfida profondamente: solo la
lotta costante e permanente può soffocare il capitalismo. Non lo si
taglia con un solo colpo, come le teste dell’Idra, ma in un altro modo.
A rigor di logica, dobbiamo dire che non sappiamo esattamente come
porre fine al capitalismo, perché non è mai stato fatto. Stiamo
intuendo, tuttavia, che le condizioni per la sua continuità e/o
rinascita debbano essere precisate, e sottoposte a uno stretto controllo,
non da parte di un partito o di uno Stato, ma da parte di comunità e
popoli organizzati.
Il terzo punto è che il capitalismo non può essere sconfitto se nello
stesso tempo non si costruiscono un altro mondo e altre relazioni sociali. Quel mondo altro o
nuovo non è un luogo di arrivo, ma un modo di vivere che nella sua quotidianità
impedisce la continuità del capitalismo. I modi di vivere, le relazioni
sociali, gli spazi che saremo capaci di creare, devono esistere in modo da
essere in lotta permanente contro il capitalismo.
Il quarto punto è che, finché esiste lo Stato, ci sarà la possibilità che
il capitalismo si espanda di nuovo. Contrariamente a quanto proclama
un certo pensiero, diciamo progressista o di sinistra, lo Stato non è uno
strumento neutrale. I poteri de abajo, che sono poteri non statali
e autonomi, nascono ed esistono per impedire l’espansione dei rapporti
capitalistici. Sono, quindi, poteri che derivano dalla lotta anticapitalista e
ad essa sono finalizzati.
Il nuovo mondo dopo il capitalismo, infine, non è un luogo di approdo, non
è un paradiso dove si pratica il buen vivir , ma uno spazio di
lotta in cui, probabilmente, noi, i popoli, le donne, le dissidenze e le
persone de abajo in generale, ci troveremo in un condizioni
migliori per continuare a costruire mondi diversi ed eterogenei.
Credo che qualora smettessimo di lottare e costruire il nuovo, il
capitalismo rinascerebbe, anche nel mondo altro. La storia del Vecchio Antonio
che dice che la lotta è come un cerchio, che inizia un giorno ma non
finisce mai, è di estrema attualità.
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