sabato 1 gennaio 2022

fermare la crescita

 

Cinquant’anni buttati - Paolo Cacciari


Quest’anno saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del Rapporto The Limits to Growth elaborato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology guidato da Donella e Dennis Meadows, commissionato dal Club di Roma (un “circolo di discussione” o, come diremmo ora, un think tank, finanziato da imprese e istituzioni pubbliche, guidato da Aurelio Peccei, un illuminato economista e amministratore delegato della Olivetti, formato da scienziati, uomini d’affari, attivisti dei diritti civili, alti funzionari internazionalii), pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo I limiti dello sviluppo. Il Rapporto conteneva una grande quantità di dati e grafici elaborati con avanzati programmi informatici per spiegare una cosa in realtà molto semplice – “abbastanza scontata”, come ebbe a dire in seguito Giorgio Nebbia in un libro intervista a Valter Giuliano (Non superare la soglia, edizioni Gruppo Abele, 2016) -: una crescita esponenziale della popolazione e dell’uso industriale delle risorse naturali avrebbe finito per compromettere gli equilibri ambientali e mettere in pericolo lo stesso sviluppo economico. Dimenticarsi della base materiale su cui poggia la tecnostruttura sociale conduce inevitabilmente ad una catastrofe ecologica.

L’allarme non era certo nuovo. Per rimanere nel secondo dopoguerra, già altri l’avevano lanciato ad incominciare dalla biologa Rachel Carson (con il suo meraviglioso racconto di un mondo avvelenato dai pesticidi e privato del canto degli uccelli; Primavera silenziosa, del 1962), dall’economista Kenneth Boulding (che fece sua l’efficace metafora del pianeta Terra come una navicella spaziale; The Economics of the Coming Spaceship Earth, del 1966), da Robert Kennedy (il suo celebre discorso di critica alla divinizzazione del Pil, “che misura tutto ad eccezione di ciò che davvero conta”, è del marzo del 1968), dal biologo Barry Commoner (il suo The Closing Circle: Nature, Man, and Technology  è del 1971, tradotto e commentato da Virginio Bettini per Garzanti), da Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della bioeconomia (il suo The Entropy Law and the Economic Process, è del 1971), dalle stesse Nazioni Unite che, sulla spinta di grandi movimenti di contestazione ecologica e a difesa dell’ambiente negli Stati Uniti, istituirono la giornata mondiale della Terra il 22 aprile (equinozio di primavera) nel 1970. Nel discorso alla Nazione dello stesso anno il presidente degli US, Richard Nixon, affermava: “La grande domanda degli anni Settanta è: ci arrenderemo a ciò che ci circonda, o faremo pace con la natura e cominceremo a riparare i danni che abbiamo arrecato alla nostra aria, alla nostra terra e alla nostra acqua? Riportare la natura al suo stato naturale è una causa comune a tutto il popolo di questo Pese” (citazione in P.P. Poggio e M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amur, Jaca Book, 2020).

Anche nel nostro “piccolo”, nei primi anni Settanta la nozione di ecologia si era affermata per merito di grandi personalità come Giorgio Nebbia e Laura Conti e associazioni come Wwf, Pro Natura, Italia Nostra. Nel 1970 la Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche promosse alla Fiera di Milano il convegno “L’uomo e l’ambiente” e l’anno dopo l’Istituto Gramsci organizzò alla scuola di partito del Pci, alle Frattocchie, il convegno “Uomo, natura, società” (novembre 1971). La stessa Chiesa conciliare si era spesa sulle questioni ambientali. In una lettera pubblica del 1971 papa Montini, Paolo VI, così si esprimeva: “Un’altra trasformazione si avverte, conseguenza tanto drammatica quanto inattesa dell’attività umana. L’uomo ne prende coscienza bruscamente: attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile” (Citazione tratta da G. Nebbia in Non superare la soglia).

Tutti i temi dell’intreccio ambiente/economia, natura/cultura, tecnoscienza/umanesimo, benessere psicofisico/crescita industriale erano già squadernati sul banco di studio della politica

Il 1972 segna il punto più alto dell’emergere della nuova cultura ecologista e della comprensione della questione ambientale con il primo grande summit delle Nazioni unite a Stoccolma, il 6 giugno, dal titolo: Unite Conference on Human Environment. Tutti i protagonisti della politica erano alla ricerca di un “eco-sviluppo” che riducesse le logiche dell’economia all’interno delle leggi naturali ecosistemiche che regolano i grandi cicli biologici della vita sul pianeta. Un passo che sembrava essere non solo desiderabile, ma anche alla portata delle possibilità tecno-scientifiche e delle ambizioni (come si direbbe oggi) dell’azione umana civilizzatrice. Tanto da far ritenere al filosofo e sociologo Edgar Morin, maestro del pensiero complesso, che l’umanità entrava nel “primo anno di una nuova era” grazie alla nascita di una “ecologia generalizzata, scienza delle interdipendenze, delle interazioni, delle interferenze tra sistemi eterogenei, scienza al di là delle discipline isolate, scienza realmente transdisciplinare” (E. Morin, L’anno I dell’era Ecologica, in Le Nouvel Observateur, 1972. Armando Editore, 2007). Oggi, con le parole di Bergoglio nella Ludato si’, useremo l’espressione: “ecologia integrale”. Morin non sarà il solo a confidare su un ravvedimento generalizzato e su una svolta radicale del “modello di sviluppo” post miracolo economico e post Trenta Gloriosi anni della ricostruzione. Giorgio Nebbia, padre dell’ambientalismo italiano amava ricordare quegli anni come l’“alba dell’ecologia” o la “primavera ecologica” (Vedi, di Giorgio Nebbia, Fatti, idee e movimenti dell’ambientalismo italiano negli ultimi vent’anni, in N.Greco, Il difficile governo dell’ambiente, Edistudio, Roma 1988).

Il 1973 è un anno davvero magico per la fondazione del pensiero ecologico. Arrivano in Italia, di Gregory Bateson, antropologo e psicologo britannico, Verso un’ecologia della mente; di Konrad Lorenz, zoologo ed etologo austriaco, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà; di Barry Commoner, ecologo statunitense, Il cerchio da chiudere; di Friedrich Schumacher, filosofo ed economista tedesco, Piccolo è bello; di Ivan Illich, filosofo, pedagogista austriaco, La convivialità: di Herman Daly, economista ecologico statunitense, Toward a Steady-State Economy, di Arne Naess, fondatore della Deep ecology e critico dell’utilitarismo antropocentrico, The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movements. In questo stesso anno viene firmato a Nyach, nello stato di New York, il Manifesto per una economia umana, con N. Georgescu-Roegen, K. Boulding, H. Daly e molti altri. Qualche anno dopo, nel 1979, James Lovelock formulava la sua ipotesi di Gaia pianeta vivente nel 1979 e Carolyn Merchant, nel 1980, scriveva La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, un testo di riferimento per l’ecofemminismo che fa discendere la critica al capitalismo da quella al patriarcato e all’androcentrismo. Da noi Giulio Maccacaro e Luigi Marra fondano Medicina democratica (1976), Enrico Berlinguer fa il discorso sull’“austerità” al teatro Eliseo nel 1977.

Da allora abbiamo rimasticato le stesse questioni in una interminabile sequenza di conferenze internazionali, protocolli, patti e accordi intergovernativi senza riuscire a spostare di una virgola l’incremento, anno dopo anno, di gas tossici e climalteranti emessi in atmosfera, di sostanze di sintesi non biodegradabili rilasciate nel suolo, nelle falde e nei mari, di materiali grezzi estratti da miniere, cave e pozzi, di foreste primarie distrutte, di chilometri quadrati di suolo impermeabilizzati, di specie animali e vegetali estinte, di epidemie da zonoosi a seguito della distruzione di habitat naturali. Il surriscaldamento globale è solo uno dei sintomi del collasso ecologico. Gli altri sono: la diminuzione dell’acqua potabile disponibile, la perdita di fertilità dei suoli, le polveri sottili in atmosfera, l’inquinamento chimico (vedi i 9 Planetary boundaries individuati da Johan Rockström,). Aggiungiamoci gli inquinamenti radioattivi, elettromagnetici, acustici, luminosi e, forse, la stessa diminuzione della capacità della fotosintesi clorofilliana della biomassa vegetale.

Il professore di fisica sperimentale dell’università di Ca’ Foscari e sostenitore di Extinction Rebellion, Francesco Gonella, ha elaborato una imbarazzante correlazione tra la curva della crescita del biossido di carbonio e le Conferenze delle Parti intergovernative dell’Onu sulla lotta ai cambiamenti climatici.


Com’è potuta accadere una rimozione così profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, oltre che sociali e morali del pensiero ecologista? Rispondere con sincerità a questa domanda è un passaggio indispensabile da compiere per chiunque desideri cercare una via di uscita alla degradazione della vita sulla Terra. Naomi Klein ha parlato di “dissonanza cognitiva”. Secondo il suo teorico, Leon Festinger, psicologo e sociologo statunitense, si deve intendere una dissociazione mentale tra la realtà e il proprio comportamento. Conosciamo razionalmente le conseguenze delle nostre azioni, ma non ne teniamo conto. Mentiamo a noi stessi pur di non mettere in discussione convinzioni secolari, abitudini e ciò che ci sembrano comodità. Più semplicemente, forse, la logica di funzionamento del sistema socioeconomico capitalista in cui siamo immersi mette in contrapposizione accesso al reddito e qualità dell’ambiente naturale; “la fine del mese e la fine del mondo” (per riprendere uno slogan polemico dei gilet gialli contro le tasse sui carburanti); “fame o fumo” (per ricordare già negli anni ’70 gli operai del Petrolchimico di Porto Marghera che accettavano condizioni di lavoro mortifere). Con il turbo-capitalismo neoliberista il ”rischio” personale è divento un valore enfatizzato e premiato dalla società individualizzata, come annotava Ulrich Beck, in La società del rischio. Verso una seconda modernità. Più semplicemente la nostra è la società dello “speriamo che me la cavo”. Ce ne freghiamo di ciò che accade agli altri e di chi verrà dopo di noi. I sentimenti di solidarietà, giustizia, convivenza nonviolenta, fratellanza/sorellanza, rispetto di ogni forma di vita o sono stati ammutoliti, o sono ridotti a retorica delle feste comandate. La religione della crescita economica è alimentata dalla competizione di tutti contro tutti. Tra le persone oltre che tra aree geopolitiche.

Cinquant’anni passati così dovrebbero essere sufficienti per convincerci a cambiare criteri di riferimento, immaginare cosmovisioni diverse, praticare relazioni di cura con gli altri e con la natura. È ciò che mi auguro avvenga nei prossimi cinquant’anni.


i Il Club di Roma è tutt’ora attivo. Il suo ultimo, interessantissimo rapporto si titola: 1.5-Degree Lifestyles: Towards A Fair Consumption Space for All. 2021.

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Conquiste che stiamo perdendo - Angelo Baracca


L’amara ricostruzione di Paolo Cacciari del patrimonio di elaborazione dagli anni ’60 – ’70 che sembra essersi perduto (Cinquant’anni buttati) è molto accurata e completa, ma dalla mia intensa esperienza nei movimenti a partire dalla contestazione studentesca e dall’Autunno Caldo (avevo trent’anni ed ero da poco laureato in Fisica) essa racconta solo una parte della storia: non è per un’astratta critica, poiché la ricostruzione di Cacciari è comunque molto importante, ma per un intento costruttivo e di completezza (per quanto possibile) della memoria storica che voglio brevemente discutere e ricostruire un’altra parte, che presumibilmente non sarà l’unica.

Cacciari discute gli aspetti che chiamerei, per capirci, di elaborazione intellettuale, di ricerca, le pubblicazioni che certo furono importanti per tutti, le iniziative istituzionali: rimane dalla mia esperienza attiva scoperto l’aspetto dei movimenti, delle lotte, ed anche delle conquiste importanti, aspetti che integrano in modo non marginale la ricostruzione, la tempistica, nonché le eredità e le prospettive.

Personalmente ho criticato esattamente un anno fa il concetto di “Primavera dell’Ecologia”, e in particolare l’affermazione del compianto Giorgio Nebbia che «[i]l 1973 fu l’ultimo anno della primavera dell’ecologia»1 (Baracca, «Dal ‘68 agli anni ‘70, una radice trascurata, di classe, dell’ambientalismo in Italia negli anni ‘70, e le sue valenze: il precoce ambientalismo “rosso”. Memorie dei movimenti e documenti», Altro900, dicembre 2020): quest’articolo, che sconfina anche negli anni ’80, è molto lungo e dettagliato e mi riferirò solo ai concetti essenziali che qui interessano.

Mi colpisce che Cacciari nella sua puntigliosa ricostruzione non citi Dario Paccino de L’Imbroglio Ecologico del 19722, un titolo che da solo dovrebbe sollevare qualche riserva sulla “armonia” di quella Primavera dell’Ecologia: Paccino era senza dubbio persona molto diversa da Nebbia per impostazione di fondo (come si può verificare anche dal carteggio fra di loro, conservato nell’archivio di Altro9003). Non è certo una considerazione del rispettivo valore, ma potrei dire che Paccino aveva individuato molto chiaramente e precocemente le insidie insite nei concetti e nell’impostazione dell’ecologia.

Quegli anni non furono solo la culla dell’ecologia, ma furono (sembra superfluo osservarlo) teatro di lotte di massa radicali che ebbero caratteristiche precipue:

§  coinvolsero tutti i soggetti sociali, dagli operai, agli studenti, alle donne, ai settori cattolici, agli scienziati e i tecnici, agli operatori di tutti i settori;

§  pur essendo i vari movimenti e settori attraversati da differenze profonde di concezioni e strategie politiche, quelle lotte coinvolsero tutti e tutte con un’impostazione radicale che puntava a una trasformazione profonda della struttura sociale e produttiva;

§  fin dall’Autunno Caldo furono trainanti le lotte operaie, che impressero una decisiva impronta di classe.

Il 1973, anno della crisi petrolifera, lungi dal chiudere una “primavera” segnò un deciso rilancio e una radicalizzazione delle lotte operaie, che trascinarono gli altri settori sociali. Dalle vertenze nelle fabbriche sui danni alla salute dei lavoratori causati dai cicli produttivi, le lotte operaie si estesero al territorio, investirono i problemi ambientali (1973, la crisi petrolifera e il problema energetico; 1976, i disastri di Seveso, di Manfredonia4 che vide successivamente un deciso protagonismo delle donne). Rimarrà nella storia l’esaltante manifestazione nazionale unitaria di 250.000 metalmeccanici a Roma5 (in pieno governo Andreotti di centrodestra), che rappresentò la spallata decisiva per il rinnovo contrattuale caratterizzato principalmente dalla conquista dell’inquadramento unico (operai-impiegati) e delle 150 ore, che aprivano agli operai la porta della cultura scevra da espliciti interessi professionali e produttivi.

Il movimento femminista portò nelle lotte una forte caratterizzazione, ad esempio per la conquista del diritto all’aborto. Le proteste contro la guerra al Vietnam produssero grandi manifestazioni con un carattere fortemente unitario e antimperialista: uno dei temi di discussione erano i sistemi di guerra tecnologica con i quali gli Stati Uniti aggredivano unitamente la popolazione e l’ambiente, come il famigerato Agente Orange, e la barriera elettrica per fermare i transiti dei Vietcong fra il Nord e il Sud del paese.

La trasversalità dei movimenti degli anni Settanta configurò un movimento complessivo che chiamerei un eco-gender-pacifismo di classe. Sul terreno dell’ambientalismo il “verde” trascolorò in “rosso” – Rossovivo, quale era il titolo della rivista fondata nei primi anni ’70 da Dario Paccino, di critica marxista all’ecologia dominante.

La redazione della rivista Sapere diretta da Giulio Maccacaro fu dal 1974 una fucina di elaborazione, riflessione, coordinamento che coinvolse insieme quadri operai di fabbrica, tecnici, scienziati, studenti, operatori della salute, ecc.. Per dare appena un’idea concreta di temi ambientali trattati nella rivista (e praticati dai movimenti) ne elenco appena alcuni che danno anche un segno dell’impostazione radicale e dell’attualità dei temi (rinviando per maggiori dettagli al mio articolo citato all’inizio):

 1974: la critica della “rivoluzione verde”; Virginio Bettini sull’Ecologia Atlantica, cioè controllata dalla NATO, legami fra ecologia e militari;

 1975: dossier “Ambiente e potere” (!); articolo di Barry Commoner “Le fabbriche del veleno”;

 1976: dossier curato da Virginio Bettini su Gioia Tauro “Ecologia della Piana: L’acciaio del sottosviluppo”; numero doppio novembre-dicembre “Seveso un crimine di pace”;

 1977: W. Ganapini “Agricoltura industriale e ambiente”; M. Boato sul disastro di Manfredonia e B. Terracini sulla diossina di Seveso;

 1978: energia nucleare, energie alternative, numero monografico “Il nucleare: una scelta imposta”; “Energia: condizioni per l’alternativa”, solare, geotermia, rifiuti, eolico, idroelettrico, agricoltura alternativa;

 1979: dossier “Agricoltura, Scienza e lotta di classe”;

 1980: Legge Merli sui limiti delle sostanze inquinanti negli scarichi delle acque.

Insomma, un ambientalismo integrale e radicale, praticato nelle lotte, che ebbero un culmine nel 1978 con le fondamentali conquiste della Riforma Sanitaria, della 194 e della Legge Basaglia. Indubbiamente un decennio fondamentale.

Poi certo venne la sconfitta dei movimenti, del sindacato di base (EUR), ma con tempi e cause diverse rispetto al preteso tramonto precoce della Primavera Ecologica.

Ma intanto erano sorti i grandi movimenti popolari contro i piani di sviluppo dell’energia nucleare che negli anni ’80 portarono alla grande vittoria della chiusura di questi programmi (referendum 1987). Un movimento che con la Crisi degli Euromissili sconfinò nelle lotte per il disarmo nucleare (le manifestazioni oceaniche del 1982-83, il primo accordo di disarmo Reagan-Gorbachev, 1987).

Attorno al 1980 il manifesto inaugurò la pubblicazione di inserti di quattro pagine dedicati a temi specifici denominati “La Talpa del giovedì”. Una “Talpa” del 14 febbraio 1985 intitolata esplicitamente “L’ecologia politica” fu incentrata proprio sui “Verdi”, con un articolo centrale di Rossana Rossanda, e fra gli altri due contributi da Sergio Bologna (sui verdi tedeschi) e del sottoscritto che iniziavo con le parole inequivoche: «Il verde non è rosso», e infra «La produzione sta cedendo il primato alla riproduzione sociale».

Senza dubbio crisi ci fu, sconfitta ci fu, una indubbia frammentazione dei movimenti, ma su una base a mio avviso diversa, con almeno altri due decenni di slancio e di produzione di elaborazioni e di movimenti. La crisi climatica non era ancora stata percepita con chiarezza, anche se è senz’altro vero che molte elaborazioni l’avevano chiaramente prevista. Ma ricordo nitidamente le tesi del Congresso di Democrazia Proletaria del 1987 basate sul concetto dello “sviluppo autocentrato” dei territori, che anticipava molte problematiche diventate poi di estrema attualità e importanza.

Una cosa che sembra essersi perduta è la connessione fra ambiente e guerra: sia Greta e i Fridays for Future, che Extinction Rebellion hanno trascurato, se non ignorato, l’impatto delle guerre, dei militari e degli armamenti sull’ambiente e le loro pesantissime emissioni climalteranti (per non citare le ambiguità sull’energia nucleare). Ma ancora nel 1991 conservo un vivo ricordo delle esperienze delle Tende della Pace, che riunivano tutte e tutti, dai cattolici ai comunisti, le donne, gli studenti; e nel 1999 l’opposizione alla guerra del Kossovo, nella quale si denunciavano i brutali metodi di devastazione dell’ambiente. Era in qualche modo l’onda lunga dei movimenti e delle lotte dei decenni precedenti.

Per concludere questi appunti, considero che sia un aspetto della storia ancora da approfondire e in sostanza da scrivere. Da anni lavoro per recuperare e tramandare la memoria storica, perché un popolo che perde la memoria non ha una bussola per il futuro, historia magistra.6.

Su una conclusione mi trovo in completa sintonia con Cacciari: gli anni ’70, in parte gli ’80, sono stati un periodo eccezionale, l’Italia era un paese completamente diverso, gli italiani erano in gran parte erano sensibili e attivi, mossi da sentimenti di solidarietà, impegno civile, rispetto per gli altri:

«I sentimenti di solidarietà, giustizia, convivenza nonviolenta, fratellanza/sorellanza, rispetto di ogni forma di vita o sono stati ammutoliti, o sono ridotti a retorica delle feste comandate. La religione della crescita economica è alimentata dalla competizione di tutti contro tutti. Tra le persone oltre che tra aree geopolitiche».


Note

1. G. Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, La Scuola di Pitagora, Napoli 2015, p. 102. Anche G. Nebbia, “Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo, 1970-2013”, a cura di L. Piccioni, Quaderni di Altronovecento, n. 4, 2014, p. 135.

2. Recentemente ristampato e introdotto da Gennaro Avallone, Ombre Corte, 2021.

3. Ecologia e lotta di classe. Una corrispondenza tra Giorgio Nebbia e Dario Paccino, 1971-1972, di Luigi Piccioni (a cura di): “Salvare le carte!”. Il completamento del Fondo Giorgio e Gabriella Nebbia presso la Fondazione Luigi Micheletti, di Alberto Berton.

4. Si vedano le bellissime ricerche di Giulia Malavasi, il suo libro Manfredonia Storia di una Catastrofe Continua, Jaca Book, 2018; molto incisivo il suo articolo “Manfredonia: catastrofe continua, cittadinanza ritrovata e rimozione”, Epidemiologia e Prevenzione, 2016; 40 (6):389-394.

5. Archivi Fiom Cgil, Roma 9 febbraio 1973, “Unità, contratto, riforme, Mezzogiorno”, http://archivio.fiom.cgil.it/net/manifestazioni/9_02_73.htm.

6. Ho recentemente scritto insieme a Tiziano Cardosi un bilancio di prospettiva e attualizzazione nell’anniversario della caduta del Muro di Berlino: “Ricorsi storici: dalla cesura storica della Caduta del Muro, a quella della “prima pandemia dell’Antropcene”. Qualche possibile ispirazione”, PeaceLink, 19 novembre 2021, https://www.peacelink.it/pace/a/48865.html.

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I (presunti) limiti del capitalismo - Raúl Zibechi

Per molto tempo una parte dei marxisti ha sostenuto che il capitalismo ha dei limiti strutturali ed economici, stabiliti in “leggi” che ne renderebbero inevitabile l'(auto)distruzione. Quelle leggi sarebbero immanenti al sistema e in relazione con aspetti centrali del funzionamento dell’economia, come quella della caduta tendenziale del saggio del profitto, analizzata da Marx nel Capitale.

Questa tesi ha portato alcuni intellettuali a parlare del “crollo” del sistema, sempre come conseguenza delle sue stesse contraddizioni.

Più di recente, non pochi pensatori hanno sostenuto che il capitalismo ha dei “limiti ambientali” che lo porterebbero a distruggersi o quantomeno a cambiare i suoi aspetti più predatori, quando in realtà ciò che ha dei limiti è la vita stessa sul pianeta e, in particolare, quella della metà povera e umiliata della sua popolazione.

Oggi sappiamo che il capitalismo non ha limiti. Nemmeno le rivoluzioni sono state in grado di sradicare questo sistema perché, di volta in volta, i rapporti sociali capitalistici si espandono all’interno delle società post-rivoluzionarie e dentro lo Stato riemerge la classe borghese incaricata di farli prosperare.

L’espropriazione dei mezzi di produzione e di scambio è stata, e continuerà ad essere, un passo centrale nella distruzione del sistema, ma, a più di un secolo dalla rivoluzione russa, sappiamo che è insufficiente, se non c’è il controllo comunitario di quei mezzi e del potere politico a incaricarsi di gestirli.

Sappiamo anche che l’azione collettiva organizzata (lotta di classe, di genere e del colore della pelle, contro le oppressioni e gli oppressori) è decisiva per distruggere il sistema, ma anche questa formulazione è parziale e insufficiente, sebbene vera.

L’aggiornamento del pensiero sulla fine del capitalismo non può che andare di pari passo con le resistenze e le costruzioni dei popoli, in modo molto particolare degli zapatisti e dei curdi del Rojava, dei popoli originari di vari territori della nostra America, ma anche delle popolazioni nere e contadine, e in alcuni casi di ciò che facciamo nelle periferie urbane.

Le donne del Kongra Star, il movimento organizzato delle donne della Federazione della Siria del Nord, si dedica in ogni quartiere all’educazione popolare per pensare in modo libero e comunitario l’autonomia, l’autogoverno e l’autodifesa delle donne. Foto tratta da Kongra Star Women’s movement

Alcuni punti sembrano centrali per superare questa sfida.

Il primo è che il capitalismo è un sistema globale, che abbraccia l’intero pianeta e deve espandersi continuamente per non collassare. Come ci insegna Fernand Braudel, la scala è stata importante nell’insediamento del capitalismo, da qui l’importanza della conquista dell’America, perché ha permesso a un sistema embrionale di spiegare le sue ali.

Le lotte e le resistenze locali sono importanti, possono perfino piegare il capitalismo a quella scala, ma per porre fine al sistema è essenziale un’alleanza/coordinamento con i movimenti di tutti i continenti. Da qui l’enorme importanza della Gira por la Vida dell’EZLN in Europa.

Il secondo punto è che il sistema non viene distrutto una volta per sempre, come abbiamo discusso durante il seminario intitolato El pensamiento crítico frente a la Hidra capitalista, nel maggio 2015. Ma qui c’è un aspetto che ci sfida profondamente: solo la lotta costante e permanente può soffocare il capitalismoNon lo si taglia con un solo colpo, come le teste dell’Idra, ma in un altro modo.

A rigor di logica, dobbiamo dire che non sappiamo esattamente come porre fine al capitalismo, perché non è mai stato fatto. Stiamo intuendo, tuttavia, che le condizioni per la sua continuità e/o rinascita debbano essere precisate, e sottoposte a uno stretto controllo, non da parte di un partito o di uno Stato, ma da parte di comunità e popoli organizzati.

Il terzo punto è che il capitalismo non può essere sconfitto se nello stesso tempo non si costruiscono un altro mondo e altre relazioni sociali. Quel mondo altro o nuovo non è un luogo di arrivo, ma un modo di vivere che nella sua quotidianità impedisce la continuità del capitalismo. I modi di vivere, le relazioni sociali, gli spazi che saremo capaci di creare, devono esistere in modo da essere in lotta permanente contro il capitalismo.

Il quarto punto è che, finché esiste lo Stato, ci sarà la possibilità che il capitalismo si espanda di nuovo. Contrariamente a quanto proclama un certo pensiero, diciamo progressista o di sinistra, lo Stato non è uno strumento neutrale. I poteri de abajo, che sono poteri non statali e autonomi, nascono ed esistono per impedire l’espansione dei rapporti capitalistici. Sono, quindi, poteri che derivano dalla lotta anticapitalista e ad essa sono finalizzati.

 

Il nuovo mondo dopo il capitalismo, infine, non è un luogo di approdo, non è un paradiso dove si pratica il buen vivir , ma uno spazio di lotta in cui, probabilmente, noi, i popoli, le donne, le dissidenze e le persone de abajo in generale, ci troveremo in un condizioni migliori per continuare a costruire mondi diversi ed eterogenei.

Credo che qualora smettessimo di lottare e costruire il nuovo, il capitalismo rinascerebbe, anche nel mondo altro. La storia del Vecchio Antonio che dice che la lotta è come un cerchio, che inizia un giorno ma non finisce mai, è di estrema attualità.

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