Insegnanti o
promotori? È una delle molte domande che si pongono a chi sia uscito dalla
scuola con la maturità in tasca trent’anni fa e ci rientri oggi come docente.
Allora,
poniamo che la preside, per essere più esatti la dirigente scolastica di un
istituto professionale di una cittadina di provincia, inviti con una circolare
i docenti a promuovere le attività di quella scuola tramite i loro canali
social. La dirigente in questione è prodiga di circolari, ne emana diverse ogni
giorno su argomenti diversi, ma questa in particolare richiama l’attenzione:
Si invitano
i docenti e tutto il personale a visualizzare, sostenere e condividere i post
della nostra scuola su Facebook ed Instagram al fine di dare la massima visibilità
a tutte le attività e ai progetti in cui ci impegnamo quotidianamente
firmato: Il
Dirigente Scolastico
Chiuderanno
un occhio i puristi sulla coniugazione dell’ultimo verbo, del resto la stessa
Treccani ci informa che “a differenza delle grammatiche tradizionali, le quali
prediligevano il mantenimento, nella grafia, della i morfologica,
le grammatiche contemporanee sono tolleranti e ammettono entrambe le
soluzioni: impegniamo/impegnamo”. E un occhio lo chiuderanno
anche gli appassionati di linguaggio di genere: il dirigente è, nella realtà
del caso in esame, la dirigente. Ma a parte questo io credo
che gli occhi vadano tenuti bene aperti. Una circolare come quella che ho
riportato pone una questione di fondo: in quale direzione sta mutando il ruolo
dell’insegnante?
Non è un
argomento nuovo, se ne è parlato, se ne parla e si continuerà a parlare di
cos’è un insegnante in relazione a una grande quantità di argomenti di
importanza ovviamente cruciale, dalle competenze all’inclusione. Allora: tutor,
regista, facilitatore, mediatore… Non ce ne è per tutti i gusti, ma quasi. E
oggi possiamo aggiungere: promotore. Di che cosa? Di riflessioni sulla
necessità di rendere la scuola inclusiva nei fatti oltre che nelle parole (mi
riferisco in particolare alla secondaria di secondo grado: istituti e licei)?
di ripensare anche gli spazi fisici, architettonici, dell’insegnamento e
dell’apprendimento? Di ragionare sul rapporto fra il paradigma medico e
clinico-terapeutico, per dirla con Alain Goussot, e quello specificamente
didattico? No. L’insegnante ha da promuovere la visibilità della scuola.
Credo che
l’invito alla condivisione su canali social privati formulato in quella
circolare esprima la direzione verso cui la scuola è da tempo avviata. Per
fortuna o purtroppo? Non è il caso di aprire qui una querelle des anciennes et
des modernes, ma io chiedo: è davvero necessario (per non dire: opportuno) che
i singoli docenti privatamente visualizzino, sostengano e condividano? Non
esistono già, per questo scopo, i siti istituzionali delle scuole? C’è Scuola
in chiaro, per esempio, un portale pubblico disponibile ventiquattro ore su
ventiquattro tutti i giorni nato nel 2011 per fornire alla collettività tutte
le informazioni disponibili sulle scuole italiane di ogni ordine e grado. Lo
stesso ministero dell’Istruzione lo definisce uno “strumento utile, soprattutto
per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi
nella scelta della scuola e del percorso di studi dei propri figli”. (E i
figli? Sono più o meno sollevati dall’onere della scelta di qualcosa che, pure,
li riguarda molto direttamente?)
Aggiungiamo
che lo stesso ministero dell’Istruzione utilizza i canali social per informare
i cittadini e le cittadine circa le proprie attività. Facebook, Twitter,
Instagram, Telegram, Youtube, Slideshare, Flickr… Insomma, per quello che
riguarda la scuola – come per molto altro: quasi tutto – la comunicazione è
abbondante. Perché allora sollecitare i docenti a contribuirvi ulteriormente in
forma privata? Aggravando così il problema – perché io credo che sia un
problema – dell’intreccio tra la dimensione pubblica, in cui gli insegnanti
(come molti altri lavoratori) svolgono la loro attività, e la dimensione
privata, ormai resa irrisoria dalle varie chat di scuola e dipartimento in
funzione a ogni ora del giorno fino a sera inoltrata, domeniche e festivi
compresi. Si potrà obiettare che la circolare citata non contiene un obbligo, e
ci mancherebbe; ma l’invito comunque arriva dal vertice ed è formulato
attraverso uno strumento di comunicazione ufficiale.
Ora, io non
so se anche altri dirigenti scolastici abbiano rivolto ai docenti delle loro
scuole un invito simile a quello riportato all’inizio o se invece si tratti di
un unicum. D’altra parte c’è sempre una prima volta; e comunque la questione si
pone, va posta, nel tempo della scuola 2.0. Gli insegnanti, per esempio, che
cosa ne pensano? E il ministro? Può darsi che altri non ci vedano nulla di
discutibile. Può darsi addirittura che giudichino positiva, e costruttiva, una
sollecitazione come questa: la scuola non deve forse posizionarsi tra i diversi
soggetti, pubblici e privati, profit e no profit, che operano sul territorio?
Marketing sociale non è mica una bestemmia! E poi, quando c’è qualcosa di buono
da comunicare, da condividere, perché tenerselo per sé?
Io invece
vedo, in una richiesta del genere, una frammistione dei ruoli, dei tempi, degli
spazi, già parecchio compromessi dagli adattamenti della didattica alle
distanze che la pandemia ha imposto. E poi l’insegnante è già, o quanto meno ci
si aspetta che sia, un facilitatore, regista, mediatore, all’occorrenza custode
(la culpa in vigilando gli pende sul capo al punto che alcuni
– quanti? – si attrezzano dotandosi di un’assicurazione privata). I suoi
compiti sconfinano nelle competenze che spetterebbero ad altri: lo psicologo,
lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, l’animatore (rianimatore, anche: di
una presenza vitale, a volte, di interesse, di curiosità…). E adesso c’è anche
questo, il compito di promuovere, diffondere, pubblicizzare. Quando? Nel
proprio tempo libero, attraverso i propri canali. E chi non avesse un account
Facebook o Twitter o non volesse usarlo per finalità che non siano quelle
strettamente private? È ancora possibile individuare un confine tra
spazio/tempo pubblico e privato? Ed è lecito pretendere che venga rispettato?
Il mondo
deve conoscere i progetti ai quali ogni giorno lavoriamo, sostiene la
dirigente. Il mondo deve sapere (un verbo, peraltro, che a scuola ha perso
smalto e quote a tutto vantaggio del fare) e la scuola, ogni scuola, ha da
sopravvivere. Ogni leader dell’apprendimento (smagliante definizione di quello
che una volta si chiamava preside) deve farsi carico e provvedere alla buona
salute dell’azienda che dirige, predisporre un’offerta formativa e progettare
interventi adeguati ai bisogni del territorio, perché “l’autonomia scolastica
consegna alle scuole un ruolo di interfaccia con il territorio dal quale
proviene normalmente il suo bacino di utenza”… Il rapporto fra domanda e
offerta segue leggi cui anche la scuola deve adattarsi, no? Resilienza è ormai
un’altra delle parole passepartout della “buona scuola”. Che cosa c’è di male?
Non è forse l’adattamento un sintomo di intelligenza e, soprattutto, l’unico
modo che abbiamo, a quanto pare, per sopravvivere?
La scuola
che si adatta al territorio, dunque. Il futuro che si disegna sulle esigenze
del presente. L’uovo oggi anziché la gallina domani. Sperando che almeno sia
fresco.
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