Distrarre il popolo è stato uno dei più sofisticati sistemi
di sottomissione nei regimi totalitari. Ma nella società neoliberale siamo
davvero certi che non esistano più forme di distrazione? Distrarre è stata
una tecnica del totalitarismo, ma è propria anche del capitalismo, la prigione
dorata delle distrazioni; l’iperrealtà di baudrillardiana memoria.
La
presenza di attività psichica, il fatto di non avere un encefalogramma piatto,
non significa pensare. Pensare, in senso generale,
significa condurre i propri pensieri, coordinare un ragionamento,
produrre concetti logicamente ordinati e corretti. La distrazione consiste
nell’eliminazione del pensiero, nell’atrofizzare la capacità di coordinare un
pensiero attivo. La distrazione è far diventare il pensiero
qualcosa di passivo, bombardare il cervello di stimoli e rendere l’uomo
bisognoso di essere guidato passivamente. Il modo più semplice per rendere
succube un essere umano all’autorità è proprio il poter mettere le mani sul suo
pensiero. Come affermò il filosofo italiano Remo Bodei «Senza che
lo spirito critico venisse soffocato, altri agenti iniziavano allora, nel bene
e nel male, a plasmare diversamente e con maggiore efficacia il senso comune, a
orientare le coscienze e a colonizzare l’immaginario.» (R.
Bodei, La civetta e la talpa-Sistema ed epoca in Hegel). Non è un
caso, infatti, che negli ultimi anni siano nate aziende private (tra cui la più
nota Neuralink del CEO Elon Musk) che vorrebbero riuscire a
connettere il cervello umano ad un computer ed è facilmente immaginabile che
cosa potrebbe comportare un potere del genere nelle mani di un’azienda.
La
distrazione è il mantenere l’uomo nello stato di minorità di
cui parlava il filosofo Immanuel Kant in Risposta alla domanda che
cos’è l’illuminismo? La distrazione si costituisce di tutti quei
meccanismi messi in atto dalla classe dominante, per distogliere
l’attenzione della classe subalterna dalle cause della sua indigenza. I
meccanismi di distrazione sono assai diffusi nella società industriale. Si
potrebbe scrivere un’intera biblioteca su questa questione. Ciò che interessa,
in questo articolo, però, è spiegare perché la società
capitalistica, apparentemente così libertaria, in realtà, sia una società che
non lascia nessuno spazio alla critica. In altre parole, il
capitalismo concede la critica solo, nella misura in cui, questa non mette in
discussione la sua esistenza. Per far sì che la sua proliferazione non sia
minata, il capitalismo non si serve di violenza fisica o dell’intimidazione, ma
della soppressione del pensiero attraverso la distrazione.
L’uomo
distratto è quello che ha bisogno di essere condotto da un altro, di qualcuno
che svolga l’attività del pensare al posto suo. Il dittatore ha
bisogno di persone inabili all’esercizio del pensiero critico, perché se il
popolo pensa si rende conto del suo potere e il dittatore sarà presto deposto.
Nel totalitarismo le cose funzionano così, ma nella società di
mercato le cose non sono così diverse. Il filosofo italiano
Augusto Del Noce affermava che «[d]opo il fascismo nazionalista,
dopo quello asservito alla Germania, un terzo fascismo asservito al mondo
angloamericano o al capitalismo di quei paesi. » (N. Bobbio, A.
Del Noce, Centrismo, vocazione o condanna?) Del Noce intende dire
che la democratizzazione che l’Italia avrebbe voluto raggiungere, dopo il
crollo del totalitarismo fascista, non sia stata raggiunta, perché il
capitalismo americanista ha prodotto un assetto socio-politico in cui la
democrazia è stata soffocata, o quantomeno non totalmente realizzata, ancora una
volta. In un libro di recente pubblicazione, il filosofo italiano Massimo
Cacciari ha scritto:
«Il
capitalismo contemporaneo, nella competizione tra le diverse aree in cui
manifesta il proprio dominio, ha bisogno di Impero. Imperare: comando
effettuale, presente, e insieme indicazione-promessa. Il Politico non è il
passato del capitalismo, può esserne, anzi, il futuro – ma soltanto nella forma
dell’Impero e del polemos tra spazi imperiali. » (M.
Cacciari, Il lavoro dello spirito)
Ecco
messa in evidenza la necessità intrinseca al capitalismo, il quale, non ha
portato all’emancipazione dell’uomo dopo il crollo dei totalitarismi, ma anzi
l’ha posto sotto un nuovo giogo: la totale contrattualizzazione
dell’individuo.
La
società neoliberale, quindi, non è riuscita nel suo intento di totale
emancipazione dell’uomo. Così come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese non
riuscirono a liberare completamente l’uomo dal feudalesimo, il
neoliberalismo non è riuscito a liberare l’uomo dal totalitarismo. Ma cosa
rende il capitalismo un fascismo? Non è forse il capitalismo il
miglior sistema economico possibile? Non è forse nel capitalismo che abbiamo la
massima libertà individuale? Non è forse nel capitalismo che lo Stato
totalitario, di destra e di sinistra, è stato spazzato via per lasciare il
posto all’individuo libero? Nel mio articolo Politica e
rappresentanza, ho spiegato come i sistemi politici
liberaldemocratici contemporanei siano solo formalmente “liberali” e
“democratici”. Il capitalismo è sempre legato alla plutocrazia:
sono le élite, sono le corporazioni, sono i grandi imprenditori che
detengono l’effettivo potere politico. Le masse popolari, quando
va bene, hanno solo la libertà di opinione e il diritto di voto.
Nella
società di mercato, la distrazione ha la funzione di mantenere questa stabilità
di garantire l’autorità politica ai più ricchi e a tenere assopiti i ceti
sociali più poveri. Distrarre le masse ha una funzione di
narcotico politico, distogliere lo sguardo dai problemi reali e stordire con
il divertissemant pascaliano politicamente approfondito.
Avere una popolazione assopita e narcotizzata è uno strumento efficace per
evitare contestazioni, può essere molto più efficace dell’olio di ricino; del
manganello e del confino. Senza dover alzare un dito è possibile ipnotizzare la
popolazione, renderla incapace di pensiero critico e far si che questa si lasci
guidare da altri. Ciò appare con grande evidenza quando
lavoratori; immigrati; disoccupati; omosessuali; donne; disabili; giovani e
così via. arrivano a difendere personalità politiche e manovre economiche che,
obbiettivamente, vanno contro i loro interessi facendoli rimanere in uno stato
d’indigenza sociale. Questo è frutto di distrazione. Nel Quaderno
dal carcere n.12, il filosofo italiano Antonio Gramsci formulò un’analisi
molto acuta di questi meccanismi:
«
Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere la capacità
di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo
di servizi, fino all’organismo statale, per la necessità di creare le
condizioni più favorevoli all’espansione della propria classe; o deve possedere
la capacità di scegliere i “commessi” (impiegati specializzati) cui affidare
questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’azienda. » (A.
Gramsci, Quaderni dal carcere)
Ora,
se assumiamo che la classe sociale con maggiore potere politico cerca di
mantenerlo e di espanderlo, dobbiamo domandarci: non è forse molto
conveniente convincere che alimentando gli interessi della classe sociale più
abbiente, si faranno anche gli interessi della classe sociale più
indigente? Questa è proprio quell’egemonia culturale di cui
Gramsci ha approfonditamente parlato: l’élite dei più abbienti che dirige
culturalmente (intellettualmente e moralmente), attraverso televisione,
giornali e così via, i più svantaggiati in modo da mantenere la loro condizione
di privilegio.
La
distrazione rientra precisamente nel paradigma di quest’egemonia culturale,
quel fenomeno mediatico che oggi va sotto il nome di trash non
è altro che questo: meccanismi capaci d’indebolire il pensiero e permettere a
chi è in una condizione privilegiata di mantenerla. I prodotti
dell’industria mediatica non sono mai neutrali, anche quando sembrano
tali, rispetto alla situazione sociale e politica vigente. Essi propongono una
narrazione, che tutti devono imparare a condividere, nascondendola dietro ad un
velo di neutralità.
Quello
che possiamo chiamare “rilassamento mentale” dopo una faticosa giornata
lavorativa, alienante e frustrante, è esattamente quel meccanismo che fa sì
che, chi versa in condizioni d’indigenza, non metta mai in discussione
l’irrevocabilità del sistema che lo rende miserabile. I lavoratori, quindi,
sono costretti alla macelleria sociale e lavorativa. Essi sono sfiancati nei
luoghi di lavoro e, quando la giornata giunge al termine, l’unica via di fuga è
“l’intontimento” per avere qualche ora di sollievo e tregua dalla miseria e
dalla sofferenza. Questa è la conseguenza dell’uomo disumanizzato nel
capitalismo, come ha sostenuto Karl Marx:
«
La produzione produce l’uomo non soltanto come merce, la merce umana, l’uomo con
il destino di merce, ma lo produce, conformemente a questo destino, come un
essere tanto spiritualmente quanto fisicamente disumanizzato. Immoralità,
mostruosità, ebetismo dei lavoratori e dei capitalisti. » (K.
Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844)
Come possiamo
notare da quest’affermazione, neppure i capitalisti sfuggono alle grinfie della
macchina del mercato. Si tenga presente questa considerazione, perché sarà
utile in seguito.
Sono
ancora troppo pochi coloro che si rendono conto di questi meccanismi messi in
atto dal capitalismo, quando vengono messi nero su bianco, probabilmente, molti
si diranno d’accordo. Tuttavia, nella vita concreta, le cose sono assai diverse
e raramente si prende atto di queste dinamiche nella quotidianità. Nel suo
scritto Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale, la filosofa francese Simone Weil scrive parole molto
significative:
«
Così, in tutti gli ambiti il pensiero, appannaggio dell’individuo, è
subordinato a enormi meccanismi che cristallizzano la vita collettiva, fino al
punto di aver quasi perduto il senso di ciò che è il pensiero autentico. Gli
sforzi, le pene, le ingegnosità degli esseri di carne ed ossa che il tempo
conduce in ondate successive alla vita sociale hanno valore sociale ed
efficacia alla sola condizione di cristallizzarsi a loro volta in questi grandi
meccanismi. » (S. Weil, Riflessioni sulle cause della
libertà e dell’oppressione sociale)
I
lavoratori e gli indigenti non riescono neppure a rendersi conto del fatto che
la situazione attuale non sia irrevocabile, inesorabile e necessaria, ma che
sia semplicemente un costrutto umano. Le società cambiano e non
sono mai uguali, non vi è nulla di statico e inesorabile in un modello sociale.
Il sistema capitalistico non fa altro che nascondere abilmente la verità del
cambiamento e si propone come l’unica possibilità. Come ha sostenuto il
filosofo inglese Mark Fisher: « la sensazione diffusa che non solo
il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma
che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa coerente » (M.
Fisher, Realismo capitalista)
Oggi
ci ritroviamo in un periodo di elevato decadimento della civiltà, il quale
viene goffamente tenuto nascosto dai detentori dell’egemonia culturale
attraverso la distrazione. La convinzione generale è l’idea che si debba
lasciare tutto così com’è e distrarsi dalla miseria, miseria che ci
accompagnerà sino a quando esaleremo il nostro ultimo respiro.
L’opulenza
della società contemporanea, come disse un certo Paolo Villaggio, non è il
paradiso che era stato promesso dal consumismo e dal boom economico, ma è
l’inferno che porta al logoramento e all’abbruttimento dell’uomo. L’uomo
ridotto alla miseria, quindi, non cercherà di migliorare la sua condizione, ma
tenterà di dimenticare la sua miseria, attraverso i prodotti dell’industria
mediatica che, servendosi di semplici schermi e stimoli
sensoriali vari, proiettano un’iperrealtà che distoglie dalle reali sfide che
la nostra epoca storica ci pone dinnanzi. Nessuno pensa al decadimento della
politica, al regresso e al progressivo imbarbarimento dell’uomo,
all’inesorabile declino economico, alla crisi climatica, alla crescente
povertà. Il mondo brucia davanti ai nostri occhi, ma l’uomo, nella società di
mercato, preferisce voltare lo sguardo dall’altra parte. L’uomo contemporaneo
si trova nella condizione del protagonista del mito della caverna di Platone.
Questa volta, però, dopo esser uscito alla luce del sole, sente il peso
eccessivo della visione e, invece di ritornare nella caverna a liberare i suoi
simili, vi ritorna per rimanervi lui stesso e non essere costretto a sopportare
il peso della realtà. Come afferma la Weil:
«
La verità è che […] la schiavitù avvilisce l’uomo fino al punto di farsi amare
dall’uomo stesso. » (S. Weil, Riflessioni sulle cause
della libertà e dell’oppressione sociale)
L’illusione
diventa preferibile alla realtà, il rifugio nella fiction diventa, per l’uomo
contemporaneo, rassicurante e preferibile al gravame del mondo reale. L’elemento
comico, e contemporaneamente tragico, di tutto quello che è stato detto in
queste righe è che da questa enorme distrazione per mantenere la narrazione
della pseudo-efficienza, della pseudo-stabilità, dello pseudo-benessere e dei
presunti rischi che questi correrebbero, non sono esenti neppure coloro che si
trovano in una posizione sociale più favorevole.
L’apparato
tecnico del mantenimento dello status quo confluisce
nell’iperrealtà, creata per mantenere determinati privilegi immutati. Tuttavia,
essa finisce per ingannare anche i suoi stessi ideatori, i quali devono
sottostare ai parametri da loro predisposti. I produttori dell’iperrealtà,
infatti, sono succubi di una frustrazione causata dal dover mantenere gli
standard che la macchina, per la quale essi combattono, impone di mantenere e
si devono costantemente difendere dalle minacce di una messa in discussione
della sua irrevocabilità.
Ma
allora per quale ragione nemmeno chi si trova in una situazione privilegiata
nella società, se è davvero così infelice, non prova anch’egli a cambiare le
cose? Come ha spiegato anche Simone Weil, la macchina è diventata
così intricata da essere troppo perfino per gli uomini (siano essi oppressori o
oppressi). Tuttavia, esiste anche un’altra risposta reperibile in
una celebre metafora dei filosofi tedeschi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno
nella Dialettica dell’illuminismo:
«
Egli [Ulisse] si china al canto del piacere, e lo sventa, così come la morte.
L'ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nessun altro. Solo ha
disposto le cose in modo che, pur caduto, non cada in loro potere. Con tutta la
violenza del suo desiderio, che riflette quella delle creature semidivine, egli
non può raggiungerle, poiché i compagni che remano, con la cera nelle orecchie,
non sono sordi solo alle Sirene, ma anche al grido disperato del loro capitano.
» (M. Horkheimer e T. Adorno, Dialettica
dell’illuminismo)
Ulisse,
come i capitalisti, predispone l’organizzazione sociale, la nave con i marinai,
in suo favore. Così che egli possa bearsi dei piaceri, mentre tutta la macchina
sociale è organizzata in funzione di questo privilegio. Presto, però, il
privilegiato si rende conto che della macchina fa parte anche lui e subisce la
miseria necessaria a garantire il mantenimento del sistema. Egli, però, proprio
in virtù di questo privilegio che riesce a compensare la miseria, la
possibilità di detenere il potere, la ricchezza e il controllo sociale, fa di
tutto per non far vacillare la situazione così come disposta. Ecco la
tragicommedia della società capitalista.
La
domanda che il lettore si porrà dopo tutto questo discorso, sarà
sicuramente quale possa essere la via d’uscita da
questo circolo vizioso che la macchina capitalistica ha prodotto. Per motivi di
spazio, non è possibile qui fornire una risposta sufficientemente
esaustiva. Ciò su cui, però, è importante porre l’attenzione è il
destare il pensiero dalla distrazione prodotta dall’egemonia culturale che,
come la cera nelle orecchie dei marinai, è d’ostacolo alla visualizzazione
della situazione concreta in cui viviamo. Rendere l’essere umano
capace di visualizzare l’abbruttimento progressivo del suo essere, togliendo il
velo di Maya che è l’iperrealtà, è il primo passo fondamentale, quantomeno per
rendersi conto del mondo in cui si vive. Come affermò il filosofo sloveno
Slavoj Žižek: Marx disse che la filosofia aveva da sempre contemplato il mondo
e ora si trattava di cambiarlo. Tuttavia, noi, forse, abbiamo con troppa
velocità voluto cambiare il mondo e ci siamo dimenticati d’interpretarlo. Ad
ogni modo, possiamo offrire una suggestione seguendo questo spunto fornito da
Fisher:
«
La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità
enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che
perfino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed
economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi. » (M.
Fisher, Realismo capitalista)
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