Alla velocità della luce siamo arrivati a una sorta di ground zero. La
decisione del governo di trasformare l’intero Paese in un’unica, grande «zona
rossa» – di arrestare così la vita sociale ed economica per salvare la vita
biologica – ne è l’emblema.
Nell’arco di meno di una settimana il mondo consueto in cui vivevamo si è
rovesciato, e siamo regrediti, d’un balzo, a un grado zero non solo
dell’attività – dei movimenti, del lavoro, della produttività – ma della
relazionalità. E anche, vogliamo dirlo? della civiltà. È quanto accade quando
repentinamente la politica si rivela come bio-politica. E più che le regole
umanizzate della Polis valgono quelle elementari della sopravvivenza, del Bios.
IL FATTO CHE il provvedimento preso appaia al tempo stesso terribile e ragionevole
– un ossimoro – ci dice quanto a fondo in effetti il male sia arrivato a
toccarci «nell’osso e nella carne» (per usare le parole che nel libro di Giobbe
il satana rivolge a dio), polverizzando d’un colpo ogni nostra consolidata
abitudine. Ogni precedente «pensato» orientato alla convivenza civile in un
«sistema sociale», travolto dalle nuove – pre-umane, dis-umane – regole dei
«sistemi viventi».
Il documento pubblicato pochi giorni fa (il 6 marzo) dalla Società degli
anestesisti e rianimatori col titolo di per sé inquietante, «Raccomandazioni di
etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro
sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse
disponibili», è da questo punto di vista esemplare. I medici impegnati in prima
linea ci dicono, in poche parole, che «può rendersi necessario porre un limite
di età all’ingresso in terapia intensiva».
IN PRESENZA di un afflusso superiore alle possibilità di ricovero la selezione
tra chi salvare e chi no avverrà con criteri anagrafici e biologici, anziché in
base al puro (e casuale) ordine di arrivo (first come, first served).
«Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di
riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più
probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita
salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di
persone». Lo mettono nero su bianco per venire in soccorso alla disperazione
etica di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra «sommersi e salvati». Per
non farlo sentire solo di fronte a una responsabilità «dis-umana». E lo fanno
evocando l’«etica delle catastrofi» e, appunto, principii da stato d’eccezione,
consapevoli degli scenari d’altri tempi che quel pensato fino a ieri
impensabile può evocare (per la mia generazione è inevitabile rivedere sullo
sfondo del nostro triage la rampa di Auschwitz dove avveniva appunto l’erste
Auswahl, l’orrenda «prima selezione» in base alle condizioni fisiche e
anagrafiche dei nuovi arrivati per «decidere» se mandarli ai forni o al
lavoro). Per tutte queste ragioni quello resta un documento umanissimo e
disumano insieme. Agghiacciante (per le sue implicazioni ultime) e
comprensibile, per le sue ragioni immediate. Per la terribile «forza delle
cose» che lo muove.
È l’applicazione di un’impietosa «razionalità strumentale» (quella che
impone di massimizzare i risultati con le risorse disponibili) a una realtà che
riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più) permettere. Merita – voglio
sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto
e di coloro cui è diretto: le persone che per professione operano in prima
linea, quotidianamente, con rischio, sul fronte estremo della vita e della
morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto.
SE UN’OSSERVAZIONE mi permetterei di fare, invece, non è tanto su
quanto il documento dice, ma su quanto non dice. In esso lo «squilibrio tra
necessità e risorse disponibili» è dato come un presupposto di fatto. Una sorta
di dato di natura, come il virus in fondo. Così però non è. Se i posti in
rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di
governo, poteri economici nazionali e internazionali, opinion leaders,
operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in Italia ne abbiamo
5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è
in conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 35
miliardi dovuti alla Sanità e a tagliare 70.000 posti letto. Se i nostri
rianimatori sono costretti ad affrontare «dilemmi mortali» è perché altri,
sopra di loro, o intorno a loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e
rende feroce la selezione. Questo dovrebbe concludere un’osservazione razionale
che si sollevasse al di sopra del campo «professionale» e giudicasse con uno
sguardo «generale» o, appunto, «generalmente umano». In questa luce anche il
virus probabilmente si «umanizzerebbe». Non nel senso di diventare meno feroce.
Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di
offrire davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di
una condizione umana e sociale. In fondo, la sua logica selettivamente
darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la
stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno
inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi
(i «vecchi», in primis) e meritevoli i vincenti?
L’ISOLAMENTO cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non
è il programma thatcheriano della cancellazione della società in nome
dell’individualismo estremo fatto codice genetico? Lo stesso crollo dei mercati
finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il segno di quella
fragilità strutturale del finanz-capitalismo a suo tempo denunciata dai pochi
«gufi»? In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il
microscopico luogo geometrico in cui precipitano e si rivelano tutte le linee
di crisi del nostro tempo.
Quando tutto questo sarà finito, dovremo ben ripensare l’intero nostro
universo di senso, a cominciare dall’insostenibilità del dispositivo egemonico
che sembrava fino a ieri immortale. E per farlo servirà anche a noi un cambiamento,
radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto.
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