Il
11.9.2001, quando una aggressione terrorista distrusse le Torri Gemelle,
abitavo a New York. Mi misi a studiare tutto quello che riguardava la paranoia
e cominciai a scrivere un libro sulla presenza di questo disturbo: non nelle
istituzioni psichiatriche ma nella popolazione “normale” e nella vita quotidiana.
Non ero rimasto sconvolto tanto dall’attacco: si conosceva già l’esistenza di
un fondamentalismo islamico paranoico, i proclami di Osama Bin-Laden si
leggevano in internet. A quello si poteva esser preparati. Nuova era invece la
paranoia collettiva che in un attimo ci aveva circondato. Quella che Jung
chiamava “infezione psichica” stava contagiando tutti: malgrado i nostri sforzi
per mantenerci lucidi, anche me e i colleghi psicoanalisti.
Così, ho
dedicato anni a studiare non l’11 settembre, ma il 12, 13 e così via. Lo
scatenarsi di una psiche primordiale nell’uomo comune di quello che si crede un
mondo civilizzato. A New York cominciarono a circolare le tipiche “voci”, che
prendono vita spontaneamente nelle situazioni di allarme e di pericolo
collettivo: un ritorno involontario alla civiltà orale, studiato da Marc Bloch
nella Prima Guerra Mondiale. Alle voci, infatti, si crede più che alle notizie
ufficiali. E in guerra, ogni notizia è sottoposta alla censura militare. I
bollettini dell’esercito dicono che tutto va bene, mentre intorno si muore.
Durante il 1914-18, nell’esercito francese nacque spontaneamente un proverbio:
“Tutte le notizie possono essere vere, tranne quelle dei comunicati
ufficiali”. Va notata una cosa, poco nota a chi non ha esperienza
psichiatrica: le allucinazioni dei malati mentali gravi non
sono quasi mai visive: giungono in forma di voci. Questo termine,
quindi, è molto efficace, perché stabilisce un collegamento diretto tra il
delirio del caso clinico psichiatrico e quello della società che perde il
controllo.
La casa in
cui abitavo era fuori da Manhattan, in una zona verde. Vicino a noi stava un
grande lago artificiale che costituiva una delle principali fonti d’acqua per
la città. Le “voci” sussurrarono che i terroristi vi avrebbero gettato un
potente veleno. Dopo poco, il racconto cambiò: i malvagi non avrebbero
utilizzato veleno, ma l’LSD, così avrebbe fatto impazzire la maggiore città
americana. Questa idea era non solo più credibile – dal momento che mancavano
casi di avvelenamento – ma anche più in sintonia con l’inconscio collettivo.
Anche questa voce non era materialmente vera: non successe nulla, l’unica
novità furono i guadagni fatti dai venditori di acqua minerale. Ma, in modo
inconsapevole, finiva col risultare vera sul piano simbolico: gli abitanti di
New York sembravano vivere fra le allucinazioni, anche se non avevano ingerito
LSD.
L’11
settembre fu l’unico attacco subito dagli Stati Uniti sul loro territorio
durante la loro storia. Nessuna aggressione terrorista di gravità paragonabile
avvenne dopo: ma, come conseguenza, gli Stati Uniti andarono a far guerra in
due paesi lontani, Afghanistan e Iraq. L’opinione pubblica e i politici
approvarono la mossa di Bush, il quale – proprio come si legge nelle
descrizioni psichiatriche della paranoia – dichiarò che la compiva per
eliminare un arsenale di “armi di distruzione di massa” accumulato da Saddam: e
rivelatosi inesistente, quando gli invasori americani lo cercarono. Dopo quasi
due decenni gli USA, che possiedono metà delle forze militari del mondo, non le
hanno ancora davvero vinte: sono le guerre più lunghe della loro storia.
Questa
constatazione ci porta già al cuore del problema: se si manifesta non sul piano
individuale e clinico, ma nella mentalità collettiva, la paranoia si diffonde
per infezione psichica e fa perdere il senso delle proporzioni. La
comunicazione orale peggiora le cose, perché la sua estrema variabilità semina
il panico. Oggi il suo strumento di amplificazione sono i cosiddetti social,
affidati ad ogni individuo ed usati soprattutto per scaricare emozioni di cui
il soggetto ha perso il controllo, anche quando pretende di comunicare qualcosa
di obbiettivo.
In questo
periodo il mondo non fronteggia un potere terrorista distruttivo, ma un virus:
dunque un avversario che, all’opposto delle organizzazioni terroriste, non è
guidato da un capo e non ha un consapevole scopo. È troppo presto per sapere se
si tratta di una epidemia o di una pandemia. Il covid-19 è un virus è di tipo
nuovo, solo recentissimamente è passato dagli animali all’uomo.
Nel 2018 un
gruppo di esperti coniò il termine Disease X (malattia X) per una pandemia che,
in un futuro imprecisato, sarebbe passata dagli animali all’uomo, diffondendosi
rapidamente nel mondo sia per la mancanza di difese negli umani, sia per i
contatti che legano ormai tutti i paesi attraverso la globalizzazione. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità comunicò la notizia al mondo: ma non sembra che gli stati
abbiano stanziato grandi cifre per prevenire il male. Peter Daszak, uno degli
esperti a cui dobbiamo il termine Desease X, ha ora (28 febbraio 2020)
confermato sulla prima pagina del New York Times che il covid-19 è la malattia
preannunciata 2 anni fa. Per il momento non solo non esistono vaccini, ma
nessuno, in nessuna popolazione, possiede contro di essa le difese che ci
riparano dalle malattie più “normali”. Le informazioni di cui disponiamo sul
virus fanno pensare che si tratti di qualcosa che ha analogie con la influenza:
è più seria di questa, ma non è una malattia ad alta mortalità, come le antiche
epidemie o l’Ebola di recente. Ci sono invece sorprendenti analogie con la
peste nera che uccise buona parte della popolazione europea nel 1300. Anche
allora la malattia veniva da oriente attraverso la Via della Seta: dopo
l’isolamento del Medio Evo, si stava velocemente avviando una prima
globalizzazione dei commerci. Giunse in Europa in groppa ai topi, a loro volta
trasportati con la merce nelle navi: oggi il contagio arriva dai loro parenti
alati, i pipistrelli.
Le
previsioni sono ben difficili, perché troppe sono le variabili in gioco.
Sarebbe come azzardare che tempo farà, diciamo, il 22 ottobre dell’anno
prossimo: anche il metereologo più esperto non ci proverebbe.
Sulla
infezione bacillare, dunque, dobbiamo sospendere il giudizio. Ma oltre a quella
fronteggiamo due problemi psicologici non piccoli.
Il primo, di
non facile contenimento, riguarda appunto la paranoia. In teoria i politici e i
mezzi di comunicazione potrebbero fornire una informazione contenitiva,
corrispondente a una psicoterapia di massa. In pratica possono spesso
peggiorare la situazione. Durante il fine settimana scorso il premier Conte ha
tenuto una lunga conferenza stampa. A un’ora di domande dei giornalisti sugli
interventi in corso rispondeva sempre che il governo aveva preso provvedimenti
adeguati. Lo spettatore veniva quindi indotto a immaginarsi due le possibilità:
che non conoscesse i provvedimenti del suo stesso governo; o che temesse di
elencarli, magari perché avrebbe dato l’impressione di una situazione
gravissima? Purtroppo gli studi sulla paranoia ci informano che l’alludere
senza dire – non offrendo certezze ma rinforzando il sospetto - è proprio il
modo migliore per nutrirla. In questo modo il primo ministro ha rinforzato
nell’ascoltatore la sensazione che ciò che lo preoccupava era soprattutto
difendersi da accuse di inadeguatezza, che nessuno gli aveva rivolto. Una
valida collaborazione gli è stata offerta da Fontana, governatore della
Lombardia, residenza della maggioranza di casi accertati, il quale ha ripetuto
che la popolazione collabora ammirevolmente: come se suo compito fosse fugare
dubbi non sulla sanità, ma sulla possibilità che i cittadini si opponessero
agli interventi sanitari. Ugualmente de-costruttiva la giornalista Annunziata:
che a raffica non avanzava una domanda, ma almeno tre insieme, rivelando che la
gestione dell’ansia era un problema, prima che per la popolazione, per lei
stessa. Una combinazione che ha garantito allo spettatore una anoressia di
risposte, ma obese crescite del panico. Come la paranoia, l’ansia è
psicologicamente molto infettiva. Piazzare davanti alle telecamere chi non
riesce a trattenerla è un rischio sociale.
Anche i
soldati della Prima Guerra Mondiale erano scagliati insieme nella stessa
trincea da un caso beffardo. Per rassicurarsi a vicenda, inventavano forme di
saggezza popolare come il proverbio dell’esercito francese. Oggi, i milioni di
italiani gettati casualmente dalla minacciosa epidemia in una comunanza
virtuale di schermi finiranno purtroppo per uscire dal notiziario scuotendo la
testa: “Tutto potrebbe essere vero, tranne quello che dicono i comunicati e i
telegiornali”. Solo col protrarsi nel tempo, a parità di penetrazione del
virus, la follia generale ora acuta dovrebbe recedere verso forme più
moderate.
La massa
reagisce con la psicologia della massa. Ma sarebbe più esatto dire: della
folla. Cioè di una massa che si trova ad essere investita contemporaneamente da
un unico problema per circostanze casuali: la massa si ritrova tutta in piazza
perché segue l’annuncio di un comizio, la folla, invece, è quella che vi
accorre inaspettatamente perché ha sentito una esplosione. Ora, si ricorda,
quello del virus non è un arrivo programmato: si è trattato di una esplosione
inattesa. Ma a dirlo sono proprio i mezzi di comunicazione o i politici a cui
sarebbe spettato prendere sul serio l’allarme dato dalla OMS, avvertire la
popolazione e investire in una prevenzione senza precedenti. Purtroppo,
l’attenzione sia dei primi che dei secondi è sempre più indirizzata ai tempi
brevi: al massimo, alle prossime elezioni. L’avversario – la pandemia – lavora
invece sui tempi lunghi. Basta essere andati a scuola e aver studiato I
promessi sposi per ricordarsi che quella del 1630, descritta da
Manzoni, era una delle periodiche riapparizioni della peste in quei secoli.
Purtroppo oggi il nostro orizzonte temporale si è gravemente ridotto: non solo
non si pensa in termini di secoli, ma la idolatria dei temi effimeri può –
indirettamente, tuttavia potentemente – contribuire a farci assegnare gli
avvertimenti dell’OMS a uno stantio passato manzoniano. Ci ritroviamo
all’improvviso tutti insieme nella piazza virtuale, offerta dallo schermo
televisivo o del computer. Di fronte ad esso siamo una folla acefala, che
proprio per questo meriterebbe di trovare una guida nelle autorità e nei mezzi
di comunicazione.
La seconda
difficoltà psicologica collettiva deriva proprio dall’accorciarsi degli
orizzonti temporali. Dovremmo accettare che non abbiamo al momento sufficienti
informazioni bio-mediche. In realtà questo è sempre avvenuto nel corso del
progresso scientifico. Di nuovo c’è il fatto che raramente ciò riguardava il
rischio di pandemie; e che siamo abituati alla comunicazione istantanea,
soprattutto attraverso internet e i social. Per significativa coincidenza con
il nuovo virus, ci siamo anche abituati a definire “virale” (traduzione
dell’americano viral) una diffusione molto rapida, per contagio
psichico, di certi messaggi lungo la rete. Chi usa questa espressione, però,
sottintende che simili narrazioni possono essere sia cattive sia buone: mentre
un virus è solo negativo. Stiamo comunque ancora parlando di comunicazione
generalizzata, non di informazione scientifica. Questa non può essere
istantanea: avrà bisogno dei suoi tempi, come sempre. Eppure, proprio negli
ultimi anni stiamo perdendo conoscenza di una verità elementare: il lavoro
degli scienziati ha bisogno di tempo, per la cura e per la prevenzione: proprio
per questo l’OMS si era mossa già nel 2018. Però, quasi fino a ieri non eravamo
così “tossicodipendenti dall’immediato” (soprattutto dal controllo continuo
dello smartphone). Senza andare al secolo scorso, ancora ai tempi della SARS
(2003) simili “tossicodipendenti” erano infinitamente di meno: lo iphone è
entrato in commercio solo nel 2007. Oggi tutti possiedono uno smartphone,
quindi la percentuale di popolazione che soffre di “astinenza da notizie
immediate” corrisponde alla maggioranza. Quando la maggior parte di una società
è in una crisi di acuta astinenza, essa soffre di un serio disturbo psichico
collettivo. Gli storici possono ricordarci che nel 1800 l’Inghilterra sottomise
l’immensa Cina perché controllava non gli oceani, ma il commercio dell’oppio:
da cui buona parte del ceto medio cinese era dipendente.
La
nostra mente non è più abituata ad aspettare e tantomeno a pensare con
pazienza. Eppure anche i nostri pensieri difficilmente sono istantanei: quelli
veri giungono solo dopo qualche attimo, solo dopo averli “chiamati”. La mente
che interviene in modo istantaneo, dunque, si disabitua a pensare
articolatamente. Lungo questo percorso, la psiche si sta anche dissociando dal
nostro corpo: che dovrebbe formare con esso un’unità, proprio come lo era negli
animali o negli uomini storici, forse in via di sparizione. In questa
divaricazione, l’impazienza si associa a vistose patologie. Fino a ieri, cucinare
richiedeva attenzione e tempo, ma dava risultati gustosi aiutandoci a mantenere
la salute e la linea. Oggi si consumano cibi pronti: una conseguenza è
l’esplosione incontrollata di obesità e diabete. Gli esperti discutono il
perché i quozienti di intelligenza, che nel 1900 continuavano a salire, negli
ultimi due decenni tendono a diminuire. Si tratta della nuova malattia del
mondo, quella che è stata chiamata “rovesciamento del Flynn Effect” (Flynn è lo
studioso a cui dobbiamo la scoperta che nel secolo scorso i quozienti
lentamente salivano)? Potrebbe, comunque, corrispondere al periodo in cui
abbiamo cominciato a usare lo smartphone: o meglio, non tanto a usarlo, quanto
a lasciare che “lui”, prima delle nostre decisioni coscienti, scandisse il ritmo
della giornata e della nostra mente.
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