Mike Davis, che quindici anni fa
anticipò la pandemia globale in un suo saggio, spiega le responsabilità di Big
Pharma e delle politiche neoliberista nella diffusione del virus
Il Coronavirus è un vecchio film che stiamo guardando in loop da quando,
nel 1994, con il suo libro The Hot Zone Richard Preston ci ha
presentati a un demone sterminatore, nato in una misteriosa caverna di
pipistrelli dell’Africa centrale, e conosciuto col nome di Ebola. È stata solo
la prima di una serie di nuove malattie sorte nel «terreno vergine» (è questo
il termine tecnico) del sistema immunitario inesperto dell’umanità. L’Ebola è
stata rapidamente seguita dall’influenza aviaria, passata agli umani nel 1997,
e dalla Sars, comparsa alla fine del 2002: entrambe si sono manifestate per la
prima volta a Guangdong, il centro nevralgico dell’industria mondiale.
Hollywood, ovviamente, ha accolto con grande libidine la comparsa di nuove
epidemie, e ha prodotto una serie di film per titillarci e terrorizzarci. (Contagion di
Steven Soderbergh, uscito nel 2011, spicca per l’accurata ricostruzione
scientifica e l’inquietante capacità predittiva del caos in cui siamo
attualmente immersi). Oltre ai film e agli innumerevoli vividissimi romanzi, a
ciascuna ondata epidemica hanno fatto seguito anche centinaia di saggi e
migliaia di articoli scientifici, e molti hanno sottolineato la terribile
impreparazione globale nell’individuare e rispondere a nuovi disastri di questo
tipo.
Il caos dei numeri
E dunque il Coronavirus ha varcato la porta d’ingresso e si è presentato
come uno spettro già noto. Sequenziare il suo genoma (molto simile alla sua già
studiata sorella, la Sars) è stato facile, eppure i pezzi di informazione più
importanti ancora ci mancano. I ricercatori lavorano giorno e notte per
analizzare l’epidemia, con di fronte tre grosse sfide.
La prima: la carenza ininterrotta di kit per i test, soprattutto negli
Stati uniti e in Africa, che impedisce di fare stime accurate su parametri
fondamentali come il tasso di riproduzione, il bacino di popolazione infetta, e
il numero di infetti asintomatici. Il risultato è un caos di numeri.
La seconda: come per le influenze stagionali, il virus sta mutando man mano
che percorre fasce di popolazione differenti per età e condizioni cliniche. La
varietà che probabilmente infetterà gli americani è già abbastanza diversa da
quella osservata nel focolaio originario di Wuhan. Successive mutazioni
potrebbero essere benigne o potrebbero alterare l’attuale distribuzione della
virulenza, che attualmente raggiunge nitidamente il picco tra gli
over-cinquanta. L’«influenza da corona» di Trump rappresenta già così un
pericolo mortale per un quarto della popolazione americana, quella anziana,
immunodepressa e con problemi respiratori cronici.
La terza: anche se il virus dovesse rimanere stabile e non mutare granché,
il suo impatto sulla popolazione giovane potrebbe cambiare molto nei paesi e
nei gruppi sociali più poveri.
Pensiamo all’esperienza globale dell’influenza Spagnola del 1918-19, che si
pensa abbia ucciso circa l’1 o il 2% dell’umanità. Negli Stati uniti e
nell’Europa occidentale, il virus originario H1N1 era mortale soprattutto tra i
giovani adulti. Solitamente questo fatto viene spiegato come il risultato di un
sistema immunitario più forte che reagiva in modo sproporzionato all’infezione
attaccando le cellule dei polmoni, causando così una polmonite virale e uno
shock settico. Recentemente, tuttavia, alcuni epidemiologi hanno teorizzato che
gli adulti più vecchi avevano conservato la «memoria immunologica» di una precedente
epidemia degli anni Novanta dell’Ottocento, che gli garantiva dunque maggiore
protezione. In ogni caso, l’influenza trovò la sua nicchia ecologica favorevole
negli accampamenti militari e nelle trincee, dove falcidiò decine di migliaia
di giovani soldati, diventando un fattore decisivo della battaglia tra imperi.
Il fallimento della grande Offensiva di primavera tedesca del 1918, e dunque il
risultato della guerra, è stato attribuito al fatto che gli Alleati, a
differenza dei loro nemici, poterono rimpiazzare le truppe malate con truppe
americane appena arrivate.
Ma nelle nazioni più povere l’influenza Spagnola ebbe un profilo diverso.
Quasi sempre si omette che quasi il 60% della mortalità globale (almeno venti
milioni di morti) si ebbe nel Punjab, a Bombay, e in altre parti dell’India
occidentale, dove le esportazioni di grano verso la Gran Bretagna e brutali
pratiche di requisizioni coincisero con una grande siccità. La carestia che ne
derivò portò milioni di poveri alla fame. Diventarono le vittime di una cupa
sinergia tra malnutrizione – che indebolì la capacità del loro sistema
immunitario di resistere alle infezioni – e polmonite, tanto batterica quanto
virale. Ugualmente, nell’Iran occupato dalla Gran Bretagna anni di siccità,
colera e carenze alimentari, seguiti da un’epidemia di malaria, furono le
condizioni che portarono alla morte circa un quinto della popolazione.
Questa storia – e soprattutto le conseguenze sconosciute delle interazioni
tra malnutrizione e infezioni esistenti – dovrebbe farci capire che il Covid-19
potrebbe avere un corso diverso e assai più mortale nei densi e malsani slum dell’Africa
e dell’Asia meridionale. Con solo alcuni casi a Lagos, Kigali, Addis Ababa, e
Kinshasa, nessuno sa bene (e non lo saprà ancora a lungo, data l’assenza di
tamponi su larga scala) il risultato della possibile combinazione del virus con
le condizioni di salute e le malattie locali. Alcuni hanno affermato che,
considerando che la popolazione urbana dell’Africa è la più giovane del mondo,
la pandemia non avrà che un impatto limitato. Alla luce dell’esperienza del
1918, questa tesi sembra un folle azzardo, così come l’idea che la pandemia,
alla stregua dell’influenza stagionale, si placherà con l’arrivo del caldo (Tom
Hanks ha appena contratto il virus in Australia, dov’è ancora estate).
Un Katrina sanitario
Forse tra un anno guarderemo con ammirazione al successo della Cina nel
contenere la pandemia, ma con orrore al fallimento degli Stati uniti. (Sto
dando per buona l’eroica supposizione che la dichiarazione della Cina di un
rapido declino dei contagi sia più o meno accurata). L’incapacità delle nostre
istituzioni di tenere chiuso il vaso di Pandora, ovviamente, non è certo una
sorpresa. Sin dal 2000 abbiamo assistito a ripetuti collassi del sistema sanitario.
Nelle influenze stagionali del 2009 e del 2018, ad esempio, gli ospedali
sovraccarichi in tutto il paese hanno mostrato la carenza scioccante di posti
letto dopo anni di tagli ai ricoveri guidati dalla logica del profitto. La
crisi risale agli anni dell’offensiva neoliberista che ha portato Reagan al
potere e convertito i leader dei democratici nei suoi portavoce. Secondo
l’American Hospital Association, tra il 1981 e il 1999 il numero di letti per
il ricovero in ospedale è diminuito di un impressionante 39%. Lo scopo è stato
quello di fare più profitti aumentando il tasso di «censimento» (il numero di
posti occupati). Ma l’obiettivo gestionale di occupare il 90% dei posti letto
significa che gli ospedali non hanno più la capacità di assorbire il flusso di
pazienti durante le epidemie e le emergenze sanitarie.
Nel nuovo secolo, la medicina di emergenza ha continuato a essere
ridimensionata dall’imperativo di andare «a vantaggio degli azionisti»,
aumentando i dividendi e i profitti a breve termine, nel settore privato, e nel
settore pubblico dall’austerità fiscale e dai tagli ai budget sulla preparedness statale
e federale. Il risultato è che ci sono soltanto 45 mila posti in terapia
intensiva per far fronte ai casi previsti di coronavirus con sintomi seri o
critici (Al confronto, in Corea del Sud hanno a disposizione il triplo dei
letti in più della popolazione americana). Secondo un’inchiesta di Usa
Today, «solo otto stati avrebbero un numero di posti letto sufficienti per
curare il milione di americani over-sessanta che si ammaleranno per il
Covid-19».
Siamo nelle fasi iniziali di un Katrina sanitario. Avendo disinvestito
nella preparedness per le emergenze mediche quando tutti gli
esperti raccomandavano un’espansione significativa della sua capacità, oggi ci
troviamo privi di risorse basilari, come i posti letto in ospedale.
Le scorte nazionali e regionali sono rimaste a livelli di gran lunga
inferiori a quanto consigliato dai modelli epidemici. E così la debacle sui kit
per i tamponi ha coinciso con una carenza critica di attrezzature protettive
per i lavoratori della sanità. Gli infermieri militanti, la nostra coscienza
sociale nazionale, stanno facendo in modo di far capire a tutti il grave
pericolo creato da una scorta inadeguata di attrezzature protettive come le
mascherine N95. Ci ricordano anche che gli ospedali sono diventati un terreno
di coltura ideale per i superbatteri resistenti agli antibiotici come il C.
difficile, diventato il maggior killer secondario negli affollati reparti
degli ospedali.
Il divario sociale
L’epidemia ha messo rapidamente in luce il brutale divario di classe che il
movimento Our Revolution ha posto al centro della sua agenda nazionale. In
sintesi, quelli con delle buone assicurazioni sanitarie, che possono lavorare o
insegnare da casa, saranno piacevolmente isolati, a patto che seguano i
protocolli di salvaguardia. Gli impiegati pubblici e altri gruppi di lavoratori
sindacalizzati con una copertura decente dovranno fare scelte difficili tra
reddito e protezione. E milioni di lavoratori dei servizi con redditi
bassissimi, di operai dell’agroalimentare, di disoccupati e di senza fissa
dimora saranno dati in pasto ai lupi.
Come tutti sappiamo, un’assistenza universale degna di questo nome richiede
un congedo di malattia universale. Il 45% della forza lavoro è attualmente
priva di questo diritto, ed è dunque virtualmente obbligata a trasmettere
l’infezione o a ritrovarsi con il piatto vuoto. Eppure, quattordici stati
governati dai repubblicani si sono rifiutati di rendere operativa la
disposizione dell’Affordable Care Act che estende Medicaid ai lavoratori a
basso reddito. È per questo che un texano su quattro, ad esempio, non ha
copertura sanitaria e può essere curato soltanto al pronto soccorso
dell’ospedale della contea.
Le contraddizioni mortali di una sanità privata in tempo di peste sono
ancora più evidenti per l’industria delle case di riposo, che dà alloggio a
circa 2,5 milioni di americani in età avanzata, la maggior parte grazie a
Medicaid. È un’industria altamente competitiva fondata su salari bassi, poco
personale, e tagli illegali ai costi. Decine di centinaia di persone muoiono
ogni anno per l’assenza di procedure basilari di contenimento delle infezioni,
e per il fallimento dei governi nel costringere quest’industria a rendere conto
di quello che può essere definito soltanto come omicidio colposo deliberato.
Per molte case di riposo – soprattutto negli Stati del sud – è più economico
pagare le multe per le violazioni delle norme sanitarie che assumere più
personale e formarlo in maniera adeguata.
Non sorprende che il primo focolaio dell’epidemia negli Stati uniti sia
stato il Life Care Center, una casa di riposo a Kirkland, nella periferia di
Seattle. Ho parlato con Jim Straub, un vecchio amico che fa il sindacalista
nelle case di riposo della zona di Seattle e ci sta scrivendo su un articolo
per Nation. Straub ha descritto la struttura come «una di quelle
con il peggior personale dello Stato» e l’intero sistema di case di riposo di
Washington come «il più sottofinanziato del paese – un’oasi assurda di
sofferenze austere in un oceano di soldi dell’industria tecnologica».
Ancor di più, ha sottolineato che i funzionari della sanità pubblica stanno
ignorando un fattore cruciale che spiega la rapida trasmissione della malattia
dal Life Care Center a dieci case di riposo nei dintorni: «I lavoratori delle
case di riposo, nel costoso mercato degli affitti degli Stati uniti, fanno
quasi tutti diversi lavori, di solito in più case di riposo». Sostiene che le
autorità non sono riuscite a trovare i nomi e i luoghi di questi secondi lavori
e dunque hanno perso il controllo sulla diffusione del Covid-19. E non c’è
nessuno che stia pensando di retribuire lo stesso questi lavoratori per farli
stare a casa.
In tutto il paese dozzine, probabilmente centinaia di case di riposo
saranno zone calde della diffusione del contagio. Molti lavoratori alla fine
sceglieranno di ricorrere alla banca del cibo anziché lavorare in queste
condizioni, e resteranno a casa. E allora il sistema potrebbe collassare: non
aspettiamoci di vedere la Guardia Nazionale cambiare i pannoloni.
Solidarietà internazionale
La pandemia mette in risalto il problema dell’assistenza sanitaria
universale e gratuita e del congedo retribuito per malattia a ogni passo della
sua mortale avanzata. Mentre Biden indebolisce Trump, i progressisti si devono
unire, come sostiene Bernie, per ottenere l’estensione di Medicare for All.
Messi insieme, i delegati di Sanders e di Warren hanno un solo ruolo da giocare
nel Fiserv Forum di Milwaukee di metà luglio, ma il resto di noi ha un ruolo
altrettanto importante nelle strade, a partire da adesso, nella lotta contro
l’incarceramento, i licenziamenti, e i datori di lavoro che rifiutano di
retribuire i lavoratori in congedo (Hai paura del contagio? Stai a un metro di
distanza dal manifestante più vicino: l’immagine alla televisione sarà più
potente. Ma abbiamo bisogno di riprenderci le strade).
Un’assistenza sanitaria universale gratuita e le richieste connesse sono
soltanto il primo passo. Dispiace vedere che nei dibattiti delle primarie né
Sanders né Warren abbiano sottolineato la rinuncia di Big Pharma a fare ricerca
e sviluppo su nuovi antibiotici e antivirali. Delle diciotto più grandi aziende
farmaceutiche, quindici hanno abbandonato del tutto questo settore. Le medicine
per il cuore, i tranquillanti che danno assuefazione, e gli stimolanti per
l’impotenza maschile sono i medicinali più redditizi, al contrario di quelli
che ci difendono dalle infezioni ospedaliere, dalle nuove malattie e dai
tradizionali killer tropicali. Un vaccino universale per l’influenza – e cioè
un vaccino che attacca le parti non soggette a mutazioni delle proteine
superficiali del virus – è possibile da decenni, ma mai abbastanza remunerativo
da diventare una priorità.
Mentre la rivoluzione degli antibiotici sta per essere sovvertita, vecchie
malattie ricompariranno a fianco di nuove infezioni, e gli ospedali
diventeranno ossari. Persino Trump è in grado di scagliarsi opportunisticamente
contro il costo elevato delle medicine, ma abbiamo bisogno di una visione più
coraggiosa che guardi a come rompere il monopolio dei farmaci e provveda alla
produzione pubblica dei medicinali salvavita (È già stato fatto: durante la
Seconda guerra mondiale, l’Esercito arruolò Jonas Salk e altri ricercatori per
sviluppare il primo vaccino contro l’influenza). Come ho scritto quindici anni
fa nel mio libro The Monster at Our Door — The Global Threat of Avian
Flu:
L’accesso alle medicine salvavita, inclusi i vaccini, gli antibiotici e gli
antivirali, dovrebbe essere un diritto umano universalmente garantito. Se i
mercati non riescono a incentivare la produzione a basso costo di simili
medicine, i governi e le associazioni no-profit dovrebbero prendersi la
responsabilità di fabbricarle e distribuirle. La sopravvivenza dei più poveri
dovrebbe essere in ogni caso considerata una priorità rispetto ai guadagni di
Big Pharma.
L’attuale pandemia non fa che corroborare questa tesi: la globalizzazione
capitalista appare oggi come biologicamente insostenibile nell’assenza di
un’infrastruttura internazionale di assistenza pubblica. Ma una simile
infrastruttura non esisterà mai finché le lotte delle persone non abbatteranno
il potere di Big Pharma e della sanità privata.
Per far questo c’è bisogno di un progetto socialista indipendente
improntato alla sopravvivenza umana che vada al di là di un nuovo New Deal. Sin
dai giorni di Occupy Wall Street, i progressisti sono riusciti con successo a
mettere la lotta contro le diseguaglianze di reddito e ricchezza al primo
posto, un grande risultato. Ma ora i socialisti devono fare un passo avanti, e
prendere di mira direttamente le industrie farmaceutiche e la sanità privata,
chiedendo la proprietà sociale e la democratizzazione del potere economico.
Dobbiamo anche fare una valutazione onesta delle nostre debolezze politiche
e morali. Sono molto colpito dalla crescita di una coscienza di sinistra nelle
nuove generazioni e dal ritorno della parola «socialista» nel dibattito
pubblico, ma c’è un disturbante elemento solipsistico nel movimento
progressista che fa il paio con i nuovi nazionalismi. Parliamo solo della
working class e della storia radicale statunitensi (probabilmente
dimenticandoci che i Debs sono stati internazionalisti
fino al midollo). A volte siamo pericolosamente vicini a produrre una versione
di sinistra di America First.
Nell’affrontare la pandemia, i socialisti dovrebbero cogliere ogni
occasione per ricordare l’urgenza di una solidarietà internazionale.
Concretamente, abbiamo bisogno di stimolare i nostri amici progressisti e i
loro idoli politici affinché chiedano un investimento massivo per la produzione
su larga scala di kit per i test, attrezzature protettive e farmaci salvavita
per le nazioni povere. Sta a noi assicurarci che la sanità pubblica gratuita
sia garantita a tutti, in patria e all’estero.
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