Vivere isolati o morire
assieme: il corona visto da Niamey – Mauro Armanino
L’amico Kaka Daouda di Alternativa
Cittadina si trova ancora in stato di arresto presso la polizia giudiziaria
della capitale. Aveva fatto circolare un messaggio sui media che si sarebbe
trovato un italiano ospite nell’Ospedale di Referenza di Niamey. A causa della
temuta infezione, l’Ospedale in questione avrebbe sospeso i servizi. La
notizia, subito smentita dall’istituzione, era poi stata fatta circolare dallo
stesso Kaka. Troppo tardi, perché nel frattempo la voce era corsa. I primi
allarmi avevano lasciato credere il peggio persino nel Niger dove il sole, la
sabbia e la giovane età della popolazione tengono a bada il virus. D’altra
parte, da questa parte del mondo, la cosa di cui si parla non è l’epidemia del
coronavirus quanto l’epidemia da corruzione che non risparmia nessuno e nulla.
E’ di questi giorni a Niamey, lo scandalo di false fatturazioni e acquisti di
materiale inadatto o scadente per le forze armate che, proprio in questi ultimi
mesi, hanno perso decine di militari per attacchi rivendicati dallo Stati
Islamico nel Sahel. La contaminazione della società avviene per trasmissione
del virus da corruzione che non è altro che il tradimento della democrazia e
del bene comune che dovrebbe attraversarla. Qui la morte non ci spaventa perché
non abbiamo paura di vivere.
Una cosa è morire di dolore e
un’altra è morire di vergogna. Mi è tornata in mente questa poesia di
Mario Benedetti, compianto poeta dell’Uruguay, appresa mentre mi trovavo in
Argentina. La cosiddetta distanza sociale, oggi riesumata, era stata da tempo
introdotta e non casualmente e non certo per compassione, si tengono aperti i
supermercati e si chiudono le chiese e gli stadi e gli avvenimenti culturali e
le scuole. Si troveranno buone giustificazioni di carattere medico e senza
dubbio scientificamente motivate ma abbiamo perso, non da oggi, la dignità. Da
tempo non sappiamo perché valga la pena vivere la vita e ci perdiamo, stolti
consumatori consumati, dietro l’effimero che ci seduce per la sua nullità.
Quanto ci appaiono vere le profezie di Pier Paolo Pasolini e il suo inascoltato
grido del cambiamento antropologico in atto nel paese e in Occidente. Una
cosa è morire di dolore alle frontiere dell’Europa, nei deserti che
vorrebbero raggiungere il mare, nei viaggi senza fine e nelle guerre comandate,
finanziate e alimentate dai fabbricanti d’armi, europei, americani, cinesi e
russi compresi. E l’altra è morire di vergogna come da
troppo tempo si fa in occidente dove la morte, prima parte della vita e
celebrata con rintocchi di campane e la sommessa preghiera dei paesani, è stata
censurata, di lei ci si è vergognati come fosse una sconfitta e, persino le
tombe, sono giardini coltivati per illudere il tempo futuro. Ecco perché lei,
sorella morte, è tornata, con fattezze antiche e attuali, e passa attorno tra
gente isolata, impaurita e scontenta della vita. Eravamo morti da tempo senza
neppure accorgercene e facevano bene, i nostri antenati colpiti dalla peste, a
rifugiarsi dove almeno le parole di conforto avevano un senso e magari si
aspettava che qualche santo ci mettesse una pezza e ci si rendeva conto della
fragilità umana e della morte che inciampa nella vita. Ha ragione Benedetti
che morire di vergogna è la cosa peggiore che mai potrebbe
capitare.
Nella poesia in questione che porte
il titolo ‘uomo prigioniero che guarda suo figlio’, il poeta scrive
verso òa fine del poema…’Uno non sempre fa quello che vuole/però ha il
diritto di non fare/ ciò che non vuole’. Ci siamo persi gli anni più
belli, quelle delle rivoluzioni e delle resistenze, quelli dei NO operai e
partigiani e, liquidando le grandi narrazioni della storia, ci siamo ridotti a
fare la lista della spesa per il supermercato più vicino che possiede, tra
l’altro, lo spazio giochi per i bambini e un ampio parcheggio per le auto, la
domenica. Magari le campane suoneranno, per ricordare che c’è un’ora e un tempo
per tutto. Sentiremo il rimpianto, per un attimo, del mondo che avrebbe potuto
essere differente, un mondo nuovo da inventare ogni giorno negli occhi di chi
si innamora della vita. Perché, come ancora ricorda Benedetti alla conclusione
della poesia citata…’ è meglio piangere che tradirsi…piangi, ma non
dimenticare’.
Mauro Armanino, Niamey, 8 marzo
2020
L’emergenza coronavirus
nelle terre del caporalato
di Rocco Bellantone
Nella difficoltosa gestione
dell’emergenza Covid-19 in Italia, c’è una fascia della popolazione che rischia
di essere lasciata sola. Sono le migliaia di migranti che lavorano da braccianti
nelle terre del caporalato. Persone che vivono in abitazioni d’emergenza, in
condizioni igieniche carenti, con un accesso limitato al sistema sanitario e
che non possono permettersi a lungo di restare a casa senza lavorare. Se il
virus attecchisce in questi contesti, il contagio non potrà che estendersi a
tappeto.
La situazione nella
Capitanata
Una delle situazioni più critiche
si registra nelle zone rurali della provincia di Foggia. Nella Capitanata a
supporto dei migranti opera in prima linea Intersos. L’organizzazione
umanitaria ha chiesto alla Regione Puglia e alla Asl di Foggia di aumentare con
urgenza l’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari per gli otto
insediamenti in cui porta avanti da due anni un servizio di medicina di prossimità:
l’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, il Gran Ghetto di Torretta
Antonacci, Borgo Tre Titoli, l’agro di Palmori, l’agro di Poggio Imperiale,
l’ex fabbrica Daunialat a Foggia, contrada S. Matteo e Borgo Cicerone.
In totale sono 2.400 le persone a cui
cinque operatori dell’organizzazione vengono in soccorso con due unità mobili.
Senegal, Gambia, Ghana e Nigeria i principali paesi d’origine. «Questo è un
territorio difficile – spiega a Nigrizia Alessandro Verona,
referente medico dell’unità Migrazione di Intersos – Foggia
è la terza provincia più grande d’Italia e quella con la presenza di
insediamenti stanziali informali più importante del paese».
In pratica, un nervo estremamente
scoperto sul piano della marginalità, dove le barriere culturali e linguistiche
rendono complicata di per sé la sola ricezione delle misure preventive di base
da adottare per evitare che le persone si infettino.
«Con l’emergenza coronavirus
abbiamo immediatamente convertito la nostra attività di informazione
socio-sanitaria in attività di prevenzione e in interventi rapidi per le
situazioni sospette», prosegue il medico di Intersos. «Non abbiamo riscontrato
casi al momento. La mobilità resta però un tema centrale. Gli stranieri qui si
muovono per lavorare e per accedere ai servizi di base. Queste persone hanno
vissuto negli anni quarantene fisiologiche sul piano sociale. Ciò sta
determinando per loro una esposizione minore al virus, ma non vuol dire che il
contagio non arriverà. Abbiamo solo più tempo per lavorare sulla prevenzione».
A Castel Volturno, nel casertano,
il presidio sanitario più attivo per i braccianti stranieri è quello di
Emergency. Qui l’organizzazione di Gino Strada ha realizzato e veicolato sui
social network un video in pidgin
english. Un’idea originale per far comprendere le precauzioni da
adottare per scongiurare il contagio nell’area. In totale gli immigrati che
ruotano attorno all’agro-business locale sono circa 15mila, tra regolari e
irregolari, in prevalenza ghanesi e nigeriani. Con l’entrata in vigore dei
decreti sicurezza molti di loro hanno perso la protezione umanitaria.
Una grana in più per chi già faceva
fatica a lavorare alla giornata, e che ora per questa emergenza viene anche
limitato negli spostamenti. «Registravamo circa cinquanta accessi al giorno,
ora sono scesi a cinque», racconta il responsabile dell’ambulatorio di
Emergency a Castel Volturno Sergio Serraino. «C’è tanta gente che però non può
fare a meno di andare a lavorare nei campi o nei mercati ortofrutticoli, ci
sono donne con gravidanze a rischio. Per queste persone spostarsi ora diventa
ancora più difficile».
Nel video lanciato da Emergency
viene spiegato cosa sta accadendo in Italia e descritte le misure d’emergenza
adottate dal governo italiano. «Diciamo loro che si deve uscire di casa solo se
si ha un lavoro certo, e non se lo si deve andare a cercare alle rotonde, e che
se hanno problemi di salute importanti devono chiamare il medico o
un’ambulanza», prosegue Serraino.
«Facciamo un triage all’esterno
dell’ambulatorio. Un nostro infermiere visita una alla volta le persone in
arrivo, misura loro la temperatura, chiede se sono state recentemente in
regioni del nord Italia. Se hanno sintomi preoccupanti, le rimandiamo a casa e
stiamo costantemente in contatto con loro. Il tutto è coordinato con l’Unità
operativa di prevenzione collettiva. Possiamo garantire un certo livello di
sorveglianza epidemiologica sul territorio, cerchiamo di dare una mano».
Altro territorio critico è quello
della Piana di Gioia Tauro, dove durante i mesi invernali nella raccolta
agrumicola e olivicola sotto attivi oltre 4mila lavoratori africani,
provenienti soprattutto da Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Burkina Faso,
Senegal, Mali, Nigeria e Niger. Celeste Logiacco, segretario generale della
Cgil per la Piana di Gioia Tauro, conferma che nella nuova tendopoli di San
Ferdinando, dove risiedono circa 400 persone, il Comune ha effettuato la
sanificazione dell’intera struttura, sono stati distribuiti gel igienizzante e
guanti, mentre resta difficile reperire le mascherine.
È stato inoltre richiesto l’invio
di ulteriori tende e moduli igienici da allestire all’esterno della tendopoli
per poter isolare eventuali casi di contagio, e in questi giorni arriverà un
termoscanner. Resta attivo a Polistena l’ambulatorio di Emergency che continua
a offrire assistenza sanitaria, anche attraverso un servizio navetta che due
volte al giorno fa tappa nei paesi della Piana.
La comunità locale fa sentire la
propria presenza con la raccolta di derrate alimentari, beni di prima necessità
e sapone liquido. Dall’inizio dell’emergenza il sindacato ha diffuso volantini
e schede informative tradotti in varie lingue e distribuito gel disinfettante e
guanti.
Ma tutto ciò potrebbe non bastare
per contenere il virus. «Nella maggior parte degli insediamenti informali c’è
difficoltà nel far adottare le misure essenziali per la prevenzione del
contagio, prima tra tutte il lavaggio di mani e abiti, così come evitare i
contatti ravvicinati e il mantenimento della distanza interpersonale a causa
della condivisione precaria degli spazi, spesso molto piccoli, privi di
qualsiasi condizione igienico-sanitaria, riscaldamento e aereazione», spiega
Logiacco.
Servono, e al più presto, piani
d’azione specifici da parte delle istituzioni per mettere in sicurezza e
proteggere chi vive in queste condizioni. Altrimenti nelle terre del caporalato
il contagio sarà difficile, se non impossibile, da controllare.
AFRICHE GUARDATE A VISTA
di Luciano Ardesi
Non c’è praticamente paese toccato
dal coronavirus dove i governi non stiano facendo ricorso alle forze armate. Ha
cominciato naturalmente la Cina, e tutti gli altri paesi seguono.
Pattugliamenti, controlli normalmente effettuati dalle forze dell’ordine
affidati a militari, mobilitati veicoli e aerei militari di ogni tipo per i
trasporti e la logistica, oltre a personale sanitario e ospedali da campo. Non
c’è bisogno di andare tanto lontano, l’Italia è un campionario di tutto ciò, ma
del resto così fan tutti.
Ora tutto giustifica la
presenza militare sulle strade
I governi giustificano: “siamo in
emergenza, la situazione è eccezionale” soprattutto “siamo in guerra” e le
metafore belliche straripano ovunque. La gente si guarda attorno un po’
inquieta, ma di fronte alle necessità è tentata di dire: “meno male che ci sono
anche loro”. Qualcuno comincia a chiedersi che cosa accadrà dopo, visto
che è convinzione generale che niente sarà come prima, dopo una
prova del genere. In Italia e in Europa, dove ci sono istituzioni formalmente
democratiche, la preoccupazione, comunque legittima, è stemperata dalla
presenza di una società civile attenta e attiva. Ma dove questa non c’è o è
ridotta ai minimimi termini, la domanda diventa cruciale. L’Africa è il
continente dove la società civile è più fragile, spesso praticamente inesistente
a causa di regimi autoritari e della sistematica negazione delle libertà
civili. Un rapido sguardo attraverso il continente alimenta più che mai una
ragionevole inquietudine.
In Marocco, da domenica 22 marzo, i
blindati hanno cominciato a pattugliare città come la capitale Rabat, Marrakech
e i principali centri del paese. La decisione è stata presa dopo che nella
notte tra sabato e domenica c’erano state manifestazioni di gruppi di persone
che sfidavano i divieti al grido di “Allah è grande”. Dall’altro capo del
continente, in Sudafrica da lunedì 23 è in vigore il confinamento obbligatorio,
e per farlo rispettare il presidente Cyril Ramaphosa ha deciso di mobilitare
l’esercito per ogni evenienza.
Nell’Africa occidentale, i
presidenti della Costa d’Avorio e del Senegal hanno decretato lo stato di
emergenza e il copri fuoco notturno rispettivamente dalle 21 alle 5 e
dalle 20 alle 6. Il presidente senegalese Macky Sall ha ordinato all’esercito
di tenersi pronto per far rispettare su tutto il territorio le misure prese,
intanto le forze dell’ordine sono intervenute pesantemente contro le persone
che non rispettano il coprifuoco. In Tunisia il presidente Kaïs Saïed ha
progressivamente incrementato la presenza dell’esercito nelle strade, una
misura non consueta in un paese che, anche ai tempi della dittatura di Ben Ali,
aveva tenuto l’esercito lontano dalle tensioni politiche e aveva affidata la
repressione alla polizia.
Nessuna tregua alla guerra
in Libia. Militari anche in Guinea Conakry e Bissau
Chi invece non ha dovuto aspettare
il coronavirus per vedere eserciti e bande armate in azione questa è la Libia.
Nemmeno una tregua, per far fronte all’epidemia è stata osservata e le truppe
del generale Khalifa Haftar hanno attaccato questa settimana Tripoli. Ma i
militari per le strade si sono visti anche domenica scorsa, 22 marzo, in Guinea
in occasione delle elezioni legislative e del referendum costituzionale
fortemente contestato ma che il presidente Alpha Condé ha voluto a tutti i
costi, anche perché il referendum gli consentirà di presentarsi una terza
volta. Ancor prima del virus, la repressione ha così lasciato almeno una
quindicina di morti. In precedenza è stata la Guinea Bissau a mettere i
militari per strada a inizio mese per far fronte alla crisi politica che
investe il paese dopo le elezioni presidenziali di dicembre scorso. Si potrà
dire che in fondo l’esercito per strada è una realtà ricorrente nella
stragrande maggioranza dei paesi africani. Le conseguenze sulle libertà e i
diritti umani sono note. La domanda che gli africani si pongono è che cosa
riserverà loro il futuro.
Da lunedì in Senegal c’è il
coprifuoco. Da poco nel Paese è stata dichiarata “comunitaria” la pandemia del
Covid-19: vuol dire che chiunque può contagiare un membro della comunità.
di Lucia Michelini
Nella capitale le strade sono
deserte. Non si esce dalle 20 alle 6 e da sabato è stata decretata la chiusura
delle frontiere aeree. La gendarmeria ha imposto la sospensione di tutte le
piccole attività commerciali non dichiarate e l’astensione assoluta degli
assembramenti pubblici.
Oggi la spiaggia di Ngor non
profuma più di mango maturo e pesce grigliato. I turisti se ne sono andati, gli
ombrelloni sono chiusi e nel mare i pesci saltano tra le onde. Camminando
sulla grande strada nazionale, la Route de l’Aéroport, si riesce stranamente a
respirare, lo smog non c’è più e viene voglia di correre. I supermercati
rimasti aperti sono generalmente negozi per toubab, gli
occidentali. Un sorvegliante vestito di nero, guanti e mascherina, gentilmente
apre la porta ai clienti, raccomandando di disinfettarsi le mani prima di
procedere con gli acquisti. Confezioni rosa di gel idroalcolico si notano
appese alle borse delle eleganti signore senegalesi.
Ovunque, sulle saracinesche chiuse,
sui pilastri dei lampioni, sono stati affissi foglietti informativi che
spiegano le norme igieniche da seguire per evitare il contagio. Le rare persone
che si incrociano per strada parlano dell’Italia e di quanto sta succedendo in
Europa. In giro pochi volti coperti da mascherine che lasciano intravvedere
soltanto gli occhi. In pochi giorni sono cambiate con una rapidità
allucinante le abitudini comportamentali dei senegalesi: non ci si dà più la
mano, al massimo un colpo di gomito. I bambini si divertono come i matti a
scambiarsi una toccata di piede simulando quasi un balletto.
Prendendo una strada laterale, una
qualsiasi, del quartiere “bene” Les Almadies, il gel è già però un vago ricordo.
Tra i calcinacci di un cantiere si scorgono i panni stesi da qualche signora
che di sicuro abita lì con la sua numerosa famiglia. Baracche ricavate da
lamiere arrugginite e qualche cartone. Poco più avanti, su un alto edificio in
costruzione, una decina di muratori lavorano, oltre che senza gel e mascherine,
senza elmetti e imbracature. È quasi l’una e ci saranno come minimo trenta
gradi. Poco più in là, in un ristorante improvvisato, sempre lamiere e cartone,
si preparano grandi piatti di riso.
È ora della pausa e ad aspettare
gli avanzi che non mancheranno ci sono i bambini di strada. Dall’alba al
tramonto setacciano ogni angolo di Dakar in cerca di qualche moneta, una
banana, del latte. Un giorno una donna, mangiando il suo piatto di tiéboudiène, mi
disse: «Vedi, anche se non riesco a finirlo non mi preoccupo per lo spreco di
cibo, tanto poi ci pensano i bambini di strada, i talibé». Con le
mani sporche, seduti per terra, ripuliscono i vassoi di alluminio dai pochi
chicchi di riso rimasti, a Dakar come in ogni altra regione del Paese. Ce ne
sono almeno 100.000, costretti dai loro “maestri” coranici a mendicare qualche
soldo o una zolletta di zucchero. Le premesse perché questa pandemia abbia
effetti collaterali di serie A e di serie B ci sono tutte.
State a casa…se potete
di Diego Cassinelli (da
Lusaka)
Le strade di Lusaka sono cambiate.
Il suo traffico caotico ha lasciato il posto all’asfalto. L’emergenza ha
sparecchiato la città, come si fa dopo una cena con amici, lasciando un po’ di
solitudine, silenzio e qualche macchia di vino rosso sulla tovaglia.
Le frontiere sono chiuse, ma non
del tutto. Resta aperto solo il Kenneth Kaunda International Airport, tutti gli
altri sono chiusi. Le attività turistiche nei gradi parchi del paese sono
sospese.
Gli animali tirano il fiato, la
gente la cinghia. Scuole, università e college, chiusi a tempo indeterminato.
La Lusaka dello #StayatHome
La Lusaka da bere, quella dei volonturisti in
cerca di esperienze forti per decorare il loro CV e quella del business, è
momentaneamente in pausa, con la promessa che l’intrattenimento riprenderà al
più presto. I primi uffici a chiudere sono stati quelli delle grandi
organizzazioni internazionali e delle medio\grandi Ong, che hanno una forte
componente di expat, ma sarebbe più giusto chiamarli
semplicemente immigrati.
Tutte le ambasciate hanno chiuso,
lasciando solo uno spiraglio aperto per le emergenze, una sorta di porta sul
retro dove comprare la brioche con la crema alle quattro del mattino. Alcuni
diplomatici sono stati rimpatriati, così come il personale di associazioni e
business privati. I “forestieri” rimasti, sono chiusi in casa, stanno già
seguendo le direttive del loro paese d’origine, anticipando le misure
preventive pronunciate, forse un po’ in ritardo, dal presidente dello
Zambia, Edgar
Chagwa Lungu, il 25 Marzo scorso. Sono rimasti, ma vivono con la paura di
essere perseguitati come untori, per il solo fatto di venire da paesi a loro
volta vittime di contagio. Terrore di una possibilissima violenza, che gli può
scoppiare contro, come il primo tuono di un temporale.
Tutti i bar e locali notturni, sono
stati chiusi completamente, resta una mezza misura per i ristoranti, che devono
solo fare consegne a domicilio o offrire il servizio takeaway, ma in realtà è
come fossero già chiusi, almeno per quanto riguarda gli incassi. L’economia già
agonizzante del paese, vive con il fantasma di un futuro peggiore – Si
stava meglio quando si stava peggio – qualcuno potrebbe dire. Si va
in chiesa, ma a numero ridotto e con cronometro alla mano: non più di 50
persone per un ora massimo, così come matrimoni, funerali e seminari vari.
Questa è la Lusaka che ha il
terrore negli occhi, il buio nel cassetto dove ha nascosto i sogni, la Lusaka
dello #StayatHome, con le scorte di cibo a casa e abbastanza di
fondi in banca da potersi permettere la clausura per una manciata di mesi. In
questa città, stare a casa è davvero una strategia possibile di contenimento.
E la Lusaka di chi non può
Poi c’è l’altra città, che
rappresenta la maggior parte degli abitanti di Lusaka, quelli che sono abituati
a fare i conti con le epidemie di colera, di meningite, di tubercolosi, quelli
disarmati, quelli senza ombrello. Le loro strade sono sempre affollate, perché
lo #StayatHome, è una prevenzione importante sì, ma che non
funziona per tutti. Nel Compound, (Favela o Slum) dove si vive in sette, otto o
addirittura in dieci in una stanza di quattro metri per quattro, senza
elettricità e acqua, senza finestre e con il tetto basso di lamiera che scotta
di sole pesante, forse è il caso di adottare misure alternative di prevenzione.
In una comunitá di sessantamila
persone circa, ad alta densità di popolazione, la prossimità è inevitabile come
il respiro, e la distanza di sicurezza è un lusso che non si può comprare.
Lo state a casa, non è per tutti.
Si deve uscire
Si deve uscire, se non si vuole
morire sepolti dalla povertà.
Si deve uscire, non perché – eh ma
tanto uno spritzzetino non ha mai ammazzato nessuno- ma per
prendere l’acqua in taniche gialle da venti litri, e anche più volte al giorno.
Si deve uscire, non per andare a fare la spesa, ma perché il conto corrente è
un ricercato speciale, un latitante sparito da molti anni, forse da sempre. Si
deve uscire per trovare i soldi per fare la spesa, che è il passo prima. Si
deve uscire, perché l’economia informale con cui si regge il Compound, non
ammette assenteismo sulle strade. Pena; la fame.
Si deve uscire con lunghe
passeggiate, non per far pisciare il cane, ma perché è il tuo bagno a esser
fuori e pure condiviso con altre due o tre famiglie, come quello dei nostri
nonni al tempo della guerra, ma mi raccomando #StayatHome.
In questa seconda città, c’è
preoccupazione ma non terrore. C’è la paura quasi amica, che accompagna
l’esistenza di migliaia di vite. L’emergenza è una tradizione che visita tutti
gli anni, lo stato d’allerta è un appuntamento obbligatorio al quale non si può
dare buca.
È data scritta in rosso, senza
numero, sul calendario di ogni anno.
Nelle viuzze polverose, dove la
pioggia è già ricordo, la gente parla della pandemia, di cosa succederà, di
cosa si lascerà dietro, ma nascosta tra note della voce, c’è la speranza di chi
ne ha viste tante, forse troppe. C’è quella luce tremante, che non lascia
vincere il buio attorno, forse anche con quella dose d’ancestrale fatalismo.
È la speranza di chi è
sopravvissuto come un gatto, e sa che dalle nove vite, gliene rimane ancora
qualcuna. Tutto è pronto per farsi sorprendere dalle varie ed eventuali che non
sono state considerate, ma nonostante la tragedia, e i suoi artigli, la
comunitá sorprenderà l’aggressore con un colpo di creatività, e continuerà ad
esistere con la speranza di chi conta poco, pur essendo la maggioranza.
Per il resto, state a casa… se
potete.
Ma sulla Kabiria Road la
vita scorre come sempre
di padre Renato Kizito
Sesana
Ieri pomeriggio, due brutte
notizie.
Primi tre casi di coronavirus in Zambia. Due di loro ricoverati nel Mini-Hospital di Tubalange, a due passi dalla scuola primaria frequentata dai bambini di Mthunzi. La scuola comunque adesso è chiusa, cosi come è chiusa la Saint Columba’s Secondary School, proprio di fianco a Mthunzi, e scuola di riferimento per i nostri ragazzi. I ragazzi sono tutti a Mthunzi, sereni e protetti, con ampie possibilità di gioco e di lavoro. Lo staff ha ridotto i contatti con l’esterno e minimizzato il movimento di residenti e lavoratori. I membri di Koinonia sono tranquilli, anche se ormai fra di loro ci sono alcuni anziani, come l’impareggiabile cuoca mama Edina.
Primi tre casi di coronavirus in Zambia. Due di loro ricoverati nel Mini-Hospital di Tubalange, a due passi dalla scuola primaria frequentata dai bambini di Mthunzi. La scuola comunque adesso è chiusa, cosi come è chiusa la Saint Columba’s Secondary School, proprio di fianco a Mthunzi, e scuola di riferimento per i nostri ragazzi. I ragazzi sono tutti a Mthunzi, sereni e protetti, con ampie possibilità di gioco e di lavoro. Lo staff ha ridotto i contatti con l’esterno e minimizzato il movimento di residenti e lavoratori. I membri di Koinonia sono tranquilli, anche se ormai fra di loro ci sono alcuni anziani, come l’impareggiabile cuoca mama Edina.
Poi, seconda brutta
notizia a Nairobi. ll ministro della Sanità Mutahi Kagwe inizia la
conferenza stampa che fa ogni giorno alle 18, annunciando che ci sono 8
nuovi casi confermati di coronavirus, portando il totale a 15. Degli
8, 5 sono keniani, 2 messicani e 1 francese. Tutti rientrati da pochi giorni da
viaggi in Europa e America; hanno dai 20 ai 57 anni. Si stanno rintracciando le
363 persone che li hanno contattati dopo il loro arrivo.
Il ministro osserva che la
maggioranza delle persone ignora le misure di sicurezza adottate finora, e
continuano la vita normale. Poi annuncia nuove drastiche misure che,
dice, se necessario saranno fatte eseguire dalle forze dell’ordine: dalla
mezzanotte di mercoledì sospesi tutti i voli internazionali, eccetto i cargo (l’esportazione
di fiori e primizie ortofrutticole è già in ginocchio da diversi giorni), tutti
coloro che entrano in Kenya da qualsiasi confine sono obbligati
all’auto-isolamento per 14 giorni; i Paesi che vogliono evacuare i loro
connazionali devono fare gli opportuni accordi. Inoltre tutte le persone che
stanno violando o violeranno l’obbligo di auto-isolamento saranno forzatamente
isolate e al termine saranno denunciate e dovranno rispondere in tribunale del
loro comportamento, anche fossero studenti keniani rientrati da Europa e
America. Tutti i servizi religiosi in chiese e moschee sono sospesi, ai
funerali ammessa solo la presenza di familiari più stretti. Da stasera tutti i
bar saranno chiusi fino a nuove disposizioni, e tutti i ristoranti potranno operare
fino alle 19:30, ma solo come take away, i clienti non potranno
essere serviti ai tavoli. Tutti sono invitati a restare a casa, ma non è ancora
un ordine.
Ascolto la trasmissione alla Shalom
House e poi rientro in auto a casa, a Kivuli. Purtroppo lungo la
Kabiria Road tutto è normale, negozi e bancarelle aperte, gente pressata
nei matatu, assiepata intorno ai
venditori di frittelle, di pannocchie arrostite, di chapati e
salsicce autoprodotte.
In mattinata avevo celebrato a Tone
la Maji, i bambini – una cinquantina – attenti, puliti, che osservano bene le
norme igieniche. Da venerdì diamo a tutti per merenda un bicchiere di succo
d’arancia con un cucchiaino di moringa, il supplemento nutrizionale vegetale
che coltiviamo nella fattoria di Malbes e che è anche un potente attivatore del
sistema immunitario.
Siamo in contatto le autorità per
collaborare nel trovare soluzioni adeguate per i bambini e giovani
che sono sulla strada e non hanno un posto sicuro.
Uno studente camerunese
muore a Pisa
«Un fratello, un amico, un
compagno». Così, l’Associazione degli Studenti Camerunensi di Pisa ricorda su
Facebook Christin Tadjuidje Kamdem, il giovane di origini camerunensi laureando
in Scienze Agrarie all’Università di Pisa, scomparso nella notte tra il 22 e il
23 marzo all’Ospedale di Cisanello, dove era stato ricoverato dieci giorni
prima. Residente a San Giuliano Terme, aveva solo 30 anni ed è oggi la più
giovane vittima del Coronavirus in Toscana.
Christin avrebbe dovuto laurearsi il 7 aprile. «È una notizia dolorosa che apre una profonda ferita nella nostra comunità», ha commentato il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella. «La scomparsa di questo ragazzo, a pochi giorni dalla laurea, credo sia emblematica del dramma che stiamo vivendo ogni giorno. Siamo vicini ai suoi familiari e ai suoi amici dell’Associazione Studenti Camerunensi di Pisa, a cui esprimo tutto il nostro cordoglio con una promessa: farò in modo che a questo ragazzo venga conferito, seppur alla memoria, il titolo per cui aveva faticato tanto».
Christin avrebbe dovuto laurearsi il 7 aprile. «È una notizia dolorosa che apre una profonda ferita nella nostra comunità», ha commentato il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella. «La scomparsa di questo ragazzo, a pochi giorni dalla laurea, credo sia emblematica del dramma che stiamo vivendo ogni giorno. Siamo vicini ai suoi familiari e ai suoi amici dell’Associazione Studenti Camerunensi di Pisa, a cui esprimo tutto il nostro cordoglio con una promessa: farò in modo che a questo ragazzo venga conferito, seppur alla memoria, il titolo per cui aveva faticato tanto».
Laurea
alla Memoria per Christin Tadjuidje Kamdem
La cerimonia si
terrà online il 7 aprile prossimo alle ore 14.30
È stato decretato di prima mattina
dal rettore dell'Università di Pisa Paolo Mancarella il conferimento della
laurea alla memoria in Scienze Agrarie allo studente Christin Tadjuidje Kamdem.
Nato a Bahiala (Camerun), il 28 maggio 1990 e scomparso nella notte tra il 22 e
il 23 marzo scorsi, Christin aveva già terminato tutti gli esami ed era
prossimo alla discussione della tesi.
Il conferimento avverrà, in modalità
"a distanza", il 7 aprile prossimo alle ore 14.30, ossia nel giorno e
nell'orario preciso in cui il giovane studente camerunense avrebbe dovuto
sostenere il suo esame finale per il conseguimento del titolo di dottore in
Scienze Agrarie.
"È il minimo che potessimo
fare, il giusto riconoscimento per gli sforzi compiuti da questo ragazzo
arrivato a Pisa dal suo Camerun per realizzare un sogno - ha dichiarato il
rettore Paolo Mancarella - Sarebbe stata un'ulteriore ingiustizia privarlo di
questo titolo. Dispiace dover far tutto così, a distanza, quando invece sarebbe
stato bello tributargli anche un abbraccio vero. Una volta finito tutto questo,
troveremo il modo di ricordarlo degnamente".
Per chi volesse seguire la
cerimonia in streaming questo è il link:
Ecco il piano per far
fronte all’emergenza
Come riportato dai media etiopi, i
Ministri delle Finanze africani hanno tenuto una riunione in videoconferenza
per discutere l’impatto sociale ed economico del coronavirus nei loro Paesi.
Secondo quanto riferito dalla Commissione Economica per l’Africa (ECA) delle
Nazioni Unite, già prima dell’attuale pandemia l’Africa aveva difficoltà a
finanziarie e implementare le misure e i programmi volti a realizzare gli
obiettivi di sviluppo sostenibile e gli scopi dell’Agenda 2063.
I ministri hanno ribadito che senza
uno sforzo coordinato: la pandemia di Covid-19 potrebbe generare ripercussioni
negative di grande impatto sulle economie africane e sulla società in generale,
prevendendo un calo di 2-3 punti percentuali del Pil nel 2020, secondo le più
rosee previsioni.
I ministri hanno concordato
un’immediata risposta coordinata a livello sanitario e convenuto sulla
necessità di uno stimolo economico di circa 100 miliardi di
dollari e sull’estinzione dell’interesse sui pagamenti del debito – stimato
intorno ai 44 miliardi di dollari per il 2020 – oltre a sottolineare
l’importanza di sostenere il settore privato e di proteggere i circa 30 milioni
di posti di lavoro a rischio nel continente. Una proposta, questa, che verrà
portata al G20 che si terrà domani a Riad in videoconferenza sui temi legati
all’emergenza coronavirus.
Le misure, secondo i Ministri
africani delle Finanze, dovranno essere seguite da una politica di apertura
delle proprie frontiere in modo da agevolare il commercio, con l’auspicio che
anche Europa e Stati Uniti implementino questa misura come parte del
finanziamento ai loro sistemi privati e finanziari.
Nord Africa - Il contagio
avanza
Il coronavirus ha colpito in modo
particolarmente duro il Nord Africa. In Egitto, primo Paese colpito dal
Covid-19, è stato imposto «un coprifuoco» serale e notturno per «due
settimane». La misura partirà oggi, 25 marzo, ha affermato il premier egiziano
Moustafa Madbouly. Il decreto vieta «la circolazione dalle ore 19 alle
6». Dalle 19 alle 6 è sospesa anche l’operatività del trasporto
pubblico. Resteranno chiusi i negozi e i centri commerciali dalle 17 alle
6 durante i giorni infrasettimanali (domenica – giovedì), e per tutta la
giornata durante il fine settimana (venerdì e sabato). Le sanzioni per la
violazione di tali disposizioni possono prevedere il carcere. Tutti i voli da e
per l’Egitto sono sospesi fino almeno al 31 marzo 2020. Ufficialmente i casi di
contagio sono poche centinaia, da fonti non ufficiali contattate da Africa, si
parla di migliaia di casi. Alcune fonti sanitarie si spingono ad affermare che
sarebbero addirittura 40mila.
Situazione difficile anche in Algeria.
È di 230 casi confermati e 17 decessi l’ultimo bilancio delle autorità di
Algeri. La regione più toccata è quella di Blida e il 90% dei casi sono
stati «importati» dall’Europa. Il Paese intero è di fatto in «isolamento» dopo
le ultime restrittive misure decretate dal presidente Abdelmadjid Tebboune.
Sale a 114 il numero delle persone
contagiate da nuovo coronavirus in Tunisia. È quanto emerge dai dati diffusi
ieri sera dal ministero della Salute di Tunisi. Nelle ultime 24 ore si sono
registrati 25 nuovi contagi. Finora una persona risulta guarita, mentre tre
sono morte. Undici contagiati sono attualmente ricoverati in ospedale. I
soggetti in quarantena volontaria sono 15.952.
In Marocco, sono 28 i nuovi casi di
infezione che portano a 143 il numero totale dei positivi. Lo ha annunciato il
direttore dell’epidemiologia e la lotta contro le malattie del ministero della
Salute, Mohamed El Youbi. Quattro i decessi: due nella regione di
Casablanca-Settat, uno a Rabat-Salé-Kénitra e un altro a Béni Mellal-Khénitra.
Il funzionario marocchino ha indicato che su un totale di 2.798 persone
sottoposte a sorveglianza medica nell’ambito del piano di sorveglianza
epidemiologica, 643 casi sono stati esclusi a seguito di test negativi
effettuati in laboratorio.
In Libia, la pandemia di Covid-19
non ha invece fermato la guerra a Tripoli. Nessuna delle due parti coinvolte
nel conflitto, il Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al
Sarraj da una parte e l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa
Haftar dall’altra, sembra intenzionata, secondo quanto riporta Agenzia
Nova, a rispettare la tregua umanitaria raggiunta lo scorso fine settimana
su pressioni internazionali.
La Libia è l’unico Paese della
regione a non aver registrato casi di coronavirus, fatto abbastanza curioso per
un Paese circondato da focolai e che suscita forti dubbi. L’Organizzazione
mondiale della sanità (Oms) ha avvertito dei grandi rischi della diffusione del
virus in un paese frammentato dal conflitto, attraversato da flussi migratori
illegali e con un sistema sanitario disastrato.
QUI
un dossier di Maurizio Marchi su Medicina Democratica di Livorno
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