Leggo articoli
che sembrano scritti da gente che in questi giorni ha affrontato le barricate, corso sotto
le bombe, sopravvissuta a raffiche di proiettili e a posti di blocco di feroci
miliziani: questa, dicono, è la prima vera guerra mondiale. Viene invocata
l’epifania di un nuovo Hemingway che sappia
raccontarla, vengono evocate fosse comuni (ma dove sono?) e memoriali ai
caduti.
Tanta retorica
non pensavo che fosse immaginabile, almeno quanto non era immaginabile questa
pandemia molto grave ma che per ora non ha certo le dimensioni neppure della spagnola del
1918 che fece soltanto qui in Europa venti
milioni di morti, più della stessa prima guerra mondiale. Certo bisogna fermarla ma
anche rendersi conto di come la affrontiamo a parole.
Devo dimenticarmi delle montagne di cadaveri che
ho visto nella mia vita da inviato di guerra, di gente sventrata, di uomini e
ragazzi mutilati dalle mine, di madri con gli infanti
morti nelle braccia perché senza acqua, cibo e cure, di fanciulli
con il ventre gonfio, di città distrutte, di villaggi
bruciati, di nazioni mai più ricostruite, di profughi affamati, vaganti
e piangenti per il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia e i Balcani.
Del massacro
di Sabra e Shatila, di quello Srebrenica,
delle teste mozzate in
Algeria rotolate nei fossi, dei cadaveri impiccati ai lampioni di Kabul. La
guerra in me evoca questi orrori e anche
i peggiori lutti personali: amici e amiche uccisi da un granata
improvvisa, fucilati e massacrati dai miliziani afghani, fulminati da un
proiettile di carro armato a Ramallah.
Giornali e tv
non si trattengono: linguaggio bellico a volontà e
non solo come metafora. Alimentati da leader modesti che cercano una statura
che non hanno adesso sono diventati i cecchini del runner. Vogliono farci
credere che siamo in guerra per giustificare la povertà che verrà dopo.
Qui non servono
cannoni ma medicine, respiratori, posti letto, medici, infermieri e auto-disciplina. Magari anche tamponi per la
diagnostica di tante persone a casa, febbricitanti e con l’affanno,
che vorrebbe sapere, per la loro salute e quella altrui, se è positiva al
coronavirus oppure no. Agli
altri è stato chiesto di stare sul divano non di andare in trincea,
cosa che per altro non saprebbero fare: non hanno mai fatto il servizio
militare né visto una guerra.
Preparatevi invece al punto di rottura
sociale: quando la gente non né potrà più
di stare a cantare sul balcone.
Qui invocano
l’esercito ma non sanno neppure cosa dicono. Se ne è accorto Sorgi sulla Stampa,
uno dei pochi a mantenere un minimo di sangue freddo. L’esercito servirà davvero nel
momento in cui la gente rinchiusa in casa si sentirà ancora più povera e impotente di
prima, soprattutto al Sud dove abbondano i
precari, i sotto occupati e o disoccupati. La loro frustrazione crescerà
e si sentiranno davvero ai domiciliari. Allora questa diventerà davvero
una maledetta primavera, ma senza
retorica bellica ed esagerazioni: sarà la primavera del loro scontento.
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