I giorni del coronavirus a Bulåggna (22-25 febbraio 2020)
Le
mascherine erano pantomima, non prevenzione. La maggior parte della gente lo
aveva capito, oppure prevaleva il timore del ridicolo: era pur sempre una città
che amava stare in ghingheri. Fatto sta che le mascherine si vedevano quasi
solo sui giornali e sui siti dei giornali.
Nei primi
giorni, si era trattato sempre di operatori sanitari, infermieri, gente che
lavorava in ospedale, poi erano arrivate a valanga le foto dal presunto “shock
value” (oooooh!): tizi con la mascherina davanti al Duomo di Milano o in altri
luoghi famosi.
A Bologna,
l’edizione locale di Repubblica mostrava ogni giorno foto di qualcuno che
girava sotto i portici con la mascherina. Per la verità, era sempre un fagiano
isolato, attorniato da altre e altri che non la indossavano e forse lo
compativano.
Eppure
Chiara, che lavorava in farmacia, ci raccontava di quante persone entravano e
le chiedevano mascherine, dopo aver superato almeno cinque cartelli che
avvisavano del loro esaurimento. Un conoscente si vantava di averne acquistate
on line un pacco da dieci, per tutta la famiglia, già all’inizio di febbraio.
Comprare la mascherina era un modo per sentirsi efficienti, pronti alla
battaglia. Omologati e quindi più sicuri. Era il desiderio per un oggetto solo
perché lo desiderano gli altri. Un mix di consumismo e paranoia. Very emiliano.
La
mascherina era l’equivalente individuale, personal, delle
«misure di prevenzione» imposte alla cittadinanza. Non c’era bisogno di
indossarla davvero. Contava il gesto: come certi eroinomani che rimangono
dipendenti dal buco, anche senza iniettarsi la roba. Tornato a casa, te ne
dimenticavi, la imbucavi in un armadio e tanti saluti. Pura funzione
apotropaica. Un talismano. Nel frattempo, proprio facendo la coda in farmacia,
potevi esserti beccato il virus. La deterrenza produce quel che vorrebbe
evitare.
Nel tardo
pomeriggio del 23 febbraio avevamo perlustrato due quartieri – Navile e Porto –
in cerca di mascherine. Da poche ore era arrivata l’ordinanza del governatore
Bonaccini, tanto perentoria quanto ambigua nelle formulazioni, anche per via di
un inquietante eccetera:
«Sospensione
di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma
di aggregazione in luogo pubblico o privato, anche di natura culturale, ludico,
sportiva ecc, svolti sia in luoghi chiusi che aperti al pubblico […]»
Non avevano
scritto «politica e sindacale», ma nell’eccetera molti avevamo letto
precisamente quello. «Il 29 c’è la manifestazione per Orso in Cirenaica», si
diceva nelle mailing list. «Che faranno? Mandano la Celere a caricarci in
quanto “untori”?»
L’ordinanza
proseguiva:
«chiusura
dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado
nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore,
corsi professionali, master, corsi per le professioni sanitarie e università
per anziani ad esclusione dei medici in formazione specialistica e tirocinanti
delle professioni sanitarie, salvo le attività formative svolte a distanza […]
Sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri
istituti e luoghi della cultura […] nonché dell’efficacia delle disposizioni
regolamentari sull’accesso libero o gratuito a tali istituti o luoghi.»
I musei… ma
non le biblioteche. Noi stessi, nei giorni seguenti, avremmo continuato a
lavorare nella sala studio di una biblioteca di quartiere, piena zeppa di
gente.
L’ordinanza
era piena di nonsense e buchi, tanto che
il giorno dopo una circolare applicativa avrebbe tentato di mettere toppe, col
solo risultato di rendere la situazione ancor più contraddittoria e surreale.
Dicevamo
della perlustrazione. La Bolognina era piena di gente. In Piazza dell’Unità si
giocava a basket e si chiacchierava a capannelli, come sempre. Lì accanto, il
supermercato Pam era aperto e affollato, come al solito. Nessuno faceva incetta
nevroticamente, nessuno portava la mascherina. C’erano scaffali semivuoti, ma
la domenica sera succede sempre.
Giusto il
ristorante cinese, la sera prima, aveva un aspetto diverso. In un sabato
normale, era impossibile trovare un posto a sedere senza aver prenotato.
Invece, in tutto il locale, i clienti occupavano soltanto due tavoli.
In compenso
i cinesi erano dappertutto, com’era normale in Bolognina, e nessuno che li
scansasse o gridasse loro qualcosa. L’emergenza sanitaria non faceva diventare
razzista o sinofobo chi non lo era. Semmai, faceva emergere un razzismo
pre-esistente, che usava il virus come pretesto per sfogarsi.
Un tramonto
di una bellezza da restare attoniti tingeva il cielo di scarlatto e carminio,
per contrasto facendo sembrare nera la stazione vista dal ponte Matteotti, e
trasfigurando tutto il mondo intorno. Il giorno dopo, avremmo rivisto quei
colori su Repubblica on line, a far da sfondo per posti di blocco e gente in
mascherina, come nella locandina di un film apocalittico di serie B.
A nord del
ponte, la Bolognina; a sud, via Indipendenza saliva fino al Nettuno. Eravamo
entrati in stazione ed era affollatissima, zero mascherine anche lì. Avevamo
incontrato De Bellis, una vecchia conoscenza, e scambiato due chiacchiere sulla
psicosi da coronavirus… ma intorno a noi non ce n’era traccia.
Normalità
anche dentro il Despar della stazione, niente incetta, c’era chi comprava solo
tre birre, un sacchetto di Fonzies… Intorno a piazza Medaglie d’oro i soliti
bar, le pizzerie al taglio, le gelaterie… Tutto come di consueto.
Via
Indipendenza, via dei Mille, Piazza dei Martiri, via Marconi… Là in alto, la
sagoma scura di Villa Aldini. Moltitudine di corpi a passeggio. Bambine e
bambini tornavano in costume da feste di carnevale, coi loro genitori.
Genitori
tranquilli e sorridenti. Eppure, come appurato direttamente e da testimonianze
altrui, le chat di genitori – il vero inferno del dark web contemporaneo – erano in preda alla
pazzia, sature di un vero e proprio desiderio di fascismo profilattico, e di terrore per le sorti dei
bambini.
L’allenatore
di uno sport di squadra, per ovviare alla chiusura della palestra, aveva
proposto ai ragazzini di trovarsi in un parco, visto il caldo primaverile. Una
madre gli aveva risposto sottolineando il passaggio dell’ordinanza regionale
che vietava l’aggregazione in luoghi pubblici e privati.
Eppure, in
nessuna parte del mondo, nemmeno a Wuhan, risultavano morti minorenni, anzi,
sembrava proprio che al nuovo virus i bambini fossero quasi immuni.
Forse anche
chi rovesciava nelle chat quell’ansia e quella furia, dopo, per strada, si
comportava da persona raziocinante. Anche quello era un gesto apotropaico.
Uguale e contrario a quello di chi sosteneva che il virus era solo una
barzelletta e sfornava calembours, si dava alla memetica spinta, cazzeggiava a
getto continuo. Il cinismo e la paranoia vanno a braccetto, si nutrono della
stessa sfiducia, dello stesso rifiuto per qualunque chiave di lettura del
mondo. Senza chiavi, non entri più da nessuna parte. E se ti scappa da cagare,
puoi solo cagarti addosso.
In ogni
caso, se uno non avesse avuto lo smartphone, girando per le vie non si sarebbe
accorto di nulla. Cosa dovevamo concluderne?
Forse che,
almeno a Bologna, la paranoia era in gran parte confinata alla sfera
mediatica-social.
A essere
paranoica e ansiogena era stata per prima l’informazione mainstream. In seconda
– ma rapidissima – battuta quel mood si era
impossessato della classe politica, degli amministratori locali e di una
minoranza di persone comuni. Sì, almeno da noi, sembrava proprio una minoranza:
persone perlopiù attempate e sole, che credevano alla tv o a Facebook e si
precipitavano in farmacia per accaparrarsi l’amuchina.
Si stava
generando un grande paradosso: la Regione Emilia-Romagna disponeva la chiusura
di (quasi) tutti i luoghi di cultura e socialità, quelli dove si sarebbe potuta
elaborare insieme l’emergenza – scuole, musei, teatri, cinema – e vietava le
manifestazioni con un «ecc», mentre la gente continuava ad ammassarsi nelle
stazioni e nei luoghi del consumo.
I centri
commerciali e i supermercati funzionavano as usual. Quel
pomeriggio Jadel era stato all’Ikea e riferiva del sempiterno marasma di corpi
che avanzavano a serpentone, tra camerette di bimbi virtuali e tinelli abitati
da spettri di famigliole. Bruno era passato all’Ipercoop Lame: piena zeppa.
Nelle palestre – le vedevi attraverso le vetrate che davano sui passeggi – ci
si allenava come al solito: si sudava, ci si respirava l’alito a vicenda, ci si
spogliava e si faceva la doccia negli stessi vani.
Sia chiaro,
non stiamo dicendo che dovevano chiudere anche quelli: al contrario, facciamo
notare che lo scopo dell’ordinanza non era la profilassi.
Stante quella situazione, che profilassi vût mâi fèr?
Le
strombazzate chiusure erano sanitariamente inutili, com’era stato inutile
bloccare i voli, mettere posti di blocco sulle strade, far camminare avanti e
indietro poliziotti e militari in mimetica.
L’Italia era stata l’unico paese europeo a bloccare i voli dalla Cina. Null’altro che teatro, oltreché un contentino agli idioti e mestatori che sbraitavano: «Chiudere le frontiere!» Un provvedimento facilissimo da capire, ma di nessuna utilità, anzi, controproducente.
A ogni epidemia si facevano le stesse cose, col pilota automatico, e ormai c’erano studi su studi a dimostrare che non servivano o facevano proprio danni.
L’Italia era stata l’unico paese europeo a bloccare i voli dalla Cina. Null’altro che teatro, oltreché un contentino agli idioti e mestatori che sbraitavano: «Chiudere le frontiere!» Un provvedimento facilissimo da capire, ma di nessuna utilità, anzi, controproducente.
A ogni epidemia si facevano le stesse cose, col pilota automatico, e ormai c’erano studi su studi a dimostrare che non servivano o facevano proprio danni.
Nel 2003,
in piena epidemia di SARS, il Canada aveva sperperato oltre 7 milioni di
dollari in controlli di passeggeri in arrivo… senza trovare un solo contagiato. Quei soldi, avevano
concluso gli autori di uno studio apparso sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases, sarebbe stato meglio
investirli direttamente nella sanità.
Sei anni
dopo, in pieno allarme da influenza «suina», l’Australia aveva fatto la stessa
cosa: aveva militarizzato otto aeroporti e controllato quasi due milioni di
passeggeri in arrivo o di ritorno nel Paese. Il tutto per identificare solo 154
persone che forse avevano l’influenza in
forma lieve. Anche in quel caso, a
detta di chi aveva analizzato la vicenda, si erano sprecate preziose
risorse, sottraendole alla sanità.
Lo stesso
sfoggio di inutilità si era avuto con l’aviaria, con Ebola e, in Cina negli ultimi due mesi, con lo stesso Covid 19.
Pure in
Italia stavamo assistendo a un gigantesco sperpero di soldi pubblici, spesi in
militarizzazione, posti di blocco e pattugliamenti vari anziché usati per
potenziare la sanità pubblica – indebolita da trent’anni di
«aziendalizzazione», tagli, esternalizzazioni – per renderla in grado di
affrontare un acuirsi della crisi.
Anche
l’efficacia sanitaria dei “lockdown” territoriali, cioè delle quarantene di
massa, era messa in discussione da diversi studi. Per quanto fosse
controintuitivo, alcune ricerche sembravano dimostrare che i
lockdown delle zone ad alto rischio aumentavano il numero di contagi e
l’estensione dell’epidemia.
No, la
profilassi – almeno quella in senso stretto – c’entrava poco, come con le
mascherine.
Bulåggna brancola nel buio delle ordinanze (26-28 febbraio 2020)
Tra i modi
di dire felsinei, il nostro preferito era sempre stato: «As vadd di can caghèr di viulén».
Nel
loro Dizionario bolognese, Gigi Lepri e Daniele Vitali lo rendevano con: «Succedono cose
inaudite». Letteralmente, però, si vedevano «cani cagare violini». E in quei
giorni di virus cagavano liuti, violoncelli, contrabbassi, pronti a suonare melodie
stridule.
Dopo la prima puntata del nostro Diario virale,
avevamo ricevuto decine di racconti, testimonianze, aneddoti sullo sfascio che
l’ordinanza di Bunazén stava causando nel mondo del lavoro.
La settimana
prima c’era stato lo sciopero degli edili, con manifestazione a Milano. Il 25
febbraio un’impresa di costruzioni romagnola, visto che i suoi lavoratori
avevano partecipato al corteo, li aveva avvertiti con un sms che erano tutti in
quarantena per quattordici giorni, e dovevano fare il tampone altrimenti li
metteva in cassa integrazione.
Nelle
aziende di alcune province, Confindustria voleva imporre ai dipendenti di
riempire questionari invasivi, per appurare se erano entrati in contatto con
«qualcuno che è stato in Cina/zone italiane attenzionate e presentava sintomi
come tosse e/o febbre» o se avevano avuto rialzi di temperatura «oltre 37.2°».
In alcuni call center si misurava la febbre ai dipendenti in entrata.
Il padronato,
insomma, coglieva l’occasione per aumentare il controllo aziendale sui
lavoratori. La Cgil aveva dovuto precisare:
«non è
obbligatorio compilare nessun questionario proposto dall’azienda o altri enti
che non siano quelli preposti (Dipartimento di Igiene Pubblica dell’Ausl);
l’autocertificazione che alcune imprese stanno richiedendo è illegittima oltre che essere una falsa tutela per i lavoratori […] Dobbiamo evitare che le aziende, fuori dalle procedure definite dalle Autorità competenti, in modo unilaterale prendano iniziative che possono creare allarmismo e panico e ledere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.»
l’autocertificazione che alcune imprese stanno richiedendo è illegittima oltre che essere una falsa tutela per i lavoratori […] Dobbiamo evitare che le aziende, fuori dalle procedure definite dalle Autorità competenti, in modo unilaterale prendano iniziative che possono creare allarmismo e panico e ledere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.»
Alcune
aziende usavano il coronavirus per imporre ferie forzate ai dipendenti, in modo
da fargliele smaltire tutte – a febbraio! – e averli a disposizione per il
resto dell’anno.
Vodafone
aveva indetto la chiusura nazionale «ad esclusione delle attività di vendita,
supporto vendita […] presidi del Customer Care, Security Operations Center e
Network Operations», obbligando i lavoratori degli altri comparti aziendali –
anche quelli delle zone non toccate dall’emergenza – a utilizzare le proprie
ferie. Tentativo bloccato dalla Cgil di Bologna.
Una
lavoratrice interinale era stata allontanata dal luogo di lavoro solo perché il
marito lavorava in un’azienda del modenese dove il padrone era risultato
positivo al virus.
– Solo dopo l’intervento del sindacato han tirato il culo indietro!
Di storie così ce n’erano uno sbanderno.
– Solo dopo l’intervento del sindacato han tirato il culo indietro!
Di storie così ce n’erano uno sbanderno.
Tutto questo
mentre il Garante per gli scioperi rivolgeva «un fermo invito» ai sindacati perché evitassero le astensioni collettive dal
lavoro fino al 31 marzo.
Quindi,
niente scioperi per più di un mese, proprio mentre i lavoratori subivano uno
dei peggiori attacchi degli ultimi decenni.
In teoria
non si potevano convocare nemmeno le assemblee sindacali, ma la Cgil le aveva
fatte comunque, minacciando denuncia ai sensi dell’articolo 28 se i padroni avessero cercato di
impedirle.
Ogni
vertenza era comunque bloccata, dato che lavoratori e sindacalisti dovevano
occuparsi dell’emergenza. Anche perché l’Inps dell’Emilia-Romagna aveva deciso di
chiudere, mentre tutte le attività collegate – Caf e patronati – gestite dai
sindacati restavano aperte al pubblico e assorbivano tutto il lavoro in più.
⁂
L’emergenza
che toccava affrontare non era quella del virus, ma quella generata da
ordinanze e circolari attuative, che ormai facevano epidemia per conto loro.
Scollegate una dall’altra, da regione a regione, e recepite in misura diversa
da comune a comune, con direttive applicative che si susseguivano a distanza di
24 ore, per rammendare i buchi che le direttive precedenti avevano prodotto.
A Bologna si
toccavano picchi di ridicolo. «Bologna non si ferma», aveva detto il
sindaco Merola mentre chiudevano musei, cinema e teatri,
saltavano festival e fiere…
Restavano aperte le biblioteche. Proprio nelle biblioteche scrivevamo il Diario virale.
In quella più grande, Sala Borsa, frequentata da migliaia di utenti al giorno, l’amministrazione dispensava i dipendenti comunali dai contatti col pubblico. Precauzione che però non valeva per i lavoratori ausiliari della coop appaltatrice, i quali evidentemente potevano essere esposti al virus, purché mandassero avanti la baracca. [Su questo cfr. la precisazione nei commenti, N.d.R.]
Restavano aperte le biblioteche. Proprio nelle biblioteche scrivevamo il Diario virale.
In quella più grande, Sala Borsa, frequentata da migliaia di utenti al giorno, l’amministrazione dispensava i dipendenti comunali dai contatti col pubblico. Precauzione che però non valeva per i lavoratori ausiliari della coop appaltatrice, i quali evidentemente potevano essere esposti al virus, purché mandassero avanti la baracca. [Su questo cfr. la precisazione nei commenti, N.d.R.]
La circolare
applicativa della regione non disponeva la chiusura dei centri sportivi, ma la
sindaca di un comune della cintura aveva deciso di chiuderli lo stesso. Così i
dipendenti So.Ge.Se delle piscine di quel comune erano rimasti a casa, mentre
quelli delle piscine di altri comuni continuavano a lavorare. Quella gente
doveva spendere giorni di… cosa? Malattia? Ferie? Cassa integrazione?
Con le
scuole chiuse, gli insegnanti percepivano comunque lo stipendio, ma i servizi
di pulizia e mense erano in gran parte esternalizzati, e quei lavoratori erano
senza paga. Idem i lavoratori del privato sociale, spesso impiegati nel
sostegno alla didattica. Per loro i sindacati avevano chiesto il fondo
d’Integrazione salariale, la vecchia “cassa integrazione”. Un sussidio noto per
i suoi cronici ritardi e comunque ridotto del 20/30% rispetto allo stipendio.
In realtà, i servizi svolti da quei lavoratori erano già pagati, già a
bilancio, perché le cooperative che li fornivano avevano vinto bandi pubblici. Non
ci sarebbe voluta chissà quale organizzazione per far arrivare quei soldi
subito nelle tasche dei lavoratori. Dove invece non c’era un baiocco che
inzuccasse con quell’altro.
I lavoratori
delle coop sociali o delle piattaforme di servizi a domicilio – come
l’accompagnamento di disabili e malati, la formazione e aggiornamento sui
luoghi di lavoro, ecc. – si vedevano cancellato ogni appuntamento e di
conseguenza i guadagni di intere settimane.
L’intero
settore dello spettacolo era stato scaraventato in una crisi senza precedenti.
Le imprese coinvolte non potevano sostenere i costi della chiusura, così
finivano per chiedere ai lavoratori di rinunciare allo stipendio, o al posto di
lavoro stesso. Il rischio della chiusura definitiva di piccoli teatri e cinema
era altissimo.
Non solo:
tutti i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di personale o di pubblico
erano a rischio. Ogni azienda bloccata dall’ordinanza si ritrovava ad
affrontare il problema senza avere ricevuto la minima indicazione su come
comportarsi.
Le disdette
nel settore alberghiero e turistico arrivavano a raffica, sui giornali si
parlava di un calo del 40% a livello nazionale. Tutte le fiere bolognesi erano
state rimandate a maggio. Anche le forniture iniziavano a scarseggiare e molte
aziende dovevano mettere in cassa integrazione i dipendenti perché
impossibilitate a proseguire la produzione.
I sindacati
gestivano l’emergenza caso per caso, azienda per azienda, cercando di non far
perdere giornate di stipendio e chiedendo l’attivazione degli ammortizzatori
sociali straordinari alle amministrazioni e al governo, che invece
baccagliavano di «zone rosse» da isolare. L’insipienza di una classe dirigente
selezionata in peggio da anni di retoriche populiste e tecnocratiche risultava
in tutta la sua evidenza.
Anche
l’accavallarsi di competenze amministrative e governative faceva danni,
dimostrando che gli ambiti non erano chiari a nessuno.
Un
lavoratore del modenese, malato di polmonite e positivo al coronavirus, era
stato invitato dai medici a non recarsi all’ospedale, per non rischiare di
infettare altri pazienti, e a farsi assistere a casa; ma il Prefetto era
intervenuto per imporre il ricovero, nonostante il precedente dell’ospedale
“bomba” di Codogno.
Il
governatore delle Marche, benché nella sua regione non risultasse nemmeno un
contagiato («ma abbiamo avuto casi al confine, a Cattolica»), aveva
decretato la chiusura delle scuole. Il governo centrale aveva impugnato il provvedimento, talmente peregrino da
illuminare la peregrinità degli altri. «No a iniziative autonome dei
governatori», aveva tuonato il premier Conte. Il TAR gli aveva dato ragione.
Lo stesso
Conte ora parlava espressamente di «rischio recessione» e chiedeva di abbassare
i toni.
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