Nel mezzo della crisi causata dal Covid, dilagano due fenomeni: quello dei negazionisti del morbo e quello dei negazionisti del disciplinamento
Due malattie conformano da marzo il nostro quotidiano: un morbo ed
il disciplinamento sociale. Nel caos da spiazzamento che è
scaturito con la crisi del Covid (e che ha comportato tra l’altro un balzo
all’indietro del 10% del Pil) si sono affermati nel sociale due corposi
schieramenti d’opinione: quello dei negazionisti del morbo e quello dei
negazionisti del disciplinamento.
I negazionisti del morbo lanciano i loro strali sul
disciplinamento, ne descrivono le caratteristiche totalitarie e vagheggiano la
presenza di un piano per sedimentare nella società una struttura omologante e
autoritaria attraverso una malattia artatamente esagerata. Dall’altra polarità
invece, i negazionisti del disciplinamento si
focalizzano sull’onnipotenza del morbo, sottostimano i dispositivi normativi
imposti o autoimposti, tendendo in sostanza ad affidarsi senza dialettica
alcuna all’apparato, partecipando in modo spesso silente a un processo di
assiepamento che tende a coagularsi inevitabilmente intorno a leader
paternalistici o autoritari. La compressione costituzionale, l’ordinaria
violenza ottica e fisica dell’odierna società con il velo sanitario, sembrano
fornire ottimi argomenti ai primi, mentre la mortalità di aprile a Bergamo e
l’aumento esponenziale delle terapie intensive in questa seconda ondata
del contagio forniscono razionali e solidi argomenti ai secondi.
E nel frattempo la società tutta si disciplina, avverando l’eterno sogno
d’ogni tiranno: avere alla propria mercé un popolo ammassato e diviso, che
ritrova una flebile sintesi alle proprie paure giusto intorno al trono, un
trono invocato da un trauma che ha reso ormai il quotidiano irriconoscibile. Il
distanziamento sociale, data la perdurante assenza di momenti strutturati di
incontro (pensiamo ad esempio al crollo dell’offerta culturale di prossimità,
ben maggiore di quello del Pil), tende oggi a contribuire alla radicalizzazione
delle opinioni, riduce sempre più gli spazi di ricucitura delle narrazioni,
estremizzandole. I meccanismi premiali tipici dei social network inoltre moltiplicano
viralmente questi posizionamenti trasformandoli in verità documentate dalla
semplice ridondanza dei messaggi. L’aspetto oggi più inquietante è che i
tanti negazionisti del morbo contrastando quella che loro
chiamano una «dittatura sanitaria» non trovino migliori
alleati che dei novelli condottieri autocratici; e infatti alcuni abili
voltagabbana dal piglio autoritario (pensiamo a Trump o
Bolsonaro) si ergono ormai a portabandiera di una nebbiosa denuncia
dell’irreggimentazione sociale, spinta da non meglio specificati «altri» poteri
occulti. Una contorsione che ricorda il bipensiero orwelliano e il vittimismo
tipico della mentalità totalitaria raccontata da David Bidussa. Il morbo insomma irregimenta da sé,
spinto da entrambe queste polarità, offrendo infinite occasioni alla burocrazia
statale nel suo complesso per allargare il recinto del suo intervento
paternalista teso a colonizzare sfere biopolitiche finora tutelate. E
parallelamente queste due tifoserie dilagano nel sociale, alimentando la
focalizzazione del potere in una spirale che si autoalimenta. La guerra al
morbo si incarna infatti in un onnivoro potenziamento d’autorità che
non risparmia i gironi inferiori, quelli dei vassalli, nei quali si rafforza il
sindaco bifolco, il patriarca, il poliziotto, il sicofante di condominio, il
pilota dell’autobus con ritrovato distintivo.
Riconoscere il morbo come oggettività e contrastare al contempo
l’irregimentazione sociale che ne deriva ed eccede, pare un’operazione troppo
complessa per la temperie dominante. Senza immaginare un «loro» che
agiscono contro «le libertà individuali» sulla base di un «morbo
inventato» viene infatti a mancare un soggetto-feticcio su cui
scaricare la Frustrazione. E così si alimenta ciò che si esorcizza e si
diffonde ciò che si crea. Si crea l’untore misterioso del «complotto
medicalizzante» come al tempo del pogrom si creava il panettiere
profittatore, l’ebreo usuraio o la strega. Solo in apparenza questa
frustrazione si scarica su un «loro» che venga poi realmente
soggettivizzato al vertice della piramide sociale, molto più frequentemente
l’aggressività retorica si concentra invece sui presunti «collaborazionisti» di
prossimità, sulle masse che ancora non credono al complotto.
Tra i negazionisti del disciplinamento le cose non vanno
meglio. È un quotidiano lasciarsi andare all’autorità, è un’invocazione
passivizzante al pater familias perché intervenga visto che «non siamo
capaci di controllarci», perché Lui ci mostri nelle conferenze stampa i
disegni coi cuoricini che i bimbi gli mandano, ci legga un po’ di quei numeri
che sono capaci prima di spaventarci e poi di rassicurarci quando infine giunge
la sapiente slide riconciliante che chiude con «l’andate in pace» questa
messa laica. La paura ci insegna ogni giorno a ricondurre il narratore
istituzionale a una nuova figura familiare e l’isolamento sociale ci aiuta a
riconfermarlo nella sua carica, così egli prende il posto del prete e
dell’introvabile medico di famiglia. E le frustrazioni trovano altri e diversi
feticci di comodo, si scaricano sui giovani che bevono per strada, sui
negazionisti del Covid, sugli indifferenti dal naso impertinente che sbuca
sopra la mascherina blu, esattamente come a marzo si accanivano sui runner che
sfiatavano durante la corsetta intorno al palazzo.
La voce di chi non si polarizza, di chi cerca un baricentro mobile tra
dispositivi e malattia, tra queste fazioni retoriche solo apparentemente in
lotta, quella voce che invoca la complessità, oggi appare assai flebile,
incapace di aver presa sulla roccia, oggettivamente poco suadente. Senza la
forza di denuncia del complotto né quella di denuncia dei dissidenti
smascherati, le manca un feticcio pratico, una coperta di Linus alla portata
dello stress. È per questo che mentre le due tifoserie sociali risultano fluide
e si riesce nel discorrere quotidiano a passare dai temi cardine di una a
quelli dell’altra anche nel medesimo discorso, una riflessione sulla
complessità del fenomeno oggi non ha alcun grip, manca di un
invocato piglio decisionista. Essa narra banalmente di un morbo di cui è
necessario il contrasto ma che al contempo si sta incarnando in dispositivo, e
di un dispositivo che sedimenterà ben oltre il morbo, che farà radicare un
diffuso modo di intendere l’autorità e gli altri. Narra di un cambio d’epoca,
in cui la fine sanitaria della malattia non coincide con la
sua fine sociale come ci spiega Gina Kolata sul New York Times. Un cambio di
paradigma che confermerà quello che Daniele Rambaudi scriveva a proposito della
forma mentis figlia del fascismo e ampiamente sopravvissuta nella retorica
sociale del dopoguerra.
Il pensiero complesso perde così ogni giorno terreno in questo dibattito
sacrificale che esige di trovare un prossimo di comodo su cui scaricare la
rabbia per l’impotenza che deriva dalla sorpresa, dal trauma
collettivo, dalla negazione freudiana delle sue conseguenze.
La complessità non verrà invocata dal sociale per affrontare questo
problema complesso, rimarrà ai margini del dibattito pubblico per lungo tempo.
E nello stesso momento è caso di incoraggiarla decisamente, controcorrente,
incessantemente, perché essa appare l’unico argine alla presente deriva.
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