Quando la scienza si dichiara impotente si riscoprono i vecchi rimedi e di fronte a un virus sconosciuto e altamente aggressivo, così si è usato l’isolamento come principale forma di difesa.
Per primo l’ha sperimentato la Cina, poi è toccato all’Italia, alla Spagna,
alla Francia e a tutte le altre nazioni del mondo.
E se in un primo momento sembrava che il disagio
maggiore fosse per la perdita di libertà di movimento, ben presto abbiamo
capito che le conseguenze peggiori erano sul piano economico.
Perché assieme alle porte delle case si sono chiuse anche quelle degli
uffici, dei negozi, delle fabbriche.
E se gli economisti si preoccupavano per il Pil, noi ci preoccupavamo per
la nostra sopravvivenza: di che saremmo campati se non potevamo più recarci al
lavoro?
La tecnologia ha cercato di rassicurarci
dicendoci che avremmo lavorato a distanza con i computer. Una forma di lavoro
addirittura più comoda, più sostenibile, più soddisfacente, in una parola
più smart, per dirla all’inglese.
Ma il Fondo Monetario Internazionale ha gettato acqua sul fuoco: in un
recente articolo ci ha informato che il telelavoro non è per tutti.
Non solo perché richiede un’attrezzatura e una
connessione che non tutti hanno, ma anche perché non si addice a chi deve
produrre beni o a chi deve rendere servizi diretti.
La conclusione è che il telelavoro ha buone possibilità di espandersi nelle
economie ad alta incidenza di servizi di concetto, molto meno in quelle basate
sul manifatturiero, sull’agricoltura, sulle costruzioni.
Il che mette subito fuori gioco gran parte dei paesi del Sud del mondo dove il grosso delle famiglie vive
ancora di agricoltura o di piccoli servizi resi in ambito urbano.
Fra le economie avanzate, quelle a più alta capacità di telelavoro sono
Norvegia, Svezia, Singapore, mentre Italia e Grecia si trovano ai gradini più
bassi. Da una ricerca condotta da Tito Boeri e altri, risulterebbe che solo il
23% dei lavori svolti in Italia possono essere eseguiti da remoto,
principalmente in ambito amministrativo, finanziario, educativo.
Ciò nonostante la Cgil
sostiene che in Italia il telelavoro è passato da 500mila unità prima della
pandemia a otto milioni durante il lockdown, il 35% di tutti gli occupati.
Ma solo il 3% dei telelavoranti ha un diploma di scuola media inferiore,
mentre quelli con laurea sono il 45%. Considerato che le mansioni più
facilmente informatizzabili sono quelle intellettuali e ad alto titolo di
studio, non c’è da stupirsi se il Fondo Monetario Internazionale conclude che
il telelavoro non è cosa per poveri.
Durante il lockdown, i lavoratori di tutto il mondo si sono divisi in tre
gruppi: quelli che hanno continuato a lavorare recandosi sul posto lavoro,
quelli che hanno virato al telelavoro e quelli che lo hanno sospeso.
Secondo l’Ocse le percentuali dei tre gruppi per l’Italia sono 25, 41, e
34%, ma ci vorrà ancora del tempo per sapere se tali stime possono essere
confermate. In ogni caso sembra accertato che l’Italia, insieme a Canada e Gran
Bretagna, è fra i paesi che ha registrato il maggior numero di lavoratori
sospesi.
Complessivamente, l’Organizzazione Internazionale
del Lavoro (Oil) stima che nel secondo trimestre 2020 le ore lavorate a livello
mondiale si sono contratte del 17,3% rispetto al quarto trimestre del 2019,
qualcosa corrispondente al lavoro di quasi mezzo miliardo di lavoratori a tempo
pieno.
Ma le conseguenze non sono state uguali per tutti. Meno peggio è andata ai
lavoratori dei paesi ad economia avanzata dotati di buoni ammortizzatori
sociali.
Tipico il caso dell’Italia che già dal 1945 dispone della Cassa
integrazione guadagni, il fondo istituito presso l’Inps per assistere i
lavoratori occupati in imprese afflitte da momentanee difficoltà economiche.
Altrettanto vale per la Francia attrezzata col programma denominato Activité
partielle, per la Germania provvista del Kurzarbeit, per l’Australia
dotata del Job Keeper Payment, per l’Olanda munita del Dutch
Emergency Bridging Measure.
Si stima che nell’insieme dei paesi Ocse, i
lavoratori assistiti da programmi governativi in occasione del lockdown siano
stati 60 milioni.
Solo in Italia, secondo la Uil, sono stati 8,4 milioni, operazione resa
possibile grazie alla decisione del governo di potenziare il sistema della
Cassa integrazione per tutto il 2020 con una somma che secondo i calcoli
dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio ammonta a 22 miliardi di euro. E non è
tutto.
Ad essi vanno aggiunti altri 8 miliardi di euro stanziati per fornire
assegni una tantum, di importo variabile fra i 500 e i 1.000 euro, a una platea
di altri milioni di persone formate da lavoratori domestici, lavoratori
stagionali, partite Iva, piccoli professionisti, insomma tutto quel variegato
mondo di lavoratori autonomi e parasubordinati che pur godendo di inquadramento
giuridico soffrono di un alto livello di precarietà.
Peggio di loro solo i lavoratori del sommerso, i dannati dell’economia
informale, che alla precarietà aggiungono l’illegalità. E proprio perché
illegali è come se non esistessero. Inesistenti eppure i più numerosi.
Per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro i
lavoratori informali sono due miliardi, il 62% di tutti gli occupati a livello
globale.
Addirittura il 90% nei paesi a basso reddito, per
scendere al 67% nei paesi a reddito medio e al 18% in quelli ad alto reddito.
A seconda dei continenti, li incontri nelle discariche, nei mercati
generali, nei campi, ma anche nei piccoli laboratori gestiti da padroncini
anch’essi illegali.
Il blocco della produzione nei paesi ad economia avanzata si è ripercosso
come uno tsunami sulle economie dei paesi più poveri.
In Europa 60 milioni di lavoratori hanno ricevuto un sostegno al reddito,
non nelle nazioni meno avanzate. La riduzione delle esportazioni, il crollo
dei prezzi delle materie prime, hanno ridotto anche i consumi e le attività
interne con un effetto a catena su tutta l’economia.
E come se non bastasse si sono ridotte anche le rimesse degli emigranti, i
soldi che i lavoratori emigrati mandano alle proprie famiglie rimaste nei paesi
di origine.
La Banca Mondiale stima che quest’anno, a causa del lockdown, i soldi
inviati dai migranti verso i paesi più poveri subiranno una contrazione del
20%, passando da 554 a 445 miliardi di dollari.
Cento miliardi in meno che non peggioreranno solo la condizione delle
famiglie riceventi, ma di molte altre per l’aumento della disoccupazione che i
minori consumi provocheranno.
E l’Oil avverte: la povertà avanzerà ovunque se
non si prendono provvedimenti a favore dei lavoratori dell’economia informale.
Ma l’unico ad avere accolto l’appello è stato Papa Francesco che proprio il
giorno di Pasqua ha inviato una lettera ai movimenti che organizzano i
lavoratori informali del Sud lanciando una grande sfida: «Forse è arrivato il
momento di pensare a un salario universale che dia dignità ai lavori
insostituibili che svolgete. Un salario garantito affinché nessun lavoratore
sia privato dei propri diritti».
Utopia? Forse, ma l’Organizzazione Internazionale del Lavoro suggerisce
anche iniziative poco costose per sostenere i lavoratori più fragili,
iniziative che pur non dando piena risposta alla sollecitazione di Papa
Francesco, aiutano a superare le difficoltà create dal lockdown.
Ad esempio sovvenzionando il mercato dei generi
alimentari affinché tutti possano comprare almeno gli alimenti di base.
I paesi del Nord potrebbero facilitare una scelta in tal senso attivando
una linea di cooperazione appositamente dedicata, ricordandosi che quando la
povertà si fa prepotente, altri due mostri rialzano la testa: la schiavitù e il
lavoro minorile.
La schiavitù come conseguenza dell’indebitamento e il lavoro minorile come
tentativo per integrare i ridotti guadagni degli adulti.
L’Oil stima che a causa della crisi provocata dal Covid, quest’anno altri 42–66 milioni di bambini
potrebbero essere inghiottiti dalla miseria estrema, aggiungendosi ai 386
milioni che già versavano in questa condizione nel 2019.
E nel frattempo non dobbiamo dimenticare che in molti paesi del Sud neanche
i lavoratori formali sono stati sostenuti. Lavoratori verso i quali abbiamo
degli obblighi perché producono le nostre scarpe, le nostre camicie, i nostri
computer. Lavoratori inseriti in filiere produttive talvolta al servizio
esclusivo dei grandi marchi dell’abbigliamento, dell’informatica,
dell’alimentazione.
Il lockdown ha provocato sospensioni di massa in paesi come il Bangladesh,
il Vietnam, la Cambogia, ma anche Serbia, Albania e altri paesi dell’Europa
dell’Est.
Nei loro confronti i grandi marchi dovrebbero mettersi una mano sulla
coscienza, ricordarsi dei tanti profitti che hanno potuto realizzare grazie al
lavoro duro e malpagato effettuato dai lavoratori di questi paesi e accettare
di indennizzarli per la sospensione delle commesse.
I loro bilanci non ne risentirebbero, mentre si scriverebbe una nuova
pagina nella storia dei diritti dei lavoratori a livello globale.
Articolo pubblicato anche sull’Avvenire
Nessun commento:
Posta un commento