lunedì 26 ottobre 2020

papa Francesco non si arrende

 

Ingozzati di connessioni, vuoti di fraternità - Francesco Bellusci

Dobbiamo decidere di diventare tutti fratelli per salvaguardare la terra, e di diventare fratelli con la terra, con la nostra “casa comune”, per salvaguardare noi stessi. Si può sintetizzare in questa maniera il filo rosso che porta Papa Francesco a scrivere, a distanza di cinque anni dalla Laudato si’, la nuova enciclica: Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, ancora una volta con un esplicito richiamo al santo di Assisi. In modo conseguenziale, essa risponde a un’esigenza che interpella anche il pensiero laico: riflettere sul modo in cui quell’imperativo cruciale di “fratellanza universale”, che scaturisce dall’emergenza ecologica planetaria, stride con la constatazione che “la fraternità rimane la promessa mancata della modernità” (Francesco lo dice nella Lettera al Presidente della Pontificia Accademia per la vita del 6 gennaio 2019, Humana Communitas) o che, per dirla con le parole del predecessore Benedetto XVI, «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».

 

Scolpita e sacralizzata nel motto della Rivoluzione francese del 1789, Liberté, Égalité, Fraternité, essa indica, da quella data, un modello laico e politico di fraternità, alternativo a quello di matrice religiosa e monastica che accomuna gli uomini nel “corpo” di Cristo e in una vita comunitaria chiusa: è la fraternità repubblicana, che unisce gli uomini per la loro umanità sociale. Un modello che, però, ha sostanzialmente fortuna fino al 1848, quando ancora, per esempio, sull’onda degli entusiasmi per i “moti” che hanno riportato la repubblica in Francia e dopo aver piantato un albero della libertà in Place des Vosges, a Parigi, Victor Hugo, durante la cerimonia, esorta solennemente la folla convenuta: “Adoperiamoci come uomini di buona volontà, senza risparmiare fatica e sudore. Diffondiamo nel popolo che ci circonda, e oltre, nel mondo intero, la simpatia, la carità, la fraternità”. Dopo di allora, ha ceduto il campo alla preminenza valoriale di libertà ed uguaglianza e alle controversie ideologiche che la loro difficile coesistenza ha originato. Rispetto ai risvolti giuridici e concreti che i diritti alla libertà e all’uguaglianza possono avere, il principio della fraternità è apparso politicamente inconsistente, per il suo lato sentimentale o squisitamente morale. Quando, poi, ha assunto un volto politico, nella storia occidentale, lo ha fatto nella manifestazione perversa di “fraternità chiuse” come il nazionalismo o l’estremismo o, addirittura, in quella che, in Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt chiama “fraternità nell’abiezione” e che lega gli uomini omologati dall’ideologia e dal terrore, privati di libertà e individualità, nei regimi totalitari. 

 

Anche il filosofo neocontrattualista John Rawls, nel celeberrimo A Theory of Justice (1971), riconosce il ruolo secondario avuto dal principio di fraternità nello sviluppo storico e nella teoria della democrazia e pensa di aggirarne la debolezza politica, razionalizzandolo nell’idea “di non desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene”. Ma la provocazione intellettualmente originale dell’ultima enciclica di Francesco è proprio quella di riabilitare gli aspetti sentimentali e affettivi della fraternità e di sottolinearne la valenza politica che possono assumere nella nostra congiuntura storica. Parimenti, non dimentica di ricordare come la fraternità può puntellare e “offrire qualcosa di positivo alla libertà e all’uguaglianza” (FT, 103), impedendo a queste di degenerare in individualismo patologico o in sodalizio fanatico e intollerante. Secondo una linea di ragionamento non lontana da quelle tendenze “autocritiche” della modernità espresse dai padri della sociologia classica e che proponevano di tradurre e attualizzare il principio di fraternità con quello di comunitarismo o di solidarietà sociale, nella seconda metà del XIX secolo. Ma, oggi, la sfida da cui quella “promessa mancata” della modernità può essere ripresa, è proprio accettare l’altro messaggio che percorre tutta l’enciclica: la fraternità o è aperta e universale, o non è. O concerne e affratella una sola umanitàin un solo pianeta, o non è. Proprio interpretando esplicitamente le parole di Francesco su questo tema e che ora sono confluite nell’enciclica, è stato Zygmunt Bauman a dire, nel suo libro postumo Stanger at Out Door, che “la scelta tra la sopravvivenza e l’estinzione dipenderà in definitiva dalla nostra capacità a ‘vivere fianco a fianco’ nella pace, nella solidarietà e nella cooperazione, tra sconosciuti che non condividono necessariamente le stesse opinioni e gli stessi gusti”. Come avverte Francesco nell’enciclica: “Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un ‘noi’ che abita la Casa comune” (FT, 17).

 

Lo stato agonizzante in cui oggi versa la fraternità, in un mondo paradossalmente iperconnesso mediante le tecnologie digitali, ne reclama allo stesso tempo l’urgenza. Le disuguaglianze, le discriminazioni, l’intolleranza, la minacciano e la indeboliscono. Indici del suo avvizzimento, secondo Francesco, sono le tensioni internazionali, la crisi della capacità regolativa del diritto internazionale, l’insorgenza di nazionalismi e sovranismi, la cultura dello “scarto” (non solo di rifiuti, ma di poveri, emarginati, disoccupati), l’atteggiamento ostile verso i migranti, i diritti umani non sufficientemente universali, le correnti di odio che attraversano la Rete... Ma, anche all’interno delle società più progredite e liberali e di “regioni” del mondo più integrate come l’Europa, è la pulsione del risentimento, la ruminazione vittimista, a fomentare nuove chiusure, divisioni, la risorgenza di razzismi e xenofobia, e quelle forme politiche populistiche e regressive che sviano dalla prospettiva, ormai ineludibile per la nostra salvezza, “di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale” (FT, 154). Rigenerare la fraternità nel mondo attuale significa rigenerare sia le relazioni umane e sociali, sia le relazioni internazionali, tenendo a mente, in un caso, il gesto del buon samaritano, in grado di mostrare “che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri” e che “la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro” (FT, 68) e, nell’altro caso, che “una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità” (FT, 148).

 

Ancora una volta, fungendo da tragico contraltare a un mercato planetario che non ha saputo finora suscitare sentimenti di fraternità, è stata la tragedia globale della pandemia a diffondere effettivamente “per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti” (FT, 32). La presa di coscienza delle interdipendenze globali cresce con il germe di un’etica della vulnerabilità che può finalmente integrare l’etica classica della virtù, che, pur denunciando l’egoismo, trascura di riconoscere l’importanza dell’umiltà, intesa come esperienza soggettiva della propria fragilità e carnalità. Questi due elementi possono effettivamente e simultaneamente concorrere, per la prima volta nella storia dell’umanità, alla nascita di una comunità planetaria e di una fraternità concretamente universale, che, allo stesso tempo, costituisce una novità e una Aufhebung delle due esperienze di fraternità storicamente compiute fino a oggi, almeno in Occidente: la fraternità cristiana e la fraternità laica repubblicana.

 

L’invito del Papa, con questa enciclica, è quindi a cogliere il kairòs del momento storico che viviamo e “recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni”, senza la quale “l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto” (FT, 36), allineati, potremmo aggiungere, in uno sciame digitale di “io minimi”, come li definì tempo fa Christopher Lasch, dediti alla sopravvivenza in un tempo di incertezza e di collasso. Già da oggi le contraddizioni e le crisi del nostro tempo ci richiamano a una responsabilità più estesa e ci pongono immediatamente “davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza” (FT, 69). Solidarietà o morte, simbiosi o morte, fraternità o morte. Nessuno si salva da solo, siamo tutti sulla stessa barca, ammonisce Francesco. Questa è la sola certezza del futuro incerto che ci attende. Un futuro che non possiamo programmare, ma nel quale possiamo scegliere un percorso. Il percorso della fraternità, con la libertà e l’uguaglianza.

 

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Quel passo indietro di Francesco - Paolo Cacciari

 

“Fratelli tutti” è una citazione delle Ammonizioni di Francesco d’Assisi. Le regole di vita che dovevano seguire i suoi monaci e non solo. Come il Cantico delle creature ha ispirato papa Bergoglio nella Laudato si’ nel definire quali dovrebbero essere i rapporti tra gli esseri umani e la natura, così il Poverello d’Assisi nella nuova “enciclica sociale” Fratelli tutti torna ad indicare il cammino della Chiesa nel mondo secondo la visione di papa Francesco. Ma, se la prima enciclica ha imposto all’attenzione del mondo i nuovi paradigmi dell’ecologia politica (leggi Il Cantico che non c’era), la seconda – a mio modestissimo avviso, da osservatore agnostico – non mi pare avere la forza di rovesciare i fondamenti dell’economia (che è) politica vigente e dominante. Contrariamente allo sbarramento di fila alzato dalle destre interne ed esterne alla Chiesa e alle aspettative della sinistra alla ricerca di sentieri post-capitalisti, non mi pare proprio che Francesco possa essere definito un “papa comunista”, peggio: seguace di “Marx, Lenin e Mao”, secondo il filosofo Marcello Veneziani sulle pagine de “La Verità”. Dico ciò senza sminuire gli allarmi e gli appelli lanciati dal papa Francesco per fermare la dinamica autodistruttiva imboccata dall’umanità per colpa dei potenti della Terra.

Nella Fratelli tutti vi sono due importanti sistemazioni teoriche, alcune conferme e altre perplessità da iscrivere nella categoria delle mie personali aspettative deluse. Incomincio dalle novità.

Il no alla guerra e all’ergastolo (“morte nascosta”[paragrafo 268]) – oltre alla pena di morte – si richiamano al principio etico assoluto, non negoziabile della nonviolenza. Ne sono conferma le riconoscenti citazioni di Martin Luther King, Desmond Tutu e Mahatma Gandhi. All’appello manca ancora solo Lev Tolstoj, a cui evidentemente non è stato ancora perdonato il suo pungente anticlericalismo. L’enciclica va esplicitamente oltre i dettati del Catechismo e i tradizionali atteggiamenti della Chiesa che è stata spesso benevola nei riguardi delle “guerre apparentemente umanitarie, difensive o preventive”[258]. Comportamenti non più ammissibili per Bergoglio, perché: “Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’. Mai più la guerra!” [258]. Bergoglio quindi pensa che sia avvenuta una cesura epocale che deve portare al riconoscimento della inviolabilità di ogni persona: “Ogni essere umano possiede una dignità inalienabile” [213]. Che è la filosofia dell’intera enciclica.

La seconda, definitiva e perentoria presa di posizione di papa Bergoglio riguarda l’emigrazione: “Il diritto a non emigrare” e, contemporaneamente, “Il diritto di ogni essere umano a trovare un luogo dove poter realizzarsi” [129]. La novità sta nell’argomentazione (una conseguenza diretta di ciò che già veniva scritto nella Laudato si’): se in natura tutto è connesso e interdipendente allora nella “casa comune” deve valere il “principio dell’uso comune dei beni creati per tutti” e il conseguente “principio della destinazione universale dei beni creati” [120]. Parole che hanno fatto scalpore nella destra conservatrice perché vengono messe in discussione la sovranità nazionale e la stessa proprietà privata. Da qui le invettive sui giornali, e non solo, contro il “papa comunista”. In realtà l’“enciclica sociale” di papa Francesco (una summa dei suoi scritti) non aggiunge molto – a mio parere – alla consolidata Dottrina sociale della Chiesa. Già Pio XI, all’indomani della crisi del ‘29 criticava duramente l’imperialismo finanziario internazionale e poi Paolo VI (Populorum Progressio), Wojtyła e Ratzinger scrivevano che il diritto alla proprietà privata non è né assoluto né intoccabile. Vero è che Bergoglio rafforza le critiche al “modello economico fondato sul profitto” [22] facendo leva sugli evidenti fallimenti e le crisi drammatiche che tale modello sta provocando. “Qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro” [33]. Invece: “l’impero del denaro” [116] ha acuito le povertà, le disuguaglianze, la mancanza di lavoro, della terra e della casa e comporta “la negazione dei diritti sociali e lavorativi” [116]. Quindi, “Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri” [122]. Attenzione anche alle rappresentazioni false e di comodo della realtà. Ad esempio, spiega Bergoglio: “Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale (…) La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico”. Come dire: misurare la povertà sulla base della disponibilità di qualche centesimo di dollaro in più o in meno al giorno significa non tenere conto delle condizioni reali in cui si trova l’umanità negli inferni delle periferie delle megalopoli del terzo mondo o nelle campagne desertificate dai cambiamenti climatici.

Ciò detto, vengo alle delusioni.

Se la critica alle “visioni economiciste” [168], alle “regole e ai sistemi esistenti” [7] e agli “strumenti di dominio” [14] emerge chiara e potente dalle parole del papa, manca invece la individuazione e la denominazione delle “cause strutturali” [116] che sono all’origine delle ricorrenti crisi sociali ed ecologiche.

Non mi pare che in tutte le novantaquattro pagine della Fratelli tutti venga mai nominato il capitalismo, ovvero quella particolare formazione sociale oggi predominante che basa il suo funzionamento (competizione, ad ogni livello, per la crescita del valore monetario delle merci prodotte e vendute) sulle disparità di classe, oltre che di luogo, di “razza” e di genere, e che è giunto a condizionare totalmente i rapporti tra le persone e plasmare le stesse relazioni umane. Non è una questione nominalistica. In altri precedenti scritti e discorsi Bergoglio era stato più esplicito e chiaro. Ad esempio nell’audizione del 4 febbraio del 2017 con il movimento dell’Economia di Comunione che si ispira all’imprenditrice Chiara Lubich ebbe a dire: “Quando il capitalismo fa della ricerca del massimo profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il capitalismo continua a produrre scarti”, cioè, ad impoverire, emarginare, precarizzare. Insomma la “cultura dello scarto”, dell’emarginazione e dell’esclusione sembrava venire associata a quella del sistema socio-economico di stampo capitalista. Ancora più esplicito è stato Bergoglio nell’audizione con i partecipanti al Congresso internazionale dell’associazione dei giuristi di diritto penale: “Una delle frequenti omissioni del diritto penale (…) è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero con queste parole. (…) Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente. Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta” (15 novembre 2019).
In molti ci aspettavamo di sentire dalla nuova enciclica una risposta alla domanda – forse banale ma ineludibile – se un sistema economico di mercato votato alla ricerca della crescita del profitto possa mai diventare socialmente ed ecologicamente sostenibile.

La parabola del Buon sammaritano – presa da Bergoglio come metafora universale dei rapporti umani e sociali – non ci rivela chi sono i briganti di strada che rapinano il viandante. Sono solo una banda di fuorilegge senza scrupoli morali, accecati dall’avidità alla ricerca di un facile arricchimento, o non sono invece i “potenti” [154] ai vertici degli interessi economici che controllano l’intera società e tengono in ostaggio la politica? Sono alcuni individui che hanno perduto i valori morali, l’amore per l’altro, la “comunione universale” e il “desiderio di farsi carico degli altri” [87], o non sono invece persone ben organizzate e protette dal sistema giuridico-istituzionale che si sono costruiti attorno per tutelare i loro affari? Devianti o non invece la parte dominante di un sistema economico strutturalmente fondato sul prelievo violento delle risorse naturali, sullo sfruttamento e l’espropriazione del lavoro altrui?

A me pare che Bergoglio manchi nel dare risposte a questi quesiti, mantenendo una equivoca ambivalenza che finisce per indebolire l’efficacia del suo stesso messaggio di animazione evangelica, di fratellanza, amore e pace sociale. Da una parte l’enciclica pone sotto accusa le teorie economiche liberiste del trickle-down effect (“sgocciolamento” della ricchezza dai ceti abbienti ai poveri), le “visioni liberali individualistiche” [163] e il fatto che “il diritto di alcuni alla libertà di impresa e di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri” [122], dall’altra ipotizza la possibilità di emendare il sistema dagli eccessi iniettando forti dosi etiche nei comportamenti umani degli operatori economici. Insomma sembrerebbe che bastasse avere al vertice delle imprese come presidenti, amministratori delegati e manager dei buoni cristiani per far andare l’economia nell’interesse del bene comune. In attesa che ciò si realizzi, papa Bergoglio auspica un recupero dell’autorità e della capacità di intervento delle istituzioni pubbliche. Per ciò è necessario rigenerare la democrazia, ora atrofizzata [169], attraverso una politica intesa come “forma preziosa della carità” (Pio XI, 1927).

L’idea di fondo di papa Bergoglio è che “il mercato da solo non risolve tutto” [168] (grassetto mio) e che lo si debba aiutare attraverso una molto più forte e “nuova regolamentazione” [170] statale a tutti i livelli. Serve “una autorità mondiale regolata dal diritto” che tenga a freno l’avidità dei ricchi e dei potenti [172]. Bergoglio giunge a citare il filosofo Paul Ricoeur: “Non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica” [164].
In altri discorsi Bergoglio sembrava indicare una via diversa di trasformazione del sistema economico dominante, più diretta, radicale, affidata all’attivazione delle energie popolari per entrare in un ordine di idee di democrazia sostanziale e di economia post-capitalista. “L’etica rimanda ad un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato”, aveva scritto nell’esortazione Evangeli Gaudium, (paragrafo 57, 2013). In un discorso ai Movimenti popolari aveva affermato: “Diciamo no a una economia di esclusione e iniquità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge Madre Terra. L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune” (Terra, Casa, Lavoro. Discorsi ai movimenti popolari del 2014, 2015, 2016, edizioni de “il manifesto”, pag. 46). Il riferimento alla oikos, comune radice di economia ed ecologia, è evidente. Qui invece, nella Fratelli tutti, l’obiettivo della creazione di “fraternità universale e amicizia sociale” [142] e di una “migliore” e “serena convivenza” [228, 279] sembra perseguibile componendo etica e mercato attraverso la buona disponibilità d’animo dei protagonisti e il raggiungimento in ogni individuo di “un livello morale che gli permette di andare oltre sé stesso e il proprio gruppo di appartenenza” [117]. Un’idea che si avvicina terribilmente al tradizionale interclassismo cogestionale della Chiesa, che non mette in discussione gli assetti di potere economici e giuridici dell’impresa capitalista. Nell’enciclica l’iniziativa economica privata viene considerata persino con reverenza: “L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo di tutti (…) tuttavia, questa capacità degli imprenditori, che sono un dono di dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle persone” [123]. Il tutto si risolve in un accorato appello all’“unità”, alla “negoziazione” paziente [231], al “realismo dialogante” [221], a un “patto sociale” [218] tra i diversi interessi in gioco. Certo, precisa Bergoglio: “La vera riconciliazione non rifugge il conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente” [244]. Quindi, le “lotte (sono) legittime” [243] se servono a difendere i diritti e a togliere potere agli oppressori. Ma la “buona politica” [180] deve mirare al consenso e alla “concordia sociale” [240]. La “civiltà dell’amore” [183] si fonda anche sulle buone maniere: dire “permesso, scusa, grazie”. “Mettersi al posto dell’altro” [221] e usare gentilezza, benevolenza, dolcezza, mitezza, tenerezza… aprono le porte non solo del paradiso, ma anche ad una società migliore.

Bergoglio vorrebbe con questa nuova enciclica ridare slancio e motivazioni al “ruolo pubblico” della Chiesa: “Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sagrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità (…) per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazioni” [276]. E indica anche le modalità dell’impegno: stare dalla parte dei “movimenti popolari che aggregano disoccupati, precari e informali” [169], “lottare per ciò che è più concreto e locale” [78], promuovere politiche sociali che non siano “verso i poveri, ma con i poveri e dei poveri” [169]. Insomma, fare in modo che “ogni essere umano possa diventare artefice del proprio destino” [187]. Nell’incontro con i lavoratori delle fabbriche in crisi in Sardegna, Bergoglio fece una preghiera: “Signore: aiutaci ad aiutarci fra noi” (2013).

Tuttavia rimane non chiaro quale dovrebbe essere il nuovo sistema economico che Bergoglio intende promuovere, la nuova altra economica, così come auspica Luigino Bruni, storico del pensiero economico e uomo di salda fede cattolica, cofondatore della Scuola dell’economia civile. Secondo il professore della Lumsa (Libera Università Maria santissima assunta) “questo capitalismo individualistico ha i giorni contati. (…)”. “Le grandi crisi iniziano sempre al culmine del loro successo… La novità della nuova ‘altra’ economia di questo tempo sta nel cambiamento delle prassi e dei comportamenti, della cultura e quindi del culto [capitalista]”, poiché ormai “il capitalismo è entrato dentro l’anima delle persone per il suo essere religione pragmatica 24h7d: giorno e notte, sette giorni su sette” (Il nuovo culto della felicità pubblica, Buonenotizie del Corriere della sera, 22 settembre 2020). Per uscire da questa economia dispotica e totalitaria si renderebbe necessario un cambio radicale dell’idea stessa di progresso e di sviluppo, così come Bergoglio indicava nella precedente enciclica Laudato si’. Non mi pare invece sufficiente sperare di umanizzare gli agenti dell’impresa capitalista facendoli accettare principi etici così da modificare i loro comportamenti, rimanendo comunque all’interno dei ruoli che il mercato ha assegnato loro. Nemmeno mi parrebbe sufficiente, in un ottica di trasformazione integrale e di necessaria “conversione” degli apparati produttivi, tecnici, distributivi e di consumo, accontentarsi di ricavare uno spazio di azione terzo, tra mercato e iniziativa economica diretta pubblica, dove possano agire liberamente i portatori dei principi di un’economia eticamente orientata. Abbiamo già sperimentato che il Terzo settore schierato a cuscinetto tra i fallimenti del mercato e la bancarotta degli stati non ha dato la meglio prova di sé. Altre benemerite esperienze come quelle degli imprenditori dell’Economia di comunione non sono riuscite a fare sistema. Servirebbe allora proporre con più decisione e sperimentare concretamente un modello di riferimento decisamente diverso: istituire e dare dignità alle “varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria” [169] con “tratti di gratuità” [152], che operano già ora ben al di là della “logica perversa e vuota (del) calcolo di vantaggi e svantaggi” [210], cioè del mercato.

In interventi precedenti papa Bergoglio aveva nominato con minuziosa precisione e trasporto empatico i soggetti economici da cui partire: cartoneros, raccoglitori, venditori ambulanti, artigiani, pescatori, piccoli contadini, muratori, sarti, persino giostrai! [Incontri con i movimenti popolari]. Nella Laudato si’ scriveva: “L’istanza locale può fare la differenza” [LS 179] e indicava nelle comunità di piccoli produttori, nelle fabbriche recuperate, nei sistemi agricoli di piccole dimensioni che praticano le rotazioni delle culture, nelle cooperative per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, nel riciclaggio degli scarti (oggi si direbbe nell’economia circolare)… quelle azioni capaci di creare “reti comunitarie” [LS 219] e un “tessuto sociale locale” [LS 232] tali da dare sicurezza alimentare e autosufficienza economica alle popolazioni. “Piccoli gruppi” che praticano forme di economie altre sono come “seme, sale ed enzima per il lievito” del cambiamento [Audizione con l’Economia civile del 4 febbraio 2017]. Quando Bergoglio parla di una società poliedrica sembra auspicare una convivenza pacifica tra varie forme di produzione diversificate e di ordinamenti sociali rispettosi delle varie tradizioni e scelte culturali e politiche dei popoli. In tal senso sono paradigmatiche le riflessioni dell’autunno scorso sull’Amazzonia a favore dell’autonomia e dell’autogoverno dei popoli indigeni svolte in occasione del Sinodo per la Regione panamazzonica. Altrettanto forti sono le proposte scritte nella lettera ai movimenti popolari occidentali la domenica di Pasqua (il 12 aprile 2020, in pieno block down), tra cui: “É venuto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base. Nessun lavoratore sia senza diritti”. Proposte, però, non riprese nella nuova enciclica.

A giorni (19-21 novembre) ad Assisi si svolgerà un incontro internazionale chiamato The Economy of Francesco, rivolto ai giovani. Sarà l’occasione per capire meglio in quale direzione vorranno andare i cattolici. Quali interpretazioni daranno a Fratelli tutti.

Sicuramente in Vaticano è aperto un confronto che avrà esiti anche direttamente politici. Il più noto economista di riferimento del mondo cattolico italiano e del Terzo settore, Stefano Zamagni, dallo scorso anno presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ha recentemente lanciato un manifesto e ha promosso la formazione di “un nuovo soggetto politico” dei cattolici in Italia (nome e simbolo depositati: “Insieme. Lavoro e famiglia, solidarietà e pace”) con l’intenzione di ricompattare la “pericolosa diaspora cattolica” e con l’obiettivo di superare il bipolarismo che avrebbe penalizzato “le forze moderate del centro”. “L’unità politica dei cattolici – scrivono – sono i cattolici”. La loro base di riferimento dovrebbe essere le numerose associazioni riconducibili alla Cei. Le loro basi teoriche di economia politica si riferiscano alle elaborazioni della Confederazione per la dottrina della chiesa. Un paio di anni fa la Confederazione per la Dottrina della Fede in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano, istituito da papa Francesco e affidato al cardinale ghanese Tukson, avevano prodotto un consistente documento, Oeconomicae et pecuniariae quaestions. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico- finanziario (Bollettino della sala stampa della Santa Sede n.0360, 17/05/2018). Gli economisti del Vaticano si erano impegnati nell’arduo compito di individuare “una nuova economia più attenta ai principi etici” e “una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi”. Ma il miracoloso tentativo di ricomporre le ragioni dell’economia parametrata sullo “scambio tra equivalenti” e quelle del benessere reale delle popolazioni non mi pare sia riuscito bene. La Confederazione della fede infatti giunge alla conclusione che “il profitto va sempre perseguito”, anche se non “ad ogni costo”. Perciò: “In linea di principio, tutte le dotazioni ed i mezzi di cui si avvalgono i mercati per potenziare la loro capacità allocativa, purché non rivolti contro la dignità della persona e non indifferenti al bene comune, sono moralmente ammissibili”. Amen! Tra questi strumenti vi sono: il “denaro” (non la semplice moneta), che viene definito “di per sé uno strumento buono”, il “valore aggiunto, che è lo scopo primario del sistema economico-finaziario”, il credito e il debito, le stesse borse valori. Si giunge così all’apoteosi delle meravigliose e progressive doti del Mercato. “Il mercato, grazie ai progressi della globalizzazione e della digitalizzazione, può essere paragonato ad un grande organismo, nelle cui vene scorrono, come linfa vitale, ingentissime quantità di capitali. (…) Possiamo dunque parlare anche di ‘sanità’ di tale organismo, quando i suoi mezzi ed apparati realizzano una buona funzionalità di sistema, in cui crescita e diffusione della ricchezza vanno di pari passo” (OPQ paragrafo 19). Basta regolarlo con “solidi e robusti orientamenti”, applicare le normative sulla “responsabilità sociale dell’impresa” e “istituire Comitati etici, in seno alle banche, da affiancare ai Consigli di Amministrazione”. Siamo entrati nel pieno della narrazione dello “sviluppo sostenibile” e della “svolta etica e verde del capitalismo” annunciata dal The Wall Street Journal lo scorso anno. Il sistema economico vigente, ci dicono, è compatibile con il bene comune, purché “certificato” dai filtri Esg (Environmental, Social, Governance) che aggiudicano un punteggio alle performace green degli investimenti finanziari evinronmental frriendly e che concorrono a formare il Jones Sustainability Index delle borse; garantito dalle etichette Ecolabel rilasciate da una pretora di “enti terzi” da applicare alle produzioni industriali; dai bollini che attestano il “benessere multidimensionale” generato dalle imprese B-corp (Benefitn Corporation) et similia; autorizzato dalle quote di emissione di gas climalteranti contemplate dall’ Emission Trading System, rilasciate al “giusto prezzo” secondo l’andamento delle aste pubbliche (sistema che ha valso l’ultimo premio Nobel per l’economia); emendato dalle varie forme di compensazione degli inquinamenti (Clean Development Mecanism) e di “tasse verdi”. E così via.

Soluzioni che a me sembrano ben diverse da quelle ipotizzate da papa Bergoglio anche in Fratelli tutti, ma compatibili con le linee delle Oeconomicae et pecuniariae quaestions controfirmate dallo stesso papa Francesco. In Vaticano, temo, ci siano problemi di dissociazione cognitiva, e non solo in materia di politica economica. La più importate tra tutte le contraddizioni emerse con la Fratelli tutti a me sembra emerga quando si afferma solennemente: “É inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna” [paragrafo 121] e poi la si escluda dai ruoli principali nella propria organizzazione.

da qui

 

  

L’enciclica dell’ultimo dei No Global? - Antonio Montefusco, Gian Luca Potestà

 

In un dibattito pubblico caratterizzato dall'assenza di alternative al liberismo, Bergoglio diffonde «Fratelli tutti». Un testo che si propone come radicalmente realistico e che vuole essere la summa del suo pensiero e segnare la cifra del suo papato. In che modo ci interroga?

 

Come noto, papa Francesco non dorme nelle usuali stanze del Vaticano, ma a Santa Marta. Una delle tante scelte che manda su tutte le furie il mondo conservatore, cattolico e non soltanto, che lo ha eletto a «nemico pubblico». Per alcuni, addirittura, è un papa eretico: un nutrito gruppo di ecclesiastici e laici, l’anno scorso, ne ha chiesto le dimissioni in seguito al sinodo sull’Amazzonia. Già la sua elezione, avvenuta all’indomani delle clamorose dimissioni del controverso pontificato di Benedetto XVI, sembrava segnata da analogie storiche: Ratzinger, prima di rinunciare, era andato presso la tomba di papa Celestino V, (quasi) unico precedente di vescovo di Roma che depone la tiara papale. Per chi studia il medioevo, sono avvenimenti che possono dare adito ad analogie che vanno maneggiate con cura – Celestino era stato, per alcuni, un papa «angelico», in particolare per un gruppo di francescani radicali, che dopo la sua rinuncia continuarono a sperare in un papa povero che fosse capo di una Chiesa povera. Che il gesuita Jorge Mario Bergoglio scegliesse il nome di Francesco – questa volta per primo nella bimillenaria storia dei pontefici, e a otto secoli dalla morte del santo di Assisi – rappresentava dunque l’ennesima di queste analogie.Ormai è noto che la scelta del nome è stata consapevole e riguardava anche un programma ecclesiologico e politico-spirituale. Parlando coi media, pochi giorni dopo l’elezione, il papa ha legato il nome di Francesco a un progetto preciso: «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!». Di nuovo, le analogie storiche si sprecano. Anche Dante Alighieri avrebbe voluto una Chiesa simile. Come è ormai noto che i percorsi che hanno portato Bergoglio fin qui non sono stati quelli della Teologia della Liberazione, che aveva orgogliosamente marciato accanto ai movimenti rivoluzionari sudamericani; la sua stessa esperienza durante la dittatura argentina fu travagliata e non direttamente impegnata sul piano politico. Un grande storico, Giovanni Miccoli, ha indicato in maniera convincente come, nella scelta del papa, sia riemersa e abbia preso corpo la particolare politica dei Gesuiti nel periodo che seguì il Concilio Vaticano II, quando, sotto la guida di padre Arrupe, Francesco era diventato il vessillo della riforma della Chiesa.

Anche su questo punto, papa Francesco ha intercettato un interesse diffuso del mondo laico, anche intellettuale e non cristiano, che da tempo si interroga sul «francescanesimo» prima come punto di rottura nel rapporto tra mondo e chiesa dal punto di vista dello sviluppo economico – e qui si può pensare a Lynn White, un grande storico che, su Science nel 1967, indicò in san Francesco un campione dell’ecologismo che rompeva con la tradizione cristiana, caratterizzata da un approccio aggressivo e di trasformazione rispetto al mondo naturale – e ora come riflessione sui modi di vita e sulla biopolitica – e qui penso invece alla conclusione di Impero di Toni Negri, in cui Francesco era il rappresentante della gioia dell’attivista comunista, o a Giorgio Agamben, che nell’elaborazione dell’ordine ha indicato una forma-di-vita radicalmente alternativa perché sottratta al possesso. Perché quello di Francesco – pur rimanendo anch’esso un pontefice molto problematico in tema di diritti delle donne – più che un pontificato «messianico», rappresenta in qualche maniera il paradosso di un cambio di passo deciso nella storia della Chiesa. 

L’enciclica Fratelli tutti, appena emanata, è particolarmente rappresentativa di questo cambio. Innanzitutto, è significativo che la furia dei conservatori sia stata, se si vuole, ancora più decisa: Marcello Veneziani, in un editoriale livoroso su La Verità, ha accusato il papa di essere «a sinistra di Lenin e di Mao». Ma anche sul fronte opposto, qualcuno si accorge della novità. Augusto Illuminati, proponendo una precisa disamina di una serie di passaggi del testo, ha concluso che, se non si tratta di comunista, sicuramente Francesco è una «zecca d’oltretevere». Un compagno di strada, si sarebbe detto in altri tempi – ma senza il soggetto politico da accompagnare, bisogna dire. Perché la Fratelli tutti nasce all’interno di una riflessione codificata – la dottrina sociale della Chiesa – che si afferma a partire dall’Ottocento in corrispondenza con le grandi rivoluzioni sociali europee (le marxiane «guerre civili»). A me pare che, polarizzando molto, quella nasceva in regime di concorrenza con l’alternativa socialista, che minacciava la presa ecclesiale sui ceti popolari, e soprattutto si sviluppava in un contesto di una chiesa profondamente segnata dal conflitto con la modernità (sia scientifica sia istituzionale) che l’aveva saldamente condotta su posizioni conservatrici; qui invece la Chiesa di Francesco sembra avocare a sé il monopolio della critica al sistema sociale, addirittura invocando una trasformazione delle istituzioni laiche. Per questo credo che sia importante chiedersi che cosa è cambiato: è finita la lunga crisi del rapporto tra Chiesa e modernità che si è prolungata dall’Ottocento al pontificato di Ratzinger, attraversando e problematizzando? Per confrontarsi con tutto questo, abbiamo dialogato con Gian Luca Potestà, ordinario di Storia del cristianesimo alla Cattolica di Milano e specialista di francescanesimo e profetismo medievali. 

Innanzitutto, possiamo chiarire velocemente che cos’è un’enciclica e perché è così importante nel corso di un pontificato? Qual è la differenza tra l’intervento tramite enciclica di Francesco – che sembra più meditato, e punta a encicliche-manifesto, di carattere generale – e quelle dei suoi predecessori?

Per enciclica si intende una lettera circolare, generalmente – ma non sempre  indirizzata da un papa in primo luogo alle chiese e agli episcopati. Tra le encicliche, alcune sono per comodità definite «sociali», in quanto riguardanti più lo stato del mondo che l’insegnamento dottrinale propriamente cristiano. La più celebre resta la Rerum novarum, in cui Leone XIII a fine Ottocento apriva gli occhi della Chiesa sul mondo del lavoro, rivendicando uno spazio di analisi e intervento in competizione con la crescita impetuosa del movimenti socialisti e delle organizzazioni sindacali. Le successive encicliche «sociali» sono state prevalentemente pubblicate in occasione di ricorrenze: quaranta anni dopo (Quadragesimo anno), ottanta anni dopo (Octogesima adveniens), cento anni dopo (Centesimus annus)… 

Prerogativa delle encicliche a partire da Giovanni XXIII è che talvolta sono rivolte non solo ai cristiani, bensì – per richiamare due termini di matrice biblica entrati grazie a quel papa nel lessico della Chiesa  a tutti «gli uomini di buona volontà», in vista di un comune sforzo di decifrare «i segni dei tempi». Dopo Giovanni XXIII, Paolo VI si pose il problema del titolo in forza del quale la Chiesa può pensare di rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà. E offrì una risposta ambiziosa: può parlare in quanto «esperta in umanità». In tale prospettiva cessa di contrapporsi frontalmente al mondo, come di fatto avvenuto a partire dalle prime avvisaglie della Modernità, ma si inserisce a pieno titolo dentro il suo movimento, sperando di indirizzarlo senza contrapporsi a priori a esso.

L’enciclica Fratelli tutti si pone lungo tale solco. Il papa si richiama al comune sentire con il Grande imam di Al-Azhar, incontrato ad Abu Dhabi, così come nella precedente Laudato si’ aveva addirittura attribuito la prima idea di essa all’incontro con il patriarca ortodosso Bartolomeo. Il papa si presenta quasi come un primus inter pares, chiamato a dare voce con loro alla comune fratellanza umana. A prima vista riprende così un impulso venuto da Giovanni Paolo II (e non troppo apprezzato da Benedetto XVI), che con gli incontri di Assisi tra leader religiosi volle mostrare che non solo le diverse confessioni cristiane, ma il complesso delle religioni – fattore spesso di potenziamento delle inimicizie e dei conflitti identitari – possono trovare un terreno comune di riflessione e di preghiera in vista della pace. Mentre però quegli incontri di Assisi si caratterizzavano spettacolarmente per numero e varietà degli invitati, qui si tratta di incontri e dialoghi a due, il cui frutto è recepito in documenti appartenenti al genere letterario più alto fra quelli a disposizione del Magistero papale. 

Come si colloca questa enciclica rispetto alle altre due emanate da Francesco? La prima – Lumen fidei – apparentemente più tradizionale, ma incentrata su un tema controverso della tradizione cristiana – «agape» – e la seconda più risolutamente ambientalista (Laudato si’).

Il testo si presenta come una sorta di summa del pensiero del papa, un piccolo dizionario enciclopedico del suo pensiero, intessuto com’è di citazioni tratte da suoi precedenti interventi. Non pretende dunque di porsi come un testo originale, bensì  di fissare un punto nel percorso di un papa che evidentemente  ritiene giunto il momento di definire sé stesso. La sua autorevolezza è inversamente proporzionale alla crisi di prestigio delle tradizionali leadership e più in generale dei gruppi dirigenti politici ed ecclesiastici a tutti i livelli, prevalentemente incapaci di interpretare e orientare i destini del mondo, di riformare e di riformarsi. Il papa fa ciò che gli riesce meglio: alza una voce profetica, non nel senso del prevedere il futuro, ma in quanto interprete del presente alla luce del disegno espresso nella Rivelazione cristiana. 

Ecco: questo ci pare un punto cruciale, che può e deve interrogare anche le sinistre che si pongono un progetto di trasformazione sociale e politica. Il «profetismo» papale sembra basarsi proprio, come dici, sulla totale assenza di voci alternative. Nell’enciclica, questo «profetismo» si esplica in una visione profondamente realista della realtà. Il papa sembra rivendicare questa visione come obiettiva e scientifica. In un passaggio-chiave, rivendica una lettura contestuale e storica dell’esclusione sociale, rappresentata nel concetto cristiano (ambivalente) di povertà («Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico concreto»). In diversi passaggi l’origine del problema è individuatao nettamente, sia in un sistema economico – il capitalismo («Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro», leggi gli esclusi) – sia nel suo cascame ideologico contemporaneo – e l’idea del trickle-down, dello sgocciolamento della ricchezza a favore di tutti, che è stata anche la bandiera della «Terza Via» e dell’ex premier inglese Tony Blair (con tutti i suoi addentellati locali poco gloriosi), che si pensava spazzato via dalla storia con la candidatura di Jeremy Corbyn («Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del «traboccamento» o del «gocciolamento» – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale»). E poi c’è la risposta, chiaramente indicata: una risposta che è di militanza – si parla di lotta – e di modo di vita alternativo – la solidarietà, intesa ad ampio raggio: «Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari». E sullo sfondo, continua e minacciosa, la crisi climatica…

La diagnosi dello stato del mondo è preoccupata. Dappertutto vengono meno le speranze: «sogni che vanno in frantumi», si legge nell’enciclica, che attribuisce una valenza positiva al termine «sogno» in quanto lo vede non come evasione, ma come fonte e proiezione del desiderio, elemento propulsivo di ogni realizzazione umana.

Papa Francesco cerca di immettere nuova vita nelle parole umane e cristiane: fraternità, amore, giustizia, gratuità, verità. Lo fa assumendo un punto di veduta preciso e determinato: «lo sguardo dal basso», dai sotterranei del grattacielo della miseria. Squilibri e disuguaglianze sono considerati dal punto di vista dei soggetti, popoli e individui, più poveri, più deboli, più fragili. La prima risposta da dare alla fragilità è il lavoro, lavoro per tutti. Esistono peraltro infiniti generi di fragilità, e il papa accusato di populismo è fine anche quando parla delle fragilità personali e dei percorsi per superarle. Il suo sguardo si ferma però in special modo su grandi soggetti collettivi, principalmente sulle masse diseredate e senza voce dei migranti di cui difende il diritto a voler vivere meglio, quali che siano le ragioni per cui si mettono in movimento. Non solo guerre e persecuzioni politiche ed etniche, ma anche «semplici» ragioni economiche: migrare è un diritto che va riconosciuto come tale, a cui si deve dare corso offrendo sostegni e garanzie che consentano una dignitosa accoglienza e pacifica integrazione nei paesi dove i migranti si stabiliscono, fino alla concessione della cittadinanza da parte del paese ospite.

Nel porre al centro la parabola del samaritano, l’enciclica vi legge innanzitutto una denuncia dell’indifferenza – del «cuore indurito», nella tradizione biblica e cristiana. Un presupposto ideologico implicito dell’attuale indifferenza è che non vi siano altri percorsi di vita possibili al di fuori di quello segnato dal modello capitalistico via via trionfalmente affermatosi come incontrastato, quasi fosse un percorso naturale e ineluttabile, che nemmeno una pandemia delle dimensioni attuali pare poter scalfire nelle coscienze. Un modello di vita che conduce verso la divorazione stessa del mondo. E mentre denuncia la catastrofe ambientale, Francesco mette in luce i limiti di un’idea di democrazia che rischia di essere puramente nominalistica se chiama solo al voto ed esclude ogni forma (integrativa o sostitutiva) di partecipazione diffusa e di soggettività attiva sul piano comunitario. Più che un profeta è un apocalittico, nel suo continuo richiamare l’imminenza della fine. Contro la dottrina dello sgocciolamento – per cui la smisurata crescita economica dei ricchi comporterebbe alla lunga e in proporzione qualche beneficio anche per i poveri – mette in luce come tale modello presupponga lo spreco e produca scarti.

Nel rileggere la parabola del samaritano, l’enciclica ricorda che al viandante derubato e percosso il samaritano offre innanzitutto il tempo della propria attenzione. Valore del tempo, punto centrale per papa Francesco, forse sollecitato in questo anche dal suo imprinting di gesuita (la confessio generalis cui si sottopose Ignazio a Montserrat durò tre giorni; e i suoi Esercizi Spirituali, tuttora ampiamente praticati, esigono quattro settimane piene per un percorso di progressiva scoperta e verifica della vocazione cristiana). In un’intervista di qualche anno fa al direttore della rivista Civiltà Cattolica, il papa diceva: «non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi anche lunghi dei processi. Noi dobbiamo avviare processi più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia, Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove, richiede pazienza e attesa». Di per sé, lo spazio è il luogo in cui si cristallizzano quasi naturalmente le microfisiche del potere: nella determinazione degli spazi i rapporti di dipendenza e le forme di esclusione si consolidano.

Nell’enciclica, sembra ci sia un sforzo per risignificare il quadro concettuale del politico nel presente: lo spazio, senz’altro, ma anche il tempo e il linguaggio. Mi pare di intravedere dei tentativi non tanto di mettersi «in pari» con il dibattito contemporaneo – qui evidentemente il contesto richiama alla discussione sull’accelerazionismo e sull’utilizzo dei social – ma di un intervento radicale e diretto. Anche qui mi pare di vedere una novità, almeno, nel contesto della riflessione pubblica della Chiesa, che pure sul presidio dello spazio pubblico della parola ha fondato la sua presenza millenaria nella società.

Nella condizione attuale di esasperata competizione globale, il tempo viene a sua volta tendenzialmente privato del suo positivo distendersi, della sua potenziale flessibilità, che permette di scoprire sé stessi, di interessarsi a un altro e dialogare con lui, o semplicemente di restare in silenzio. Nel tempo accelerato e come tale vanificato la comunicazione diventa ardua.  «La velocità del mondo moderno, la frenesia ci impediscono di ascoltare bene quello che dice l’altra persona  afferma l’enciclica – e quando è a metà del suo discorso già la interrompiamo; vogliamo rispondere mentre ancora non ha finito di parlare». 

A sua volta, il linguaggio, se si distende nel tempo, è tramite di conoscenza e di comprensione, può dare sostegno alla fragilità e all’insicurezza dell’altro: «mettersi seduti ad ascoltare l’altro è caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e fa spazio all’altro nella propria cerchia». Velocizzate e semplificate, le parole della messaggistica tendono invece – se lasciate in balia di sé stesse – a raggrumare e diffondere mozziconi di concetti e schizzi di rancore che in passato sarebbero parsi inesprimibili. I messaggi assumono toni ora violenti e imperiosi, ora ultimativi e a prima vista inconfutabili, anche se nessuno è in grado di conoscerne le fonti e stabilirne l’autorevolezza. Il testo fa sua la denuncia di un documento dei vescovi dell’Australia: «non possiamo accettare un mondo digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente».

Si tratta di affermazioni per certi versi ormai risapute e persino scontate; e tuttavia è significativo che siano depositate in un documento ascrivibile al genere letterario più alto della Chiesa romana, e come tali siano destinate a prendere posto nella pastorale ecclesiastica degli anni a venire.

Come alternativa al linguaggio impoverito e banalizzato dei social, l’enciclica rivendica innanzi tutto che «c’è bisogno invece di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana». Di qui gli appelli a cambiare stile, a praticare tenerezza e gentilezza, parole su cui tanto ha insistito la stampa in questi giorni quasi fossero cose nuove, mentre in realtà rinviano a riflessioni cresciute in questi anni negli interstizi tra teologia, filosofia, letteratura e spiritualità.

Possiamo arrivare alle radici «politiche» dell’enciclica, se sei d’accordo. In maniera davvero sorprendente, è nel quadro di quest’analisi realista ma anche profondamente radicata nei dibattiti del presente che viene presentata l’analisi delle migrazioni. Secondo il papa – con una chiarezza difficile da rintracciare altrove – la distinzione tra migrante economico e rifugiato non esiste, ma tutti hanno diritto a muoversi per migliorare la propria condizione. Su questa base, la risposta culturale al mondo globalizzato – in cui appare anche una migrazione dei «poveri», della «solidarietà» contro a quella solo del mercato – mi pare cercata negli strumenti di una democrazia vera, che si vuole partecipata, e in una società «poliedrizzata» – e anche qui la visione è nuova e forte, perché c’è il rifiuto del meticciato ma una proposta che sembra andare in direzione post o decoloniale (appunto, un’identità poliedrica). Non trovi che qui ci sia soprattutto una continuità e uno sviluppo con le idee – esse stesse poliedriche – del movimento cosiddetto no global degli inizi degli anni 2000? Questa enciclica è in fondo lo sviluppo più coerente dell’incontro con i movimenti popolari del 2016

Accusato in modo ricorrente di populismo argentinizzante, il papa mette in guardia da nazionalismi, sovranismi e populismi, offrendo la sua declinazione del termine «identità»: termine non precisamente chiarito né problematizzato al tempo del papa polacco, quando era brandito per rivendicare sia l’identità cristiana (negata) dell’Europa, sia  da parte di movimenti cattolici al seguito – per contrapporsi e contarsi. Se l’identità è concepita come un muro compatto, privo di spiragli e di fenditure, allora  che si tratti di identità etnica, nazionale, regionale, religiosa, cattolica…  essa assume nell’ordine del discorso la funzione di strumento utile a suscitare paure ancestrali, a polarizzare ed escludere. Fratelli tutti offre un’altra lettura dell’identità: ognuno ha la sua parte di verità, dice il papa con il Grande imam, l’identità si costruisce attraverso una continua azione di costruzione e decostruzione della propria. Al fondo, sta un’altra parola paolina e ignaziana, riportata in auge dal cardinale Martini: discernimento, ovvero individuazione di ciò che va conservato e di ciò che può essere invece lasciato cadere a favore dei contributi che vengono da altri. 

L’enciclica non era certo la sede, ma tale prospettiva richiederebbe un approfondimento teorico, giacché ogni religione aspira all’assoluto, e invocare la tolleranza reciproca non basta certo a disinnescare le armi o a costruire identità fresche. Superata l’idea, già baldanzosamente proclamata da certi settori cattolici, del «meticciamento» identitario (termine fuorviante, in quanto presuppone l’esistenza di identità pure e incontaminate), il papa afferma che l’identità nuova deve avere la forma di un poliedro. Creata la figura, resta peraltro il compito di verificare la fattibilità di questo corpo solido e di progettarlo concretamente. Ma qui si tocca un punto sulla cui soglia l’enciclica si ferma. Non solo essa, in verità. Si avverte diffuso il venir meno di scenari teologici e filosofici, e di convincenti percorsi esegetici, che siano all’altezza delle questioni in gioco. Colpisce, d’altra parte. che in un’enciclica promulgata ad Assisi nel giorno della ricorrenza anniversaria della morte di Francesco restino in fondo così rarefatti i riferimenti al suo stile e in generale alla tradizione di pensiero che da lui ha preso le mosse. Al punto tale che qualche interprete frettoloso ha potuto affermare che l’accento posto dal papa sulla fratellanza universale sia un tributo reso all’illuminismo, laddove rinvia invece al centro vivo dell’esperienza della paternità divina così come fu vissuta da Francesco d’Assisi. Tutto sta infatti – per dirla con le parole del francescano Eloi Leclerc riportate quasi di sfuggita all’inizio dell’enciclica – nell’«avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse».

Tra questi «frettolosi», lo ammetto, ci sono anch’io: nell’incipit e nell’insistenza del linguaggio dell’enciclica non ho potuto fare a meno di interrogarmi su questo concetto complesso e variegato di fraternitas. È un concetto caro, come è evidente, alla tradizione francescana (gli appartenenti all’Ordine dei minori si chiamano Frati, come noto), ma che si colloca bene nel fossato tra mondo del clero e mondo laico (e qui rimando alle confraternite, associazioni appunto laiche). Ma è un concetto che si è anche secolarizzato, che ha costituito, nella religione politica della rivoluzione, un correttivo solidale della liberté: ci sarebbe da chiedersi se non siamo qui di fronte a un «francescanesimo» millenial. Ma lascio stare le boutades, perché credo invece che il testo della Fratelli tutti ci interroga in profondità, anche perché – e qui sarebbe da aprire tutto un altro cantiere di riflessione – si accompagna a una chiesa militante, che interviene nel sociale e che può diventare finalmente attiva nella critica all’ordine sociale esistente. Ma anche dall’altra parte del Tevere bisogna riattivare nodi e pratiche, non foss’altro per non restare indietro nella critica e nella prassi. Mario Tronti lo ha recentemente fatto riflettendo sul fatto che il privilegio soggettivo del lavoratore di fabbrica, che in una fase specifica dell’Occidente ha superato l’emarginazione per diventare classe dirigente, si è arenato per correggersi nell’idea che quella classe operaia deve essere considerata erede dell’intera, e antica, storia dei subalterni e degli ultimi del Vangelo. In questo, i poveri non danno più il nome ai Lumpen e agli esclusi del progresso, ma si candidano a soggetto che marca la sua presenza sulla storia. 

*Antonio Montefusco insegna Letteratura Latina Medievale presso l’Università Ca’ Foscari. Si è occupato di francescanesimo e dissenso religioso, e di storia delle pratiche intellettuali nel Medioevo. Ha curato recentemente Italia senza nazione (Quodlibet 2019) e, con Giuliano Milani, Le Lettere di Dante. Ambienti culturali, contesti storici e circolazione dei saperi (De Gruyter 2020). Gian Luca Potestà insegna Storia del cristianesimo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fra i suoi libri più recenti, L’ultimo messia. Profezia e sovranità nel medioevo (il Mulino 2014). In corso di stampa Dante in conclave. La lettera ai cardinali (Vita e pensiero).

da qui


La nuova enciclica del Papa, contro l’ideologia del mercato - Piotr Zygulski

La nuova lettera enciclica di papa Francesco dal titolo Fratelli tutti (qui il testo), firmata ad Assisi il 3 ottobre 2020, è dedicata – come mostra già il titolo – all’apertura universale della fraternità e all’amicizia sociale, e non risparmia parole incisive anche per l’economia. Nata a cavallo della pandemia come sviluppo dei temi del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi nel febbraio 2019 congiuntamente con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, l’enciclica sistematizza in modo più autorevole alcuni spunti che il papa aveva già offerto in altre occasioni.

Già nel primo capitolo “Le ombre di un mondo chiuso” segnala che l’espressione “aprirsi al mondo” fatta propria dalla finanza “si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico”, imponendo quindi una massificazione “che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza”.

Si verifica così “un vero e proprio scisma” tra “l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa”, con il “bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti”. Parla di “globalismo” che, nella logica del divide et impera favorisce le identità dei più forti e dissolve quelle dei più deboli.

Così “le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori” e, sradicate, non vengono riconosciute nella loro dignità. La cura della Casa comune – cui il pontefice aveva dedicato la precedente enciclica Laudato si’ – “non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci”: si prevede che l’esaurimento di alcune risorse naturali possa generare nuove guerre.

Se prima della pandemia “il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i ‘costi umani’, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro”, ora non dobbiamo dimenticare tutti gli “anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno”.

La vera fraternità cristiana esige che sia rispettata l’eguale dignità di tutti, e quindi sebbene possa non essere redditizio o possa comportare minore efficienza, per accogliere tale principio occorre “investire a favore delle persone fragili”, con “uno Stato presente e attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici, perché veramente si orientano prima di tutto alle persone e al bene comune”.

Se i benestanti non sentono l’esigenza di un interventismo pubblico nell’economia, “non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica”. Perciò la mera libertà economica, senza condizioni reali che permettano a tutti di accedere ad essa e a un lavoro dignitoso, è vana. Finché ci sarà anche solo una persona scartata dal sistema economico-sociale, non ci potrà essere una società fraterna.

Nuovamente torna su quella che definisce “cultura dello scarto”, che si può manifestare in vari modi, “come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà”. Analogamente

“Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che “nascono nuove povertà” Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico concreto”.

(Francesco, Fratelli tutti, 21)

Denuncia le “condizioni assimilabili a quelle della schiavitù” in cui versano tutt’oggi milioni di persone del mondo, e individua nella “concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto” la radice di questa riduzione della persona a merce, a proprietà di qualcuno. Qui torna la “critica al paradigma tecnocratico”, più focalizzata sul modo in cui le persone si relazionano con gli altri e con le cose, che non solamente sul controllo degli eccessi.

Cardine della Dottrina Sociale della Chiesa, la funzione sociale della proprietà è riproposta anche da Papa Francesco, che si richiama a san Basilio, san Pietro Crisologo, sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo e san Gregorio Magno per i quali la redistribuzione delle risorse è doverosa, perché dare agli indigenti è restituire loro ciò che ad essi appartiene, la loro vita; non dare ai poveri significa rubare. Se la proprietà privata è un diritto, è pur sempre secondario e subordinato rispetto “all’uso comune dei beni creati per tutti”, che troppo spesso viene messo in secondo piano. Di qui anche l’esigenza di un accesso equo alle risorse da parte dei poveri, perché “il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato” deve essere sempre subordinato ad essi e al rispetto dell’ambiente, a beneficio di tutti.

È interessante il modo in cui il vescovo di Roma affronta la questione politica, e la contrapposizione tra “populismi” e “liberalismi”. Entrambi possono nascondere il “disprezzo per i deboli”: i primi rischiano di usarli “demagogicamente per i loro fini”, gli altri “al servizio degli interessi economici dei potenti”. Come esempio possiamo vedere le argomentazioni contro l’arrivo di persone migranti: da un lato chi si pone sulla difensiva della propria identità chiusa, dall’altro chi “argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e decidano di adottare misure di austerità”. Se va ribadito il “diritto a non emigrare”, vale a dire di poter vivere dignitosamente nella propria terra, qualora tale ideale non fosse praticabile “è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona”.

Se certi “gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”“ perché si dimenticano che tale categoria è aperta e dinamica, sbarazzarsi del termine “popolo” come fanno le “visioni liberali individualistiche” – per le quali “la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono” – è altrettanto pericoloso: tra essi “è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società”, e così smantellano anche la categoria stessa di democrazia, di “governo del popolo”. Per Francesco la vera discriminante tra un populismo demagogico irresponsabile e una proposta invece volta al bene comune – magari grazie a leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società – è assicurare a tutti una vita degna mediante un lavoro dignitoso, come obiettivo di lungo periodo; sussidi economici devono essere considerati solamente un rimedio provvisorio.

Nonostante l’inefficienza o la corruzione di alcuni politici, va difesa la sfera della politica, minacciata da strategie che intendono “sostituirla con l’economia” oppure “dominarla con quale ideologia”: c’è invece bisogno di una politica che non si sottomessa “ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia”, ma anzi che con un approccio più ampio e con “un’altra logica” sappia riformare le istituzioni.

Tutto ciò non può essere demandato all’economia, “né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato”, perché “ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti”, non con “rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali”. Occorre invece la guida di una sana politica, capace di dialogo che nasce dall’ascolto delle voci critiche e scomode, talvolta “messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari”; tra l’altro

“A volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni”.

Se con la crisi finanziaria del 2007-2008 si è persa “l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale”, ancor più con la pandemia del Covid-19 si è resa necessaria la riforma dell’architettura economica e finanziaria internazionale, oltre che dell’ONU, perché nel XXI secolo “la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica”.

Di per sé infatti “il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti”. Francesco critica aspramente la “magica teoria del “’traboccamento’ o del ‘gocciolamento’ alla quale il neoliberalismo ricorre per autoriprodursi proponendo di risolvere i problemi sociali che ha generato, quando invece accentua le inequità, che generano “nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale”.

Riconosce che “le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili” e definisce “strage” il risultato della “speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale”. Occorre quindi costruire “le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno”, riabilitando “una politica sana non sottomessa al dettato della finanza”. Inoltre osserva che “certe visioni economicistiche chiuse e monocromatiche” non contemplano “i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti” ma che nondimeno “danno vita a varie forme di economia popolare e produzione comunitaria” e senza la loro esperienza la democrazia viene svuotata. Resta allora indispensabile intendere una fraternità reale come solidarietà concreta e costante apertura al “prossimo”, non come generosità occasionale né con la logica di chi si “associa” per perseguire i propri interessi; ripetendo quanto aveva già detto ai movimenti popolari:

“È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari”.

(Francesco, Fratelli tutti, 116)

La fraternità infatti potrà darsi solamente se sarà incarnata nella realtà politica, economica, storica e sociale, lottando con i piedi per terra “per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo”. Le parole di Papa Francesco – che pure scaturiscono dall’impostazione teologica che Cristo non solo “ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale” ma va riconosciuto “in ogni fratello abbandonato o escluso” – suonano come un richiamo autorevole per tutti, e non solo per i cristiani. Il richiamo infatti al dialogo e alla dignità inalienabile di ogni essere umano anche per molti agnostici può essere “sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove catastrofi”.

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