Ingozzati di connessioni, vuoti di fraternità -
Francesco Bellusci
Dobbiamo
decidere di diventare tutti fratelli per salvaguardare la terra, e di diventare
fratelli con la terra, con la nostra “casa comune”, per salvaguardare noi
stessi. Si può sintetizzare in questa maniera il filo rosso che porta Papa
Francesco a scrivere, a distanza di cinque anni dalla Laudato si’,
la nuova enciclica: Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia
sociale, ancora una volta con un esplicito richiamo al santo di
Assisi. In modo conseguenziale, essa risponde a un’esigenza che interpella
anche il pensiero laico: riflettere sul modo in cui quell’imperativo cruciale
di “fratellanza universale”, che scaturisce dall’emergenza ecologica
planetaria, stride con la constatazione che “la fraternità rimane la promessa
mancata della modernità” (Francesco lo dice nella Lettera al Presidente della
Pontificia Accademia per la vita del 6 gennaio 2019, Humana Communitas)
o che, per dirla con le parole del predecessore Benedetto XVI, «la società
sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».
Scolpita e
sacralizzata nel motto della Rivoluzione francese del 1789, Liberté,
Égalité, Fraternité, essa indica, da quella data, un modello laico e
politico di fraternità, alternativo a quello di matrice religiosa e monastica
che accomuna gli uomini nel “corpo” di Cristo e in una vita comunitaria chiusa:
è la fraternità repubblicana, che unisce gli uomini per la loro umanità
sociale. Un modello che, però, ha sostanzialmente fortuna fino al 1848, quando
ancora, per esempio, sull’onda degli entusiasmi per i “moti” che hanno
riportato la repubblica in Francia e dopo aver piantato un albero della libertà
in Place des Vosges, a Parigi, Victor Hugo, durante la cerimonia, esorta solennemente
la folla convenuta: “Adoperiamoci come uomini di buona volontà, senza
risparmiare fatica e sudore. Diffondiamo nel popolo che ci circonda, e oltre,
nel mondo intero, la simpatia, la carità, la fraternità”. Dopo di allora, ha
ceduto il campo alla preminenza valoriale di libertà ed uguaglianza e
alle controversie ideologiche che la loro difficile coesistenza ha originato.
Rispetto ai risvolti giuridici e concreti che i diritti alla
libertà e all’uguaglianza possono avere, il principio della fraternità è
apparso politicamente inconsistente, per il suo lato sentimentale o
squisitamente morale. Quando, poi, ha assunto un volto politico, nella storia
occidentale, lo ha fatto nella manifestazione perversa di “fraternità chiuse”
come il nazionalismo o l’estremismo o, addirittura, in quella che, in Le
origini del totalitarismo, Hannah Arendt chiama “fraternità nell’abiezione”
e che lega gli uomini omologati dall’ideologia e dal terrore, privati di
libertà e individualità, nei regimi totalitari.
Anche il filosofo
neocontrattualista John Rawls, nel celeberrimo A Theory of Justice (1971),
riconosce il ruolo secondario avuto dal principio di fraternità nello sviluppo
storico e nella teoria della democrazia e pensa di aggirarne la debolezza
politica, razionalizzandolo nell’idea “di non desiderare maggiori vantaggi, a
meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene”. Ma la
provocazione intellettualmente originale dell’ultima enciclica di Francesco è
proprio quella di riabilitare gli aspetti sentimentali e affettivi della
fraternità e di sottolinearne la valenza politica che possono assumere nella
nostra congiuntura storica. Parimenti, non dimentica di ricordare come la
fraternità può puntellare e “offrire qualcosa di positivo alla libertà e all’uguaglianza”
(FT, 103), impedendo a queste di degenerare in individualismo patologico
o in sodalizio fanatico e intollerante. Secondo una linea di ragionamento non
lontana da quelle tendenze “autocritiche” della modernità espresse dai padri
della sociologia classica e che proponevano di tradurre e attualizzare il
principio di fraternità con quello di comunitarismo o di solidarietà sociale,
nella seconda metà del XIX secolo. Ma, oggi, la sfida da cui quella “promessa
mancata” della modernità può essere ripresa, è proprio accettare l’altro
messaggio che percorre tutta l’enciclica: la fraternità o è aperta e
universale, o non è. O concerne e affratella una sola umanità, in
un solo pianeta, o non è. Proprio interpretando esplicitamente le parole di
Francesco su questo tema e che ora sono confluite nell’enciclica, è stato
Zygmunt Bauman a dire, nel suo libro postumo Stanger at Out Door,
che “la scelta tra la sopravvivenza e l’estinzione dipenderà in definitiva
dalla nostra capacità a ‘vivere fianco a fianco’ nella pace, nella solidarietà
e nella cooperazione, tra sconosciuti che non condividono necessariamente le
stesse opinioni e gli stessi gusti”. Come avverte Francesco nell’enciclica:
“Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura
di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un ‘noi’ che abita la Casa
comune” (FT, 17).
Lo stato
agonizzante in cui oggi versa la fraternità, in un mondo paradossalmente
iperconnesso mediante le tecnologie digitali, ne reclama allo stesso tempo
l’urgenza. Le disuguaglianze, le discriminazioni, l’intolleranza, la minacciano
e la indeboliscono. Indici del suo avvizzimento, secondo Francesco, sono le
tensioni internazionali, la crisi della capacità regolativa del diritto
internazionale, l’insorgenza di nazionalismi e sovranismi, la cultura dello
“scarto” (non solo di rifiuti, ma di poveri, emarginati, disoccupati),
l’atteggiamento ostile verso i migranti, i diritti umani non sufficientemente
universali, le correnti di odio che attraversano la Rete... Ma, anche
all’interno delle società più progredite e liberali e di “regioni” del mondo
più integrate come l’Europa, è la pulsione del risentimento, la ruminazione
vittimista, a fomentare nuove chiusure, divisioni, la risorgenza di razzismi e
xenofobia, e quelle forme politiche populistiche e regressive che sviano dalla
prospettiva, ormai ineludibile per la nostra salvezza, “di una comunità
mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che
vivano l’amicizia sociale” (FT, 154). Rigenerare la fraternità nel mondo
attuale significa rigenerare sia le relazioni umane e sociali, sia le relazioni
internazionali, tenendo a mente, in un caso, il gesto del buon samaritano, in
grado di mostrare “che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli
altri” e che “la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro” (FT,
68) e, nell’altro caso, che “una sana apertura non si pone mai in contrasto con
l’identità” (FT, 148).
Ancora una
volta, fungendo da tragico contraltare a un mercato planetario che non ha
saputo finora suscitare sentimenti di fraternità, è stata la tragedia globale
della pandemia a diffondere effettivamente “per un certo tempo la
consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca,
dove il male di uno va a danno di tutti” (FT, 32). La presa di coscienza
delle interdipendenze globali cresce con il germe di un’etica della
vulnerabilità che può finalmente integrare l’etica classica della virtù, che,
pur denunciando l’egoismo, trascura di riconoscere l’importanza dell’umiltà,
intesa come esperienza soggettiva della propria fragilità e carnalità. Questi
due elementi possono effettivamente e simultaneamente concorrere, per la prima
volta nella storia dell’umanità, alla nascita di una comunità planetaria e di
una fraternità concretamente universale, che, allo stesso
tempo, costituisce una novità e una Aufhebung delle due
esperienze di fraternità storicamente compiute fino a oggi, almeno in
Occidente: la fraternità cristiana e la fraternità laica repubblicana.
L’invito del
Papa, con questa enciclica, è quindi a cogliere il kairòs del
momento storico che viviamo e “recuperare la passione condivisa per una
comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno
e beni”, senza la quale “l’illusione globale che ci inganna crollerà
rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto” (FT, 36),
allineati, potremmo aggiungere, in uno sciame digitale di “io minimi”, come li
definì tempo fa Christopher Lasch, dediti alla sopravvivenza in un tempo di
incertezza e di collasso. Già da oggi le contraddizioni e le crisi del nostro
tempo ci richiamano a una responsabilità più estesa e ci pongono immediatamente
“davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che
passano a distanza” (FT, 69). Solidarietà o morte, simbiosi o morte,
fraternità o morte. Nessuno si salva da solo, siamo tutti sulla stessa barca,
ammonisce Francesco. Questa è la sola certezza del futuro incerto che ci
attende. Un futuro che non possiamo programmare, ma nel quale possiamo
scegliere un percorso. Il percorso della fraternità, con la libertà e
l’uguaglianza.
Quel passo indietro di Francesco - Paolo
Cacciari
“Fratelli
tutti” è una citazione delle Ammonizioni di Francesco d’Assisi. Le regole di vita che dovevano
seguire i suoi monaci e non solo. Come il Cantico delle creature ha
ispirato papa Bergoglio nella Laudato si’ nel definire quali
dovrebbero essere i rapporti tra gli esseri umani e la natura, così il
Poverello d’Assisi nella nuova “enciclica sociale” Fratelli tutti torna
ad indicare il cammino della Chiesa nel mondo secondo la visione di papa
Francesco. Ma, se la prima enciclica ha imposto all’attenzione del
mondo i nuovi paradigmi dell’ecologia politica (leggi Il Cantico che non c’era), la seconda – a
mio modestissimo avviso, da osservatore agnostico – non mi pare avere
la forza di rovesciare i fondamenti dell’economia (che è) politica vigente e
dominante. Contrariamente allo sbarramento di fila alzato dalle destre
interne ed esterne alla Chiesa e alle aspettative della sinistra alla ricerca
di sentieri post-capitalisti, non mi pare proprio che Francesco possa essere
definito un “papa comunista”, peggio: seguace di “Marx, Lenin e Mao”, secondo
il filosofo Marcello Veneziani sulle pagine de “La Verità”. Dico ciò senza
sminuire gli allarmi e gli appelli lanciati dal papa Francesco per fermare la
dinamica autodistruttiva imboccata dall’umanità per colpa dei potenti della
Terra.
Nella Fratelli
tutti vi sono due importanti sistemazioni teoriche, alcune conferme e
altre perplessità da
iscrivere nella categoria delle mie personali aspettative deluse. Incomincio
dalle novità.
Il no alla
guerra e all’ergastolo (“morte nascosta”[paragrafo 268]) – oltre alla pena di
morte – si richiamano al principio etico assoluto, non negoziabile della
nonviolenza. Ne sono conferma le riconoscenti citazioni di Martin Luther King,
Desmond Tutu e Mahatma Gandhi. All’appello manca ancora solo Lev Tolstoj, a cui
evidentemente non è stato ancora perdonato il suo pungente anticlericalismo.
L’enciclica va esplicitamente oltre i dettati del Catechismo e
i tradizionali atteggiamenti della Chiesa che è stata spesso benevola nei
riguardi delle “guerre apparentemente umanitarie, difensive o preventive”[258].
Comportamenti non più ammissibili per Bergoglio, perché: “Oggi è molto
difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di
una possibile ‘guerra giusta’. Mai più la guerra!” [258]. Bergoglio quindi
pensa che sia avvenuta una cesura epocale che deve portare al riconoscimento
della inviolabilità di ogni persona: “Ogni essere umano possiede una dignità
inalienabile” [213]. Che è la filosofia dell’intera enciclica.
La seconda,
definitiva e perentoria presa di posizione di papa Bergoglio riguarda l’emigrazione:
“Il diritto a non emigrare” e, contemporaneamente, “Il diritto di ogni essere
umano a trovare un luogo dove poter realizzarsi” [129]. La novità sta
nell’argomentazione (una
conseguenza diretta di ciò che già veniva scritto nella Laudato si’): se
in natura tutto è connesso e interdipendente allora nella “casa comune” deve
valere il “principio dell’uso comune dei beni creati per tutti” e il
conseguente “principio della destinazione universale dei beni creati” [120].
Parole che hanno fatto scalpore nella destra conservatrice perché vengono
messe in discussione la sovranità nazionale e la stessa proprietà privata.
Da qui le invettive sui giornali, e non solo, contro il “papa comunista”. In
realtà l’“enciclica sociale” di papa Francesco (una summa dei suoi scritti) non
aggiunge molto – a mio parere – alla consolidata Dottrina sociale della Chiesa.
Già Pio XI, all’indomani della crisi del ‘29 criticava duramente l’imperialismo
finanziario internazionale e poi Paolo VI (Populorum Progressio), Wojtyła e
Ratzinger scrivevano che il diritto alla proprietà privata non è né assoluto né
intoccabile. Vero è che Bergoglio rafforza le critiche al “modello
economico fondato sul profitto” [22] facendo leva sugli evidenti
fallimenti e le crisi drammatiche che tale modello sta provocando. “Qualcuno
pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si
potesse considerare sicuro” [33]. Invece: “l’impero del denaro” [116] ha acuito
le povertà, le disuguaglianze, la mancanza di lavoro, della terra e della casa
e comporta “la negazione dei diritti sociali e lavorativi” [116]. Quindi, “Il
diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di
sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri” [122]. Attenzione
anche alle rappresentazioni false e di comodo della realtà. Ad esempio, spiega
Bergoglio: “Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa
misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale
(…) La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità
reali di un momento storico”. Come dire: misurare la povertà sulla base della
disponibilità di qualche centesimo di dollaro in più o in meno al giorno
significa non tenere conto delle condizioni reali in cui si trova l’umanità
negli inferni delle periferie delle megalopoli del terzo mondo o nelle campagne
desertificate dai cambiamenti climatici.
Ciò detto,
vengo alle delusioni.
Se la critica
alle “visioni economiciste” [168], alle “regole e ai sistemi esistenti” [7] e
agli “strumenti di dominio” [14] emerge chiara e potente dalle parole del papa,
manca invece la individuazione e la denominazione delle “cause strutturali”
[116] che sono all’origine delle ricorrenti crisi sociali ed ecologiche.
Non mi pare
che in tutte le novantaquattro pagine della Fratelli tutti venga
mai nominato il capitalismo, ovvero quella particolare formazione sociale oggi
predominante che basa il suo funzionamento (competizione, ad ogni livello, per
la crescita del valore monetario delle merci prodotte e vendute) sulle
disparità di classe, oltre che di luogo, di “razza” e di genere, e che è giunto
a condizionare totalmente i rapporti tra le persone e plasmare le stesse
relazioni umane. Non è una questione nominalistica. In altri precedenti
scritti e discorsi Bergoglio era stato più esplicito e chiaro. Ad esempio
nell’audizione del 4 febbraio del 2017 con il movimento dell’Economia di
Comunione che si ispira all’imprenditrice Chiara Lubich ebbe a dire: “Quando il
capitalismo fa della ricerca del massimo profitto l’unico suo scopo, rischia di
diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il
capitalismo continua a produrre scarti”, cioè, ad impoverire, emarginare,
precarizzare. Insomma la “cultura dello scarto”, dell’emarginazione e
dell’esclusione sembrava venire associata a quella del sistema socio-economico
di stampo capitalista. Ancora più esplicito è stato Bergoglio nell’audizione
con i partecipanti al Congresso internazionale dell’associazione dei giuristi
di diritto penale: “Una delle frequenti omissioni del diritto penale (…) è la
scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in
particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero
con queste parole. (…) Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi
delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente.
Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento
degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta” (15 novembre 2019).
In molti ci aspettavamo di sentire dalla nuova enciclica una risposta alla
domanda – forse banale ma ineludibile – se un sistema
economico di mercato votato alla ricerca della crescita del profitto possa mai
diventare socialmente ed ecologicamente sostenibile.
La parabola
del Buon sammaritano – presa da Bergoglio come metafora universale dei rapporti
umani e sociali – non ci rivela chi sono i briganti di strada che rapinano il
viandante. Sono solo una banda di fuorilegge senza scrupoli morali, accecati
dall’avidità alla ricerca di un facile arricchimento, o non sono invece i
“potenti” [154] ai vertici degli interessi economici che controllano l’intera
società e tengono in ostaggio la politica? Sono alcuni individui che hanno perduto i valori
morali, l’amore per l’altro, la “comunione universale” e il “desiderio di farsi
carico degli altri” [87], o non sono invece persone ben organizzate e protette
dal sistema giuridico-istituzionale che si sono costruiti attorno per tutelare
i loro affari? Devianti o non invece la parte dominante di un sistema economico
strutturalmente fondato sul prelievo violento delle risorse naturali, sullo
sfruttamento e l’espropriazione del lavoro altrui?
A me pare
che Bergoglio manchi nel dare risposte a questi quesiti, mantenendo una
equivoca ambivalenza che finisce per indebolire l’efficacia del suo
stesso messaggio di animazione evangelica, di fratellanza, amore e pace
sociale. Da una parte l’enciclica pone sotto accusa le teorie economiche
liberiste del trickle-down effect (“sgocciolamento” della
ricchezza dai ceti abbienti ai poveri), le “visioni liberali individualistiche”
[163] e il fatto che “il diritto di alcuni alla libertà di impresa e di mercato
non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri”
[122], dall’altra ipotizza la possibilità di emendare il sistema dagli eccessi
iniettando forti dosi etiche nei comportamenti umani degli operatori economici.
Insomma sembrerebbe che bastasse avere al vertice delle imprese come
presidenti, amministratori delegati e manager dei buoni cristiani per far
andare l’economia nell’interesse del bene comune. In attesa che ciò si
realizzi, papa Bergoglio auspica un recupero dell’autorità e della capacità di
intervento delle istituzioni pubbliche. Per ciò è necessario rigenerare la
democrazia, ora atrofizzata [169], attraverso una politica intesa come “forma
preziosa della carità” (Pio XI, 1927).
L’idea di
fondo di papa Bergoglio è che “il mercato da solo non risolve tutto” [168] (grassetto mio) e che
lo si debba aiutare attraverso una molto più forte e “nuova regolamentazione”
[170] statale a tutti i livelli. Serve “una autorità mondiale regolata dal
diritto” che tenga a freno l’avidità dei ricchi e dei potenti [172]. Bergoglio
giunge a citare il filosofo Paul Ricoeur: “Non c’è di fatto vita privata se non
è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità
se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato
sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere
assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla
giustizia sociale e dalla cittadinanza politica” [164].
In altri discorsi Bergoglio sembrava indicare una via diversa di
trasformazione del sistema economico dominante, più diretta, radicale, affidata
all’attivazione delle energie popolari per entrare in un ordine di idee di
democrazia sostanziale e di economia post-capitalista. “L’etica rimanda ad
un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle
categorie del mercato”, aveva scritto nell’esortazione Evangeli Gaudium,
(paragrafo 57, 2013). In un discorso ai Movimenti popolari aveva affermato:
“Diciamo no a una economia di esclusione e iniquità in cui il denaro domina
invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa
economia distrugge Madre Terra. L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di
accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune” (Terra, Casa,
Lavoro. Discorsi ai movimenti popolari del 2014, 2015, 2016, edizioni de “il
manifesto”, pag. 46). Il riferimento alla oikos, comune radice di economia ed
ecologia, è evidente. Qui invece, nella Fratelli tutti, l’obiettivo
della creazione di “fraternità universale e amicizia sociale” [142] e di una
“migliore” e “serena convivenza” [228, 279] sembra perseguibile
componendo etica e mercato attraverso la buona disponibilità
d’animo dei protagonisti e il raggiungimento in ogni individuo di “un livello
morale che gli permette di andare oltre sé stesso e il proprio gruppo di
appartenenza” [117]. Un’idea che si avvicina terribilmente al tradizionale
interclassismo cogestionale della Chiesa, che non mette in discussione gli
assetti di potere economici e giuridici dell’impresa capitalista.
Nell’enciclica l’iniziativa economica privata viene considerata persino con
reverenza: “L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione
orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo di tutti (…) tuttavia,
questa capacità degli imprenditori, che sono un dono di dio, dovrebbero essere
orientate chiaramente al progresso delle persone” [123]. Il tutto si risolve in
un accorato appello all’“unità”, alla “negoziazione” paziente [231], al
“realismo dialogante” [221], a un “patto sociale” [218] tra i diversi interessi
in gioco. Certo, precisa Bergoglio: “La vera riconciliazione non rifugge il
conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il
dialogo e la trattativa trasparente” [244]. Quindi, le “lotte (sono) legittime”
[243] se servono a difendere i diritti e a togliere potere agli oppressori. Ma
la “buona politica” [180] deve mirare al consenso e alla “concordia sociale”
[240]. La “civiltà dell’amore” [183] si fonda anche sulle buone maniere: dire
“permesso, scusa, grazie”. “Mettersi al posto dell’altro” [221] e usare
gentilezza, benevolenza, dolcezza, mitezza, tenerezza… aprono le porte non solo
del paradiso, ma anche ad una società migliore.
Bergoglio
vorrebbe con questa nuova enciclica ridare slancio e motivazioni al “ruolo
pubblico” della Chiesa: “Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di
casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sagrestie, per accompagnare la vita,
sostenere la speranza, essere segno di unità (…) per gettare ponti, abbattere
muri, seminare riconciliazioni” [276]. E indica anche le modalità dell’impegno:
stare dalla parte dei “movimenti popolari che aggregano disoccupati, precari e
informali” [169], “lottare per ciò che è più concreto e locale” [78],
promuovere politiche sociali che non siano “verso i poveri, ma con i poveri e
dei poveri” [169]. Insomma, fare in modo che “ogni essere umano possa diventare
artefice del proprio destino” [187]. Nell’incontro con i lavoratori delle
fabbriche in crisi in Sardegna, Bergoglio fece una preghiera: “Signore: aiutaci
ad aiutarci fra noi” (2013).
Tuttavia rimane
non chiaro quale dovrebbe essere il nuovo sistema economico che Bergoglio
intende promuovere, la nuova altra economica, così come auspica Luigino
Bruni, storico del pensiero economico e uomo di salda fede cattolica,
cofondatore della Scuola dell’economia civile. Secondo il professore della
Lumsa (Libera Università Maria santissima assunta) “questo capitalismo
individualistico ha i giorni contati. (…)”. “Le grandi crisi iniziano sempre al
culmine del loro successo… La novità della nuova ‘altra’ economia di questo
tempo sta nel cambiamento delle prassi e dei comportamenti, della cultura e
quindi del culto [capitalista]”, poiché ormai “il capitalismo è entrato dentro
l’anima delle persone per il suo essere religione pragmatica 24h7d: giorno e
notte, sette giorni su sette” (Il nuovo culto della felicità pubblica,
Buonenotizie del Corriere della sera, 22 settembre 2020). Per uscire da questa
economia dispotica e totalitaria si renderebbe necessario un cambio radicale
dell’idea stessa di progresso e di sviluppo, così come Bergoglio indicava nella
precedente enciclica Laudato si’. Non mi pare invece sufficiente
sperare di umanizzare gli agenti dell’impresa capitalista facendoli accettare
principi etici così da modificare i loro comportamenti, rimanendo comunque
all’interno dei ruoli che il mercato ha assegnato loro. Nemmeno mi parrebbe
sufficiente, in un ottica di trasformazione integrale e di necessaria
“conversione” degli apparati produttivi, tecnici, distributivi e di consumo,
accontentarsi di ricavare uno spazio di azione terzo, tra mercato e iniziativa
economica diretta pubblica, dove possano agire liberamente i portatori dei principi
di un’economia eticamente orientata. Abbiamo già sperimentato che il
Terzo settore schierato a cuscinetto tra i fallimenti del mercato e la
bancarotta degli stati non ha dato la meglio prova di sé. Altre benemerite
esperienze come quelle degli imprenditori dell’Economia di comunione non sono
riuscite a fare sistema. Servirebbe allora proporre con più decisione e
sperimentare concretamente un modello di riferimento decisamente diverso:
istituire e dare dignità alle “varie forme di economia popolare e di produzione
comunitaria” [169] con “tratti di gratuità” [152], che operano già ora ben al
di là della “logica perversa e vuota (del) calcolo di vantaggi e svantaggi”
[210], cioè del mercato.
In
interventi precedenti papa Bergoglio aveva nominato con minuziosa precisione e
trasporto empatico i soggetti economici da cui partire: cartoneros,
raccoglitori, venditori ambulanti, artigiani, pescatori, piccoli contadini,
muratori, sarti, persino giostrai! [Incontri con i movimenti popolari]. Nella
Laudato si’ scriveva: “L’istanza locale può fare la differenza” [LS 179] e
indicava nelle comunità di piccoli produttori, nelle fabbriche
recuperate, nei sistemi agricoli di piccole dimensioni che praticano le
rotazioni delle culture, nelle cooperative per lo sfruttamento delle energie
rinnovabili, nel riciclaggio degli scarti (oggi si direbbe nell’economia
circolare)… quelle azioni capaci di creare “reti comunitarie” [LS 219] e un
“tessuto sociale locale” [LS 232] tali da dare sicurezza alimentare e
autosufficienza economica alle popolazioni. “Piccoli gruppi” che praticano
forme di economie altre sono come “seme, sale ed enzima per il lievito” del
cambiamento [Audizione con l’Economia civile del 4 febbraio 2017]. Quando
Bergoglio parla di una società poliedrica sembra auspicare una convivenza
pacifica tra varie forme di produzione diversificate e di ordinamenti sociali
rispettosi delle varie tradizioni e scelte culturali e politiche dei popoli. In
tal senso sono paradigmatiche le riflessioni dell’autunno scorso sull’Amazzonia
a favore dell’autonomia e dell’autogoverno dei popoli
indigeni svolte in occasione del Sinodo per la Regione panamazzonica.
Altrettanto forti sono le proposte scritte nella lettera ai movimenti popolari
occidentali la domenica di Pasqua (il 12 aprile 2020, in pieno block down), tra
cui: “É venuto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di
base. Nessun lavoratore sia senza diritti”. Proposte, però, non riprese nella
nuova enciclica.
A giorni
(19-21 novembre) ad Assisi si svolgerà un incontro
internazionale chiamato The Economy of Francesco, rivolto ai giovani. Sarà
l’occasione per capire meglio in quale direzione vorranno andare i cattolici.
Quali interpretazioni daranno a Fratelli tutti.
Sicuramente
in Vaticano è aperto un confronto che avrà esiti anche direttamente politici.
Il più noto economista di riferimento del mondo cattolico italiano e del Terzo
settore, Stefano Zamagni, dallo scorso anno presidente della Pontificia
accademia delle scienze sociali, ha recentemente lanciato un manifesto e ha
promosso la formazione di “un nuovo soggetto politico” dei cattolici in
Italia (nome e simbolo depositati: “Insieme. Lavoro e famiglia,
solidarietà e pace”) con l’intenzione di ricompattare la “pericolosa diaspora
cattolica” e con l’obiettivo di superare il bipolarismo che avrebbe penalizzato
“le forze moderate del centro”. “L’unità politica dei cattolici – scrivono –
sono i cattolici”. La loro base di
riferimento dovrebbe essere le numerose associazioni riconducibili alla Cei. Le loro basi teoriche di economia
politica si riferiscano alle elaborazioni della Confederazione per la dottrina
della chiesa. Un paio di anni fa la Confederazione per la Dottrina della Fede
in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano,
istituito da papa Francesco e affidato al cardinale ghanese Tukson, avevano
prodotto un consistente documento, Oeconomicae et pecuniariae quaestions.
Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale
sistema economico- finanziario (Bollettino della sala stampa della Santa Sede
n.0360, 17/05/2018). Gli economisti del Vaticano si erano impegnati nell’arduo
compito di individuare “una nuova economia più attenta ai principi etici” e
“una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria neutralizzandone gli
aspetti predatori e speculativi”. Ma il miracoloso tentativo di ricomporre le
ragioni dell’economia parametrata sullo “scambio tra equivalenti” e quelle del
benessere reale delle popolazioni non mi pare sia riuscito bene. La
Confederazione della fede infatti giunge alla conclusione che “il profitto
va sempre perseguito”, anche se non “ad ogni costo”. Perciò: “In linea di
principio, tutte le dotazioni ed i mezzi di cui si avvalgono i mercati per
potenziare la loro capacità allocativa, purché non rivolti contro la dignità
della persona e non indifferenti al bene comune, sono moralmente ammissibili”.
Amen! Tra questi strumenti vi sono: il “denaro” (non la semplice moneta), che
viene definito “di per sé uno strumento buono”, il “valore aggiunto, che è lo
scopo primario del sistema economico-finaziario”, il credito e il debito, le
stesse borse valori. Si giunge così all’apoteosi delle meravigliose e
progressive doti del Mercato. “Il mercato, grazie ai progressi
della globalizzazione e della digitalizzazione, può essere paragonato ad un
grande organismo, nelle cui vene scorrono, come linfa vitale, ingentissime
quantità di capitali. (…) Possiamo dunque parlare anche di ‘sanità’ di tale
organismo, quando i suoi mezzi ed apparati realizzano una buona funzionalità di
sistema, in cui crescita e diffusione della ricchezza vanno di pari passo” (OPQ
paragrafo 19). Basta regolarlo con “solidi e robusti orientamenti”, applicare
le normative sulla “responsabilità sociale dell’impresa” e “istituire Comitati
etici, in seno alle banche, da affiancare ai Consigli di Amministrazione”.
Siamo entrati nel pieno della narrazione dello “sviluppo sostenibile” e
della “svolta etica e verde del capitalismo” annunciata dal The Wall Street
Journal lo scorso anno. Il sistema economico vigente, ci dicono, è compatibile
con il bene comune, purché “certificato” dai filtri Esg (Environmental, Social,
Governance) che aggiudicano un punteggio alle performace green degli
investimenti finanziari evinronmental frriendly e che concorrono a formare il
Jones Sustainability Index delle borse; garantito dalle etichette Ecolabel
rilasciate da una pretora di “enti terzi” da applicare alle produzioni
industriali; dai bollini che attestano il “benessere multidimensionale”
generato dalle imprese B-corp (Benefitn Corporation) et similia; autorizzato dalle
quote di emissione di gas climalteranti contemplate dall’ Emission Trading
System, rilasciate al “giusto prezzo” secondo l’andamento delle aste pubbliche
(sistema che ha valso l’ultimo premio Nobel per l’economia); emendato dalle
varie forme di compensazione degli inquinamenti (Clean Development Mecanism) e
di “tasse verdi”. E così via.
Soluzioni
che a me sembrano ben diverse da quelle ipotizzate da papa Bergoglio anche
in Fratelli tutti, ma compatibili con le linee delle Oeconomicae et
pecuniariae quaestions controfirmate dallo stesso papa Francesco. In Vaticano,
temo, ci siano problemi di dissociazione cognitiva, e non solo in materia di
politica economica. La più importate tra tutte le contraddizioni emerse con
la Fratelli tutti a me sembra emerga quando si afferma
solennemente: “É inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto
di essere donna” [paragrafo 121] e poi la si escluda dai ruoli
principali nella propria organizzazione.
L’enciclica dell’ultimo dei No Global? - Antonio Montefusco, Gian Luca Potestà
In un
dibattito pubblico caratterizzato dall'assenza di alternative al liberismo,
Bergoglio diffonde «Fratelli tutti». Un testo che si propone come radicalmente
realistico e che vuole essere la summa del suo pensiero e segnare la cifra del
suo papato. In che modo ci interroga?
Come noto, papa Francesco non dorme nelle usuali stanze del Vaticano, ma a
Santa Marta. Una delle tante scelte che manda su tutte le furie il mondo
conservatore, cattolico e non soltanto, che lo ha eletto a «nemico pubblico».
Per alcuni, addirittura, è un papa eretico: un nutrito gruppo di ecclesiastici
e laici, l’anno scorso, ne ha chiesto le dimissioni in seguito al sinodo sull’Amazzonia. Già la sua elezione,
avvenuta all’indomani delle clamorose dimissioni del controverso pontificato di
Benedetto XVI, sembrava segnata da analogie storiche: Ratzinger, prima di
rinunciare, era andato presso la tomba di papa Celestino V, (quasi) unico
precedente di vescovo di Roma che depone la tiara papale. Per chi studia il
medioevo, sono avvenimenti che possono dare adito ad analogie che vanno
maneggiate con cura – Celestino era stato, per alcuni, un papa «angelico», in
particolare per un gruppo di francescani radicali, che dopo la sua rinuncia
continuarono a sperare in un papa povero che fosse capo di una Chiesa povera.
Che il gesuita Jorge Mario Bergoglio scegliesse il nome di Francesco – questa
volta per primo nella bimillenaria storia dei pontefici, e a otto secoli dalla
morte del santo di Assisi – rappresentava dunque l’ennesima di queste
analogie.Ormai è noto che la scelta del nome è stata consapevole e riguardava
anche un programma ecclesiologico e politico-spirituale. Parlando coi media,
pochi giorni dopo l’elezione, il papa ha legato il nome di Francesco a un
progetto preciso: «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!». Di nuovo, le
analogie storiche si sprecano. Anche Dante Alighieri avrebbe voluto una Chiesa
simile. Come è ormai noto che i percorsi che hanno portato Bergoglio fin qui
non sono stati quelli della Teologia della Liberazione, che aveva
orgogliosamente marciato accanto ai movimenti rivoluzionari sudamericani; la
sua stessa esperienza durante la dittatura argentina fu travagliata e non
direttamente impegnata sul piano politico. Un grande storico, Giovanni Miccoli,
ha indicato in maniera
convincente come, nella scelta del papa, sia riemersa e abbia preso corpo la
particolare politica dei Gesuiti nel periodo che seguì il Concilio Vaticano II,
quando, sotto la guida di padre Arrupe, Francesco era diventato il vessillo
della riforma della Chiesa.
Anche su questo punto, papa Francesco ha intercettato un interesse diffuso
del mondo laico, anche intellettuale e non cristiano, che da tempo si interroga
sul «francescanesimo» prima come punto di rottura nel rapporto tra mondo e
chiesa dal punto di vista dello sviluppo economico – e qui si può pensare
a Lynn White, un grande storico che,
su Science nel 1967, indicò in san Francesco un campione dell’ecologismo che
rompeva con la tradizione cristiana, caratterizzata da un approccio aggressivo
e di trasformazione rispetto al mondo naturale – e ora come riflessione sui
modi di vita e sulla biopolitica – e qui penso invece alla conclusione di Impero di Toni Negri, in
cui Francesco era il rappresentante della gioia dell’attivista comunista, o
a Giorgio Agamben, che nell’elaborazione
dell’ordine ha indicato una forma-di-vita radicalmente alternativa perché
sottratta al possesso. Perché quello di Francesco – pur rimanendo anch’esso un
pontefice molto problematico in tema di diritti delle donne – più che un
pontificato «messianico», rappresenta in qualche maniera il paradosso di un
cambio di passo deciso nella storia della Chiesa.
L’enciclica Fratelli tutti, appena emanata, è particolarmente
rappresentativa di questo cambio. Innanzitutto, è significativo che la furia
dei conservatori sia stata, se si vuole, ancora più decisa: Marcello Veneziani, in un editoriale
livoroso su La Verità, ha accusato il papa di essere «a sinistra di
Lenin e di Mao». Ma anche sul fronte opposto, qualcuno si accorge della novità.
Augusto Illuminati, proponendo una precisa disamina di una serie di passaggi
del testo, ha concluso che, se non si tratta di comunista, sicuramente
Francesco è una «zecca d’oltretevere». Un compagno di strada,
si sarebbe detto in altri tempi – ma senza il soggetto politico da
accompagnare, bisogna dire. Perché la Fratelli tutti nasce all’interno di una
riflessione codificata – la dottrina sociale della Chiesa – che si afferma a
partire dall’Ottocento in corrispondenza con le grandi rivoluzioni sociali
europee (le marxiane «guerre civili»). A me pare che, polarizzando molto,
quella nasceva in regime di concorrenza con l’alternativa socialista, che
minacciava la presa ecclesiale sui ceti popolari, e soprattutto si sviluppava
in un contesto di una chiesa profondamente segnata dal conflitto con la
modernità (sia scientifica sia istituzionale) che l’aveva saldamente condotta
su posizioni conservatrici; qui invece la Chiesa di Francesco sembra avocare a
sé il monopolio della critica al sistema sociale, addirittura invocando una
trasformazione delle istituzioni laiche. Per questo credo che sia importante
chiedersi che cosa è cambiato: è finita la lunga crisi del rapporto tra Chiesa
e modernità che si è prolungata dall’Ottocento al pontificato di Ratzinger,
attraversando e problematizzando? Per confrontarsi con tutto questo, abbiamo
dialogato con Gian Luca Potestà, ordinario di Storia del cristianesimo alla
Cattolica di Milano e specialista di francescanesimo e profetismo
medievali.
Innanzitutto, possiamo chiarire velocemente che cos’è un’enciclica e perché
è così importante nel corso di un pontificato? Qual è la differenza tra
l’intervento tramite enciclica di Francesco – che sembra più meditato, e punta
a encicliche-manifesto, di carattere generale – e quelle dei suoi predecessori?
Per enciclica si intende una lettera circolare, generalmente – ma non
sempre – indirizzata da un papa in primo luogo alle chiese e
agli episcopati. Tra le encicliche, alcune sono per comodità definite
«sociali», in quanto riguardanti più lo stato del mondo che l’insegnamento
dottrinale propriamente cristiano. La più celebre resta la Rerum
novarum, in cui Leone XIII a fine Ottocento apriva gli occhi della Chiesa
sul mondo del lavoro, rivendicando uno spazio di analisi e intervento in
competizione con la crescita impetuosa del movimenti socialisti e delle
organizzazioni sindacali. Le successive encicliche «sociali» sono state
prevalentemente pubblicate in occasione di ricorrenze: quaranta anni dopo (Quadragesimo
anno), ottanta anni dopo (Octogesima adveniens), cento anni dopo (Centesimus
annus)…
Prerogativa delle encicliche a partire da Giovanni XXIII è che talvolta
sono rivolte non solo ai cristiani, bensì – per richiamare due termini di
matrice biblica entrati grazie a quel papa nel lessico della Chiesa – a
tutti «gli uomini di buona volontà», in vista di un comune sforzo di decifrare
«i segni dei tempi». Dopo Giovanni XXIII, Paolo VI si pose il problema del
titolo in forza del quale la Chiesa può pensare di rivolgersi a tutti gli
uomini di buona volontà. E offrì una risposta ambiziosa: può parlare in quanto
«esperta in umanità». In tale prospettiva cessa di contrapporsi frontalmente al
mondo, come di fatto avvenuto a partire dalle prime avvisaglie della Modernità,
ma si inserisce a pieno titolo dentro il suo movimento, sperando di
indirizzarlo senza contrapporsi a priori a esso.
L’enciclica Fratelli tutti si pone lungo tale solco. Il
papa si richiama al comune sentire con il Grande imam di Al-Azhar, incontrato
ad Abu Dhabi, così come nella precedente Laudato si’ aveva
addirittura attribuito la prima idea di essa all’incontro con il patriarca
ortodosso Bartolomeo. Il papa si presenta quasi come un primus inter
pares, chiamato a dare voce con loro alla comune fratellanza umana. A prima
vista riprende così un impulso venuto da Giovanni Paolo II (e non troppo
apprezzato da Benedetto XVI), che con gli incontri di Assisi tra leader
religiosi volle mostrare che non solo le diverse confessioni cristiane, ma il
complesso delle religioni – fattore spesso di potenziamento delle inimicizie e
dei conflitti identitari – possono trovare un terreno comune di riflessione e
di preghiera in vista della pace. Mentre però quegli incontri di Assisi si
caratterizzavano spettacolarmente per numero e varietà degli invitati, qui si
tratta di incontri e dialoghi a due, il cui frutto è recepito in documenti
appartenenti al genere letterario più alto fra quelli a disposizione del
Magistero papale.
Come si colloca questa enciclica rispetto alle altre due emanate da
Francesco? La prima – Lumen fidei – apparentemente più
tradizionale, ma incentrata su un tema controverso della tradizione cristiana
– «agape» – e la seconda più risolutamente ambientalista (Laudato
si’).
Il testo si presenta come una sorta di summa del pensiero
del papa, un piccolo dizionario enciclopedico del suo pensiero, intessuto com’è
di citazioni tratte da suoi precedenti interventi. Non pretende dunque di porsi
come un testo originale, bensì di fissare un punto nel percorso di un
papa che evidentemente ritiene giunto il momento di definire sé stesso.
La sua autorevolezza è inversamente proporzionale alla crisi di prestigio delle
tradizionali leadership e più in generale dei gruppi dirigenti politici ed
ecclesiastici a tutti i livelli, prevalentemente incapaci di interpretare e
orientare i destini del mondo, di riformare e di riformarsi. Il papa fa ciò che
gli riesce meglio: alza una voce profetica, non nel senso del prevedere il
futuro, ma in quanto interprete del presente alla luce del disegno espresso
nella Rivelazione cristiana.
Ecco: questo ci pare un punto cruciale, che può e deve interrogare anche le
sinistre che si pongono un progetto di trasformazione sociale e politica.
Il «profetismo» papale sembra basarsi proprio, come dici, sulla
totale assenza di voci alternative. Nell’enciclica,
questo «profetismo» si esplica in una visione profondamente realista
della realtà. Il papa sembra rivendicare questa visione come obiettiva e
scientifica. In un passaggio-chiave, rivendica una lettura contestuale e
storica dell’esclusione sociale, rappresentata nel concetto cristiano
(ambivalente) di povertà («Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la
povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con
la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso
all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo
di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle
possibilità reali di un momento storico concreto»). In diversi passaggi
l’origine del problema è individuatao nettamente, sia in un sistema economico –
il capitalismo («Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà
di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro», leggi gli esclusi) –
sia nel suo cascame ideologico contemporaneo – e l’idea del trickle-down, dello
sgocciolamento della ricchezza a favore di tutti, che è stata anche la bandiera
della «Terza Via» e dell’ex premier inglese Tony Blair (con tutti i suoi
addentellati locali poco gloriosi), che si pensava spazzato via dalla storia
con la candidatura di Jeremy Corbyn («Il neoliberismo riproduce sé stesso tale
e quale, ricorrendo alla magica teoria del «traboccamento» o
del «gocciolamento» – senza nominarla – come unica via per risolvere
i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve
l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il
tessuto sociale»). E poi c’è la risposta, chiaramente indicata: una risposta
che è di militanza – si parla di lotta – e di modo di vita alternativo – la
solidarietà, intesa ad ampio raggio: «Solidarietà è una parola che non sempre
piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non
si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di
generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità
della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche
lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la
mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali
e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro. La
solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed
è questo che fanno i movimenti popolari». E sullo sfondo, continua e
minacciosa, la crisi climatica…
La diagnosi dello stato del mondo è preoccupata. Dappertutto vengono meno
le speranze: «sogni che vanno in frantumi», si legge nell’enciclica, che
attribuisce una valenza positiva al termine «sogno» in quanto lo vede non come
evasione, ma come fonte e proiezione del desiderio, elemento propulsivo di ogni
realizzazione umana.
Papa Francesco cerca di immettere nuova vita nelle parole umane e cristiane:
fraternità, amore, giustizia, gratuità, verità. Lo fa assumendo un punto di
veduta preciso e determinato: «lo sguardo dal basso», dai sotterranei del
grattacielo della miseria. Squilibri e disuguaglianze sono considerati dal
punto di vista dei soggetti, popoli e individui, più poveri, più deboli, più
fragili. La prima risposta da dare alla fragilità è il lavoro, lavoro per
tutti. Esistono peraltro infiniti generi di fragilità, e il papa accusato di
populismo è fine anche quando parla delle fragilità personali e dei percorsi
per superarle. Il suo sguardo si ferma però in special modo su grandi soggetti
collettivi, principalmente sulle masse diseredate e senza voce dei migranti di
cui difende il diritto a voler vivere meglio, quali che siano le ragioni per cui
si mettono in movimento. Non solo guerre e persecuzioni politiche ed etniche,
ma anche «semplici» ragioni economiche: migrare è un diritto che va
riconosciuto come tale, a cui si deve dare corso offrendo sostegni e garanzie
che consentano una dignitosa accoglienza e pacifica integrazione nei paesi dove
i migranti si stabiliscono, fino alla concessione della cittadinanza da parte
del paese ospite.
Nel porre al centro la parabola del samaritano, l’enciclica vi legge
innanzitutto una denuncia dell’indifferenza – del «cuore indurito», nella
tradizione biblica e cristiana. Un presupposto ideologico implicito
dell’attuale indifferenza è che non vi siano altri percorsi di vita possibili
al di fuori di quello segnato dal modello capitalistico via via trionfalmente
affermatosi come incontrastato, quasi fosse un percorso naturale e
ineluttabile, che nemmeno una pandemia delle dimensioni attuali pare poter
scalfire nelle coscienze. Un modello di vita che conduce verso la divorazione
stessa del mondo. E mentre denuncia la catastrofe ambientale, Francesco mette
in luce i limiti di un’idea di democrazia che rischia di essere puramente
nominalistica se chiama solo al voto ed esclude ogni forma (integrativa o
sostitutiva) di partecipazione diffusa e di soggettività attiva sul piano
comunitario. Più che un profeta è un apocalittico, nel suo continuo richiamare
l’imminenza della fine. Contro la dottrina dello sgocciolamento – per cui la
smisurata crescita economica dei ricchi comporterebbe alla lunga e in
proporzione qualche beneficio anche per i poveri – mette in luce come tale
modello presupponga lo spreco e produca scarti.
Nel rileggere la parabola del samaritano, l’enciclica ricorda che al
viandante derubato e percosso il samaritano offre innanzitutto il tempo della
propria attenzione. Valore del tempo, punto centrale per papa Francesco, forse
sollecitato in questo anche dal suo imprinting di gesuita (la confessio
generalis cui si sottopose Ignazio a Montserrat durò tre giorni; e i
suoi Esercizi Spirituali, tuttora ampiamente praticati, esigono
quattro settimane piene per un percorso di progressiva scoperta e verifica
della vocazione cristiana). In un’intervista di qualche anno fa
al direttore della rivista Civiltà Cattolica, il papa diceva: «non
bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi anche lunghi dei
processi. Noi dobbiamo avviare processi più che occupare spazi. Dio si
manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia, Questo fa
privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove, richiede pazienza e
attesa». Di per sé, lo spazio è il luogo in cui si cristallizzano quasi
naturalmente le microfisiche del potere: nella determinazione degli spazi i
rapporti di dipendenza e le forme di esclusione si consolidano.
Nell’enciclica, sembra ci sia un sforzo per risignificare il quadro
concettuale del politico nel presente: lo spazio, senz’altro, ma
anche il tempo e il linguaggio. Mi pare di
intravedere dei tentativi non tanto di mettersi «in pari» con il
dibattito contemporaneo – qui evidentemente il contesto richiama alla
discussione sull’accelerazionismo e sull’utilizzo dei social – ma di un
intervento radicale e diretto. Anche qui mi pare di vedere una novità, almeno,
nel contesto della riflessione pubblica della Chiesa, che pure sul presidio
dello spazio pubblico della parola ha fondato la sua presenza millenaria nella
società.
Nella condizione attuale di esasperata competizione globale, il tempo viene
a sua volta tendenzialmente privato del suo positivo distendersi, della sua
potenziale flessibilità, che permette di scoprire sé stessi, di interessarsi a
un altro e dialogare con lui, o semplicemente di restare in silenzio. Nel tempo
accelerato e come tale vanificato la comunicazione diventa ardua. «La
velocità del mondo moderno, la frenesia ci impediscono di ascoltare bene quello
che dice l’altra persona – afferma l’enciclica – e quando è a
metà del suo discorso già la interrompiamo; vogliamo rispondere mentre ancora
non ha finito di parlare».
A sua volta, il linguaggio, se si distende nel tempo, è tramite di
conoscenza e di comprensione, può dare sostegno alla fragilità e
all’insicurezza dell’altro: «mettersi seduti ad ascoltare l’altro è
caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento
accogliente, di chi supera il narcisismo e fa spazio all’altro nella propria
cerchia». Velocizzate e semplificate, le parole della messaggistica tendono
invece – se lasciate in balia di sé stesse – a raggrumare e diffondere
mozziconi di concetti e schizzi di rancore che in passato sarebbero parsi
inesprimibili. I messaggi assumono toni ora violenti e imperiosi, ora
ultimativi e a prima vista inconfutabili, anche se nessuno è in grado di
conoscerne le fonti e stabilirne l’autorevolezza. Il testo fa sua la denuncia
di un documento dei vescovi dell’Australia: «non possiamo accettare un mondo
digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio
dalla gente».
Si tratta di affermazioni per certi versi ormai risapute e persino
scontate; e tuttavia è significativo che siano depositate in un documento
ascrivibile al genere letterario più alto della Chiesa romana, e come tali
siano destinate a prendere posto nella pastorale ecclesiastica degli anni a
venire.
Come alternativa al linguaggio impoverito e banalizzato dei social,
l’enciclica rivendica innanzi tutto che «c’è bisogno invece di gesti fisici, di
espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di
profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte
della comunicazione umana». Di qui gli appelli a cambiare stile, a praticare
tenerezza e gentilezza, parole su cui tanto ha insistito la stampa in questi
giorni quasi fossero cose nuove, mentre in realtà rinviano a riflessioni
cresciute in questi anni negli interstizi tra teologia, filosofia, letteratura
e spiritualità.
Possiamo arrivare alle radici «politiche» dell’enciclica, se sei
d’accordo. In maniera davvero sorprendente, è nel quadro di quest’analisi
realista ma anche profondamente radicata nei dibattiti del presente che viene
presentata l’analisi delle migrazioni. Secondo il papa – con una chiarezza
difficile da rintracciare altrove – la distinzione tra migrante economico e
rifugiato non esiste, ma tutti hanno diritto a muoversi per migliorare la
propria condizione. Su questa base, la risposta culturale al mondo globalizzato
– in cui appare anche una migrazione dei «poveri»,
della «solidarietà» contro a quella solo del mercato – mi pare cercata
negli strumenti di una democrazia vera, che si vuole partecipata, e in una
società «poliedrizzata» – e anche qui la visione è nuova e forte,
perché c’è il rifiuto del meticciato ma una proposta che sembra andare in
direzione post o decoloniale (appunto, un’identità poliedrica). Non trovi che
qui ci sia soprattutto una continuità e uno sviluppo con le idee – esse stesse
poliedriche – del movimento cosiddetto no global degli inizi
degli anni 2000? Questa enciclica è in fondo lo sviluppo più coerente dell’incontro con i movimenti popolari del 2016?
Accusato in modo ricorrente di populismo argentinizzante, il papa mette in
guardia da nazionalismi, sovranismi e populismi, offrendo la sua declinazione
del termine «identità»: termine non precisamente chiarito né problematizzato al
tempo del papa polacco, quando era brandito per rivendicare sia l’identità cristiana
(negata) dell’Europa, sia – da parte di movimenti cattolici al
seguito – per contrapporsi e contarsi. Se l’identità è concepita come un muro
compatto, privo di spiragli e di fenditure, allora – che si
tratti di identità etnica, nazionale, regionale, religiosa, cattolica… – essa
assume nell’ordine del discorso la funzione di strumento utile a suscitare
paure ancestrali, a polarizzare ed escludere. Fratelli tutti offre
un’altra lettura dell’identità: ognuno ha la sua parte di verità, dice il papa
con il Grande imam, l’identità si costruisce attraverso una continua azione di
costruzione e decostruzione della propria. Al fondo, sta un’altra parola
paolina e ignaziana, riportata in auge dal cardinale Martini: discernimento,
ovvero individuazione di ciò che va conservato e di ciò che può essere invece
lasciato cadere a favore dei contributi che vengono da altri.
L’enciclica non era certo la sede, ma tale prospettiva richiederebbe un
approfondimento teorico, giacché ogni religione aspira all’assoluto, e invocare
la tolleranza reciproca non basta certo a disinnescare le armi o a costruire
identità fresche. Superata l’idea, già baldanzosamente proclamata da certi
settori cattolici, del «meticciamento» identitario (termine fuorviante, in
quanto presuppone l’esistenza di identità pure e incontaminate), il papa
afferma che l’identità nuova deve avere la forma di un poliedro. Creata la
figura, resta peraltro il compito di verificare la fattibilità di questo corpo
solido e di progettarlo concretamente. Ma qui si tocca un punto sulla cui
soglia l’enciclica si ferma. Non solo essa, in verità. Si avverte diffuso il
venir meno di scenari teologici e filosofici, e di convincenti percorsi
esegetici, che siano all’altezza delle questioni in gioco. Colpisce, d’altra
parte. che in un’enciclica promulgata ad Assisi nel giorno della ricorrenza
anniversaria della morte di Francesco restino in fondo così rarefatti i
riferimenti al suo stile e in generale alla tradizione di pensiero che da lui
ha preso le mosse. Al punto tale che qualche interprete frettoloso ha potuto
affermare che l’accento posto dal papa sulla fratellanza universale sia un
tributo reso all’illuminismo, laddove rinvia invece al centro vivo
dell’esperienza della paternità divina così come fu vissuta da Francesco d’Assisi.
Tutto sta infatti – per dirla con le parole del francescano Eloi Leclerc
riportate quasi di sfuggita all’inizio dell’enciclica – nell’«avvicinarsi alle
altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma
per aiutarle a essere maggiormente sé stesse».
Tra questi «frettolosi», lo ammetto, ci sono anch’io: nell’incipit e
nell’insistenza del linguaggio dell’enciclica non ho potuto fare a meno di
interrogarmi su questo concetto complesso e variegato di fraternitas.
È un concetto caro, come è evidente, alla tradizione francescana (gli
appartenenti all’Ordine dei minori si chiamano Frati, come noto), ma che si
colloca bene nel fossato tra mondo del clero e mondo laico (e qui rimando alle
confraternite, associazioni appunto laiche). Ma è un concetto che si è anche
secolarizzato, che ha costituito, nella religione politica della rivoluzione,
un correttivo solidale della liberté: ci sarebbe da chiedersi se non siamo qui
di fronte a un «francescanesimo» millenial. Ma lascio stare le boutades,
perché credo invece che il testo della Fratelli tutti ci interroga in
profondità, anche perché – e qui sarebbe da aprire tutto un altro cantiere di
riflessione – si accompagna a una chiesa militante, che interviene nel sociale
e che può diventare finalmente attiva nella critica all’ordine sociale
esistente. Ma anche dall’altra parte del Tevere bisogna riattivare nodi e
pratiche, non foss’altro per non restare indietro nella critica e nella
prassi. Mario Tronti lo ha recentemente fatto riflettendo
sul fatto che il privilegio soggettivo del lavoratore di fabbrica, che in una
fase specifica dell’Occidente ha superato l’emarginazione per diventare classe
dirigente, si è arenato per correggersi nell’idea che quella classe operaia
deve essere considerata erede dell’intera, e antica, storia dei subalterni e
degli ultimi del Vangelo. In questo, i poveri non danno più il nome ai Lumpen e
agli esclusi del progresso, ma si candidano a soggetto che marca la sua
presenza sulla storia.
*Antonio Montefusco insegna Letteratura Latina Medievale presso
l’Università Ca’ Foscari. Si è occupato di francescanesimo e dissenso
religioso, e di storia delle pratiche intellettuali nel Medioevo. Ha curato
recentemente Italia senza nazione (Quodlibet 2019) e, con
Giuliano Milani, Le Lettere di Dante. Ambienti culturali, contesti
storici e circolazione dei saperi (De Gruyter 2020). Gian Luca Potestà
insegna Storia del cristianesimo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano. Fra i suoi libri più recenti, L’ultimo messia. Profezia e
sovranità nel medioevo (il Mulino 2014). In corso di stampa Dante
in conclave. La lettera ai cardinali (Vita e pensiero).
La nuova enciclica del Papa, contro l’ideologia del mercato - Piotr Zygulski
La nuova lettera enciclica di papa
Francesco dal titolo Fratelli tutti (qui
il testo), firmata ad Assisi il 3
ottobre 2020, è dedicata – come mostra già il titolo
– all’apertura universale della fraternità e all’amicizia sociale, e non
risparmia parole incisive anche per l’economia. Nata a cavallo della
pandemia come sviluppo dei temi del Documento sulla
fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato
ad Abu Dhabi nel febbraio 2019 congiuntamente con il Grande Imam Ahmad
Al-Tayyeb, l’enciclica sistematizza in modo più autorevole alcuni spunti
che il papa aveva già offerto in altre occasioni.
Già nel primo capitolo “Le ombre di un
mondo chiuso” segnala che l’espressione “aprirsi al mondo” fatta
propria dalla finanza “si riferisce esclusivamente all’apertura agli
interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza
vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse
per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre
un modello culturale unico”, imponendo quindi una massificazione “che
privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria
dell’esistenza”.
Si verifica così “un vero e proprio
scisma” tra “l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità
condivisa”, con il “bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di
molte forme di individualismo senza contenuti”. Parla di “globalismo”
che, nella logica del divide et impera favorisce le identità
dei più forti e dissolve quelle dei più deboli.
Così “le persone svolgono il ruolo di
consumatori o di spettatori” e, sradicate, non vengono riconosciute nella loro
dignità. La cura della Casa comune – cui il pontefice aveva dedicato la
precedente enciclica Laudato si’ – “non interessa ai poteri
economici che hanno bisogno di entrate veloci”: si prevede che
l’esaurimento di alcune risorse naturali possa generare nuove guerre.
Se prima della pandemia “il mondo
avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi
tecnologici, cercava di ridurre i ‘costi umani’, e qualcuno pretendeva
di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse
considerare sicuro”, ora non dobbiamo dimenticare tutti gli “anziani morti
per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari
smantellati anno dopo anno”.
La vera fraternità cristiana esige che
sia rispettata l’eguale dignità di tutti, e quindi sebbene possa non
essere redditizio o possa comportare minore efficienza, per accogliere tale
principio occorre “investire a favore delle persone fragili”, con “uno Stato
presente e attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre
la libertà dei meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o
ideologici, perché veramente si orientano prima di tutto alle persone e al
bene comune”.
Se i benestanti non sentono l’esigenza
di un interventismo pubblico nell’economia, “non vale la stessa regola per
una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è
cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare
come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui
criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro,
e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica”. Perciò la
mera libertà economica, senza condizioni reali che permettano a tutti di
accedere ad essa e a un lavoro dignitoso, è vana. Finché ci sarà anche solo
una persona scartata dal sistema economico-sociale, non ci potrà essere una
società fraterna.
Nuovamente torna su quella che definisce
“cultura dello scarto”, che si può manifestare in vari modi, “come
nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi
conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come
effetto diretto di allargare i confini della povertà”. Analogamente
“Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci
per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È
aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che “nascono
nuove povertà” Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si
fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà
attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia
elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo di grave
disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle
possibilità reali di un momento storico concreto”.
(Francesco, Fratelli
tutti, 21)
Denuncia le “condizioni assimilabili
a quelle della schiavitù” in cui versano tutt’oggi milioni di persone del
mondo, e individua nella “concezione della persona umana che ammette la
possibilità di trattarla come un oggetto” la radice di questa riduzione della
persona a merce, a proprietà di qualcuno. Qui torna la “critica al paradigma
tecnocratico”, più focalizzata sul modo in cui le persone si relazionano
con gli altri e con le cose, che non solamente sul controllo degli eccessi.
Cardine della Dottrina Sociale della
Chiesa, la funzione sociale della proprietà è riproposta anche
da Papa Francesco, che si richiama a san Basilio, san Pietro Crisologo,
sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo e san Gregorio Magno per
i quali la redistribuzione delle risorse è doverosa, perché
dare agli indigenti è restituire loro ciò che ad essi appartiene, la loro
vita; non dare ai poveri significa rubare. Se la proprietà privata
è un diritto, è pur sempre secondario e subordinato rispetto “all’uso comune
dei beni creati per tutti”, che troppo spesso viene messo in secondo piano. Di qui
anche l’esigenza di un accesso equo alle risorse da parte dei poveri,
perché “il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato” deve essere
sempre subordinato ad essi e al rispetto dell’ambiente, a beneficio di tutti.
È interessante il modo in cui il vescovo
di Roma affronta la questione politica, e la contrapposizione tra
“populismi” e “liberalismi”. Entrambi possono nascondere il “disprezzo per
i deboli”: i primi rischiano di usarli “demagogicamente per i loro fini”, gli
altri “al servizio degli interessi economici dei potenti”. Come esempio
possiamo vedere le argomentazioni contro l’arrivo di persone migranti: da un
lato chi si pone sulla difensiva della propria identità chiusa, dall’altro chi
“argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il
fondo e decidano di adottare misure di austerità”. Se va ribadito il
“diritto a non emigrare”, vale a dire di poter vivere dignitosamente nella
propria terra, qualora tale ideale non fosse praticabile “è nostro dovere
rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non
solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche
realizzarsi pienamente come persona”.
Se certi “gruppi populisti chiusi
deformano la parola “popolo”“ perché si dimenticano che tale categoria è aperta
e dinamica, sbarazzarsi del termine “popolo” come fanno le “visioni liberali
individualistiche” – per le quali “la società è considerata una mera somma
di interessi che coesistono” – è altrettanto pericoloso: tra essi “è
frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei
più deboli della società”, e così smantellano anche la categoria stessa di
democrazia, di “governo del popolo”. Per Francesco la vera discriminante tra un
populismo demagogico irresponsabile e una proposta invece volta al bene
comune – magari grazie a leader popolari capaci di
interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi
tendenze di una società – è assicurare a tutti una vita degna mediante un
lavoro dignitoso, come obiettivo di lungo periodo; sussidi economici devono
essere considerati solamente un rimedio provvisorio.
Nonostante l’inefficienza o la
corruzione di alcuni politici, va difesa la sfera della politica,
minacciata da strategie che intendono “sostituirla con l’economia” oppure
“dominarla con quale ideologia”: c’è invece bisogno di una politica che non si
sottomessa “ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia”, ma anzi
che con un approccio più ampio e con “un’altra logica” sappia riformare le
istituzioni.
Tutto ciò non può essere demandato
all’economia, “né si può accettare che questa assuma
il potere reale dello Stato”, perché “ci sono cose che devono essere cambiate
con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti”, non con “rattoppi o
soluzioni veloci meramente occasionali”. Occorre invece la guida di una sana
politica, capace di dialogo che nasce dall’ascolto delle voci critiche e
scomode, talvolta “messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli
che sono solo interessi particolari”; tra l’altro
“A volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine
sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci
che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati
resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni”.
Se con la crisi finanziaria del
2007-2008 si è persa “l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta
ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria
speculativa e della ricchezza virtuale”, ancor più con la pandemia del Covid-19
si è resa necessaria la riforma dell’architettura economica e
finanziaria internazionale, oltre che dell’ONU, perché nel XXI secolo “la
dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a
predominare sulla politica”.
Di per sé infatti “il mercato da solo
non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede
neoliberale. Si tratta di un pensiero povero,
ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si
presenti”. Francesco critica aspramente la “magica teoria del
“’traboccamento’ o del ‘gocciolamento’ alla quale il neoliberalismo ricorre
per autoriprodursi proponendo di risolvere i problemi sociali che ha generato,
quando invece accentua le inequità, che generano “nuove forme di violenza che
minacciano il tessuto sociale”.
Riconosce che “le ricette dogmatiche
della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili”
e definisce “strage” il risultato della “speculazione finanziaria con
il guadagno facile come scopo fondamentale”. Occorre quindi costruire “le
strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno”, riabilitando “una
politica sana non sottomessa al dettato della finanza”. Inoltre osserva che
“certe visioni economicistiche chiuse e monocromatiche” non
contemplano “i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari
e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già
stabiliti” ma che nondimeno “danno vita a varie forme di economia popolare e
produzione comunitaria” e senza la loro esperienza la democrazia viene
svuotata. Resta allora indispensabile intendere una fraternità reale
come solidarietà concreta e costante apertura al “prossimo”, non come
generosità occasionale né con la logica di chi si “associa” per perseguire i
propri interessi; ripetendo quanto aveva già detto ai movimenti popolari:
“È pensare e agire in termini di comunità, di priorità
della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche
lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la
mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali
e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […].
La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia,
ed è questo che fanno i movimenti popolari”.
(Francesco, Fratelli
tutti, 116)
La fraternità infatti potrà darsi
solamente se sarà incarnata nella realtà politica, economica, storica e sociale, lottando con i piedi per terra “per ciò che è più
concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo”. Le parole
di Papa Francesco – che pure scaturiscono dall’impostazione teologica che
Cristo non solo “ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi
nessuno resta fuori dal suo amore universale” ma va riconosciuto “in ogni
fratello abbandonato o escluso” – suonano come un richiamo autorevole
per tutti, e non solo per i cristiani. Il richiamo infatti al dialogo e
alla dignità inalienabile di ogni essere umano anche per molti agnostici può
essere “sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai
principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove
catastrofi”.
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