La Violenza delle Merci – Giorgio Nebbia
Tutto è cominciato quando qualche nostro lontano antenato, una decina di
migliaia d’anni fa, ha deciso di smettere di raccogliere frutti e tuberi e di
correre dietro agli animali per trarne la carne e ha scoperto che alcune piante
potevano essere coltivate e fornivano più facilmente del cibo e che alcuni
animali potevano essere trattenuti entro recinti e allevati – addomesticati –
per ricavarne carne, latte, uova, alimenti, cioè, più pregiati di quelli
vegetali. La transizione dallo stato di raccoglitori-cacciatori a quello di
coltivatori-allevatori – la “rivoluzione agricola” del neolitico – ha generato
molti caratteri della società odierna, che anzi si può dire sia cominciata
proprio allora.
Innanzi tutto ha generato il concetto di proprietà: la terra in cui coltivo
il grano è “mia”, le bestie che allevo sono “mie”. Poiché non tutti potevano
possedere terra e pascoli e animali, alcuni hanno dovuto comprare cibo da altri
vendendo il proprio lavoro e da qui la stratificazione in classi. La classe dei
proprietari ha cercato di avere abitazioni migliori per le quali occorreva
trarre dalla natura pietre e materiali da costruzione; qualcuno un giorno ha
scoperto che il fuoco modificava le pietre in forma utile, adatte come mattoni
e ceramiche e metalli, e il fuoco poteva essere ottenuto bruciando la legna,
ottenuta a sua volta tagliando i boschi.
A mano a mano che queste piccole comunità si sono evolute hanno cominciato
a risolvere alcuni problemi tecnici; la carne o le pelli erano soggette a
putrefazione fino a quando qualcuno ha scoperto – una delle prime “invenzioni”
tecnico-scientifiche – che una polvere bianca lasciata dal mare sulla sue rive,
il sale, era efficace per la conservazione dei prodotti di origine animale. Dove
non c’era sale qualcuno ha raccontato che lo si poteva trovare in qualche paese
lontano e così qualche persona più intraprendente si è messa in marcia verso i
paesi del sale, ai cui abitanti dava in cambio metalli o cereali o belle
ragazze. È nata così la classe dei mercanti, inferiore a quella dei re, ma
superiore a quella degli operai.
I mercanti dovevano però fare i conti con i venditori dei paesi stranieri,
talvolta avidi e arroganti ai quali talvolta bisognava dare una lezione con
azioni militari, con “guerre imperialiste”, che sono cominciate proprio così.
(Il racconto del libro della Genesi della distruzione delle città peccaminose
di Sodoma e Gomorra, sul Mar Morto, riflette una delle guerre imperialiste
contro i monopolisti del commercio del sale, altrettanto prezioso, allora, come
oggi il petrolio o il tungsteno.)
Volendo, tutta la storia umana può essere raccontata sotto forma di guerre
di conquista di materie prime e di merci per aumentare il capitale del denaro o
la potenza, che è poi la stessa cosa. Cambiano i protagonisti, cambiano le
merci e le materie oggetto di scambio, cambiano gli strumenti di conquista, ma
la morale è sempre la stessa: alcuni paesi, alcuni popoli “possiedono” delle
risorse naturali – minerali, pietre, piante, animali, acque, fonti d’energia,
mano d’opera – e vengono aggrediti da altri paesi e altri popoli che vogliono
appropriarsi di tali “beni”. Fino a quando l’unico parametro per misurare una
persona o un popolo è la quantità di denaro che possiede, questa persona o popolo
“deve” aggredire altre persone o altri popoli. Se non lo facesse verrebbe meno
alle regole del suo paese o della sua classe.
L’unica variante è rappresentata dalle materie oggetto di conquista e
quindi dallo stato delle conoscenze tecniche e merceologiche, e dalla scusa cui
i conquistatori ricorrono per giustificare la propria violenza. Questo vale per
le “civiltà” mesopotamiche ed egiziane, per l’impero romano e per la
contro-invasione dei “barbari” alla ricerca di pascoli, per le “crociate” e per
i viaggi verso “le Americhe”.
Al fianco delle rumorose celebrazioni del 500° anniversario della
“scoperta” geografica con la relativa opera civilizzatrice del cristianesimo
europeo, qualcuno ha ricordato che lo stimolo di Colombo ai suoi marinai era la
ricerca della “via delle spezie”, interrotta dalla conquista turca del
terminale occidentale della via terrestre della seta. E i quattrini che Spagna
e Portogallo, e poi Olanda, Francia, Inghilterra, investirono nelle spedizioni
verso occidente e verso l’Asia erano giustificati soltanto dalla speranza, poi
dalla certezza, di riportare a casa oro, argento, rame, piante d’importanza
economica, e poi zucchero, e poi gomma, eccetera. E anche in questo caso lo
scontro con i “nativi”, che erano da sempre proprietari degli agognati
territori, poteva essere risolto soltanto con un’energica guerra di
distruzione, di “conquista”.
Sono passati gli anni, ci sono stati i filosofi del settecento, ci sono
stati i movimenti e le idee dell’ottocento e del novecento; davanti agli effetti
di guerre devastanti alcune persone di buona volontà hanno gettato le basi per
“nuovi diritti”. I diritti dei popoli all’indipendenza dalle potenze coloniali,
l’abolizione della schiavitù, la necessità di risolvere pacificamente
controversie relative alle materie prime. Ma si è trattato di palliativi che
hanno forse alleggerito talvolta la pressione e la devastazione
dell’imperialismo, ma non hanno fatto altro che spostare da una materia
all’altra, da un paese all’altro, l’oppressione. Mascherata, a volta a volta,
da motivazioni apparentemente etiche o morali o virtuose; la diffusione di una
religione considerata più “vera” di altre; il “dovere” di migliorare il tenore
di vita dei popoli poveri; il progresso delle conoscenze della natura e del
mondo circostante.
E così ragionevolmente continueranno le cose fino a quando sopravvivono le
regole del capitalismo, cioè dell’imperialismo, con tutte le contraddizioni che
l’accompagnano, perché anche chi aspira ad un mondo più giusto inevitabilmente
usa strumenti che derivano da azioni imperialiste e d’oppressione.
Il fatto è che il capitalismo affonda le radici in fatti fisici ben
definiti: la vita quotidiana richiede materie che possono essere tratte solo
dalla natura. “La natura è la fonte di ogni valore d’uso e di essa è fatta la
ricchezza reale”. È passato un secolo e mezzo da quando Marx ha scritto queste
parole, del tutto valide ancora oggi in un mondo che vuole fare credere che la
ricchezza reale sia fatta di soldi, senza contare che non c’è un solo soldo che
si sposti da una tasca all’altra senza “portarsi dietro” un pezzo di materia e
un pezzo di natura.
E le risorse della natura non sono distribuite equamente sulla faccia del
pianeta: alcuni popoli si trovano, consapevolmente o inconsapevolmente, insediati
in territori che nascondono petrolio, rame, cobalto, petrolio, carbone, gas
naturale, e altri popoli hanno bisogno, in quantità crescenti, di materie che
non possiedono nei loro territori. Si ha un bel dire che le materie prime e le
merci possono essere scambiate con accordi internazionali, ma, secondo le
regole già ricordate, per le quali il capitale “deve” aumentare in ogni
passaggio di mano, chi vende deve cercare di guadagnare di più e chi compra
deve cercare di pagare di meno. E il “di più” e “di meno” non vengono mai
stabiliti – non “devono essere” stabiliti – con criteri di solidarietà o di
rispetto degli altri.
Gli infiniti conflitti associati alla cosiddetta organizzazione mondiale
del commercio confermano come le regole del capitalismo siano in conflitto con
la giustizia, l’equità, un più equo accesso ad uguali diritti.
Proprio in quest’inizio di secolo, caratterizzato dal massimo disordine
monetario e finanziario, è forse il caso di cercare di rielaborare un’economia
e una politica che riconosca la centralità delle materie e della natura. Anche
le operazioni apparentemente più immateriali che ogni terrestre fa, dipendono
da materiali che, anzi, diventano tanto più complicati quanto più raffinata è
la tecnica.
È evidente che i signori dei soldi fanno di tutto per diffondere l’idea che
la nostra sia una società virtuale teletronica immateriale, per poter governare
loro i nostri bisogni e i prezzi delle merci secondo i principi che gli
assicurano i massimi profitti. È evidente che gli stessi signori dei soldi non
vogliono che gli acquirenti di merci si soffermino sull’origine e sulla natura
di ciò che acquistano; se lo facessero si svilupperebbe una nocivissima
consapevolezza che la vita di ciascuno di noi è legata a quella di infiniti
altri lavoratori e persone sparse nel mondo e che il capitale sopravvive
soltanto attraverso lo sfruttamento – l’acquisto a bassi prezzi e ad alto
contenuto di dolore – di materie provenienti da innumerevoli altri paesi.
Pensiamo alla vita quotidiana di una qualsiasi persona, anche di modeste
condizioni e di modesto livello di consumo, un lavoratore di un paese a medio
sviluppo economico come l’Italia. La sua abitazione è fatta di cemento e calce
e di acciaio, e quest’ultimo è stato ottenuto con minerali che sono stati importati
da qualche paese americano o africano, magari da uno di quelli travagliati da
guerriglie interne, alimentate dall’occidente al doppio fine di costringerli a
vendere minerali a basso prezzo e ad acquistare armi occidentali ad alto
prezzo.
Se proprio si vuole dare retta all’ecologia, che spiega che è meglio
sfruttare di meno i minerali e riutilizzare i rottami metallici, ecco che il
mercato offre grandi quantità di rottami metallici che altri paesi trasformano
in nuovo acciaio o alluminio o rame. Ma può capitare che, nel commercio
internazionale finiscano anche rottami contaminati da metalli o sostanze
tossici, o da materiali radioattivi, residui di centrali nucleari. Il rispetto
degli acquirenti vorrebbe che tali materiali fossero segregati ed eliminati, ma
il rispetto del profitto vuole che essi siano messi in circolazione e poco
conta se provocheranno malattie.
La vita quotidiana richiede alimenti vegetali e animali; in Italia in parte
di importazione da paesi che cercano di aumentare i propri profitti aumentando
le rese agricole (cioè la quantità di merce vendibile per unità di superficie)
con sementi ad alta resa, magari geneticamente modificate, con impiego di
concimi e pesticidi, con allevamenti intensivi che assicurino la massima
quantità di carne per unità di mangime e di spazio della stalla.
Per realizzare questi fini occorre aumentare la produzione di concimi,
estraendo le materie prime da paesi arretrati. Si pensi alle guerre nel
territorio del popolo Sarawi, oppresso per consentire al Marocco di sfruttare i
giacimenti di fosfati che tali territori nascondono. C’è qualche grammo di
violenza in ogni chilo di pane o pasta o patate ottenuti da coltivazioni
concimate col fosforo “portato via” al popolo Sarawi.
E c’è poco da commuoversi se scoppiano epidemie perché intere popolazioni
di bovini sono state alimentate con mangimi ottenuti macinando cadaveri di
altri animali morti, col loro carico di sostanze contaminanti. Quando scoppia
un caso come quello della “mucca pazza” è come se la natura si vendicasse
dell’avidità degli allevatori e dell’ignoranza dei cicli alimentari che stanno
alla base della vita.
Ma la violenza nelle merci usate anche dalla persona “media” è ben più
diffusa. Quando sente parlare della guerra in Angola per la conquista delle
province in cui sono estratti diamanti, farebbe male chi pensasse che la
violenza per ottenere tali diamanti è motivata dalla vanità degli
accompagnatori di gentildonne che sfoggiano costosi diademi. I diamanti ormai
hanno innumerevoli usi industriali e entrano nei processi che producono molti
banalissimi oggetti come televisori, computer, telefoni, eccetera.
E lo stesso vale per altri materiali il cui nome era associato in passato
al lusso, come oro, argento, platino, palladio. Le guerre e guerriglie per la
loro conquista sono motivate dal fatto che tali metalli sono presenti nelle
saldature delle apparecchiature elettroniche, che tutti usiamo, nelle marmitte
catalitiche delle automobili, negli impianti petrolchimici che producono
materie plastiche, eccetera.
Un giorno un telegiornale racconta distrattamente della guerriglia nella
zona dei Grandi Laghi africani, fra Congo e Uganda, per la conquista del
“Coltan”, ma nessuno spiega che si tratta di un prezioso minerale di niobio e
tantalio, metalli usati nell’industria meccanica per leghe speciali,
nell’industria elettronica, nell’industria missilistica e delle armi, eccetera.
Le guerre e guerriglie per le fonti di energia ricevono di tanto in tanto
qualche maggiore pubblicità. Ma raramente i mezzi di informazione spiegano che
le guerriglie nella Malaysia nel Borneo, nella Papuasia sono dovute alla
conquista di territori, portati via alle popolazioni native, dove si trovano
giacimenti di petrolio, gas naturale, minerali, dove si trovano foreste di
legnami preziosi.
Del resto basta pensare alle guerre della gomma, per il cui possesso la
Francia ha dominato l’Indocina per decenni, e che poi si sono trasformate nelle
guerre di liberazione del Vietnam contro francesi e americani.
Ogni tanto circola su Internet qualche allarme per le decisioni del governo
brasiliano che privatizza parte delle foresta amazzonica autorizzando il taglio
di boschi per ricavarne il legname richiesto dall’industria della carta,
prodotta addirittura da cartiere galleggianti giapponesi che tagliano gli
alberi, li trasformano in carta e gettano gli scarti direttamente nel Rio delle
Amazzoni e nei suoi affluenti. Ma non possono piangersi addosso per la perdita
di biodiversità e per l’aumento dell’effetto serra coloro – e noi siamo fra
questi – che hanno sempre maggiore fame di carta e di cartoni e di imballaggi.
Da dove crediamo che venga la carta su cui sono stampate le parole che state
leggendo?
Dovunque sentite che qualcuno muore, assassinato da un altro umano, cercate
con attenzione e troverete lo scontro imperialistico per la conquista di
qualche pezzo di natura: terra e acqua in Palestina, petrolio nel Golfo
persico, uranio, tungsteno, cromo nello Zaire, acqua e petrolio nelle ex
repubbliche sovietiche, eccetera.
Solo un autorevole e credibile governo mondiale – quello di “nazioni unite”
da un grande progetto ideale, quello che avrebbe dovuto estirpare i veleni
lasciati dalle grandi guerre imperialiste della prima metà del novecento –
potrebbe stabilire dei criteri per un’equa, rispettosa ed ecologicamente
sensata divisione delle risorse planetarie necessarie per soddisfare bisogni
umani. Ma in oltre mezzo secolo tale governo mondiale è fallito, proprio perché
i suoi promotori hanno dimenticato la visione profetica iniziale e sono rimasti
succubi del regime capitalistico dominante.
Nella attesa di un auspicabile (ma improbabile) sovvertimento delle regole
dell’economia capitalistica, potrebbe ciascuno di noi dare un piccolo
contributo a rallentare la guerra delle materie prime? Probabilmente si, con
due accorgimenti. Il primo consiste in una revisione dei modelli di consumi e
sprechi di merci, ciascuna delle quali richiede materie prime e risorse
naturali scarse e sottratte ad altri popoli, e genera scorie che contaminano
aria e acqua e mari da cui dipende la vita e il benessere di altri popoli.
Un secondo contributo potrebbe essere dato da una maggiore conoscenza e
attenzione per la storia naturale delle merci. Ciascun oggetto che usiamo come
è fatto, quali materie contiene, ciascuna di queste materie da dove viene? È un
po’ la strada avviata dalle iniziative per un commercio “equo e solidale” che
saranno facilitate da una crescente informazione e diffusione di nuove scale di
valori. Quanto “costa”, ciascun oggetto, non in euro, ma in chili di materie
prime, di energia, di acqua, di inquinamento? Ciascun oggetto quali territorio
impoverisce e quali contamina? E, infine, qual è il “contenuto di violenza” che
ciascun oggetto ha “dentro di sé”?
La scuola potrebbe avere un ruolo importante, anche se delude la
neutralizzazione di discipline naturalistiche, geografiche, merceologiche; del
resto non c’è neanche tanto da sorprendersi se si considera che esse, se ben
insegnate, avrebbero potuto offrire conoscenze critiche e “sovversive” rispetto
alla cultura dominante.
Gli strumenti culturali e scientifici ci sono (ci sarebbero), a cominciare
dall’ecologia (non dall’ecologismo, o ambientalismo, o consumerismo, di moda),
l’insieme delle conoscenze dei rapporti fra materie viventi e inanimate –
vegetali, animali, minerali, fossili – e fra tali materie (o risorse naturali)
e i bisogni degli esseri umani come persone e come società.
L’ecologia può rappresentare uno strumento essenziale per diffondere la
solidarietà internazionale, per riconoscere i reali bisogni umani, non quelli
“creati” e moltiplicati per rendere le persone soggette al potere del denaro e
degli oggetti, per comprendere, insomma, come l’economia capitalistica sia
intrinsecamente incompatibile con un’amministrazione umana e solidale dei beni
della natura.
BIBLIOGRAFIA
– G. Nebbia, Lo sviluppo sostenibile, Edizioni Cultura della
Pace, Firenze 1991;
– G. Nebbia, “Una rilettura ambientale dell’imperialismo”, Giano n.
7 (gennaioaprile
1991), pp. 56-61;
– G. Nebbia, “Alla ricerca di una società neotecnica”, CNS
Capitalismo Natura
Socialismo, n. 13 (febbraio 1995), pp. 53-63.
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