Nelle spropositate e violente reazioni
contro Carola Rackete si ritrova la classica ideologia piccolo-borghese tanto
cara a chi ci governa. Serve solo a esorcizzare la paura che possano esistere
comportamenti non orientati alla ricerca del profitto
Il copione è sempre lo stesso: una Ong salva un gruppo di migranti nel Mar
Mediterraneo; Salvini, impedendo alla nave di entrare in acque territoriali
italiane e far sbarcare i naufraghi-migranti a bordo, ne approfitta per
sollevare un polverone mediatico volto a distrarre la popolazione dai problemi
veri che attanagliano il paese; l’opposizione, dagli antifascisti-ma-non-troppo
del Pd alla sinistra radicale, manifesta solidarietà all’equipaggio e ai
migranti reduci da indicibili violenze subite nei lager libici; Salvini replica
di pensare piuttosto ai Cinque milioni di poveri italiani, e giù applausi
scroscianti, virtuali ma non solo, da parte dei suoi sostenitori, pronti a
rilanciare via social il frame della guerra tra poveri che
tanto successo garantisce ai partiti xenofobi di tutto il globo.
È esattamente ciò che è accaduto in questi giorni sulla vicenda SeaWatch 3.
A cui stavolta si è aggiunta una martellante campagna di denigrazione nei
confronti di Carola Rackete, la capitana della nave, accusata di essere una
ricca e viziata che gioca a fare la ribelle con i soldi di papà. Eppure, quando
qualche illuminato imprenditore nostrano sposta la sede fiscale all’estero per
pagare meno tasse o licenzia in blocco un certo numero di lavoratori gettandoli
sul lastrico insieme alle rispettive famiglie non vediamo nessuno, da Salvini
all’ultimo dei suoi elettori, sbraitare schiumante di rabbia: «E ai poveri
itagliani chi ci penzah!». Potrà sembrare strano, ma questo atteggiamento è
perfettamente coerente con l’ideologia di una piccola borghesia stracciona che
rispetta, anzi adula, i ricchi proprio nella misura in cui sono diventati tali
sfruttando/evadendo/speculando. In definitiva accumulando le proprie ricchezze
a discapito della povera gente. Alla base vi è l’idea dell’uomo forte che si fa
da sé e che ognuno di loro, abitando quel purgatorio socioeconomico che è la
classe media, in fondo spera, un giorno, di diventare. Per questo è per loro
inconcepibile che un ricco, o presunto tale, possa salvare vite umane mettendo
a rischio se stesso da un punto di vista fisico e giuridico: se sei ricco
è perché vivi di opportunità, cinismo, speculazione di ogni sorta, ergo non
puoi mica fare qualcosa di «straordinario» – com’è salvare una vita umana –
senza chissà quale losco interesse dietro.
Si potrebbe obiettare, d’altra parte, che se così fosse non ci sarebbe
bisogno di prendersela in questo modo con Carola Rackete. D’altronde, se
quest’ultima sfruttasse davvero le sofferenze di qualche decina di diseredati
in nome del profitto o del prestigio personale, tutte categorie prettamente
capitalistiche, non farebbe nulla di incompatibile con questo atteggiamento,
nulla che, nell’odierna giungla del capitalismo non sia consentito e da loro
intrinsecamente accettato. Dove sta, allora, il punto di rottura? Perché una
simile schizofrenia? Bisogna considerare due aspetti, per comprendere come in
realtà questo doppiopesismo piccoloborghesesia una forma di
schizofrenia solo in superficie.
In primis, per dirla con George Lakoff, i partiti conservatori/reazionari
costruiscono la propria egemonia sul cosiddetto principio del Padre severo: la
nazione sarebbe una famiglia, i cittadini i membri di questa famiglia, lo
Stato-apparato il pater familias. Compito dei cittadini, in questa visione,
sarebbe quello di impegnarsi ad aiutare la famiglia-nazione svolgendo il
proprio dovere in conformità ai dettami (espressi o taciti) dello Stato-padre,
profondendo al massimo il proprio impegno lavorativo-imprenditoriale in
ossequio a un’etica ultralavoristica. Per raggiungere questo scopo il cittadino
dev’esser pronto a «combattere» individualmente contro tutto e tutti e,
soprattutto, difendere la nazione-famiglia dalle minacce «esterne».
Ora, è evidente che i migranti vengano considerati tali da una classe
sociale abituata a vivere in una terra di mezzo rispetto alla quale non riesce
a elevarsi e al di sotto della quale, d’altra parte, non vuole neppure
scendere. I migranti, come tutti coloro che non hanno più nulla da perdere e
per ciò stesso rappresentano un serio pericolo per il sistema, vengono
inquadrati come coloro che potrebbero minare le piccole, insignificanti,
conquiste materiali di una piccola-media borghesia la cui stella polare è solo
e soltanto «la roba». Pertanto nel suo mondo ideale si può essere, anzi, si
deve essere ricchi, ma finanche un ricco può diventare un problema quando fa
qualcosa di concretamente «pericoloso» per questa classe sociale, laddove
beninteso il pericolo avvertito può non essere reale, ma anche soltanto
percepito.
Così viene vista Carola: una giovane, ricca intellettuale che, in concreto,
sta portando una minaccia «esterna» dentro le sacre mura patrie, complicando
ulteriormente quella guerra del tutti contro tutti in cui ci si combatte per
ottenere qualche briciola dai potenti.
Il più delle volte, tuttavia, gli odiatori seriali delle Ong non sono
minimamente a conoscenza delle condizioni familiari di partenza o del conto in
banca dei suoi membri, e allora qui entra in gioco l’altro aspetto da
considerare per comprendere la crociata in atto. Spesso, infatti, a coloro che
attaccano ignobilmente persone come Carola Rackete non interessa affatto se
queste siano effettivamente dei paperoni «stranamente» interessati ai drammi
umanitari del mondo, e tuttavia avvertono il bisogno impellente di asserirlo,
in quello che è un vero e proprio esercizio di autoconvincimento oltre a
rappresentare uno strumento comunicativo utile alla loro lotta per l’egemonia
culturale. Sostenere che un operatore di una Ong agisca non per spirito di
umana solidarietà ma esclusivamente per interesse personale (inteso in genere
come interesse economico) significa alimentare quell’idea hobbesiana che vuole
la società reggersi basicamente, se non unicamente, sull’individualismo
sfrenato, legittimando ulteriormente il «mors tua vita mea» tanto caro al
sistema capitalistico. Ripetere a se stessi un siffatto refrain è anche un modo
per esorcizzare la paura che possa esistere un mondo diverso, migliore,
estraneo alle logiche di profitto o, a seconda dei casi, un modo per
assecondare la propria disillusione, per giustificare la propria disumanità
spacciata per sano realismo, per scrollarsi di dosso il peso insopportabile
della responsabilità per ciò che questo mondo è e per ciò che invece potrebbe
essere. «Noi siamo cattivi, egoisti, arrivisti, sfruttiamo il prossimo ogni
volta che possiamo ottenere qualcosa di utile per noi stessi, però oh, guarda,
in fondo anche Carola lo è, lo sono tutti, quindi non venirmi a fare la
lezioncina su come e quanto dobbiamo essere accoglienti, solidali, umani».
Il problema di questa piccola ragliante borghesia, come è evidente, è che
non mette mai in discussione ciò su cui si fonda la ricchezza a livello
sistemico, ma ne accetta i presupposti e i risvolti pratici, interiorizza lo
status quo nella vana speranza di far parte degli eletti del mondo. Odiano
Carola Rackete perché fondamentalmente odiano se stessi, e odiano se stessi
perché semplicemente odiano la propria impotenza, frustrazione, incapacità di
svincolarsi dalle gabbie ideologiche e materiali di un sistema che opprime la
maggioranza delle persone, alla lunga anche quelli come loro.
Odiano le Carola di tutto il mondo perché sbattono loro in faccia che si
può stare in questo folle e disgraziato mondo anche agendo incondizionatamente
per il bene altrui, senza avere un tornaconto personale, senza pensare sempre e
solo alle proprie tasche, come invece fanno loro credendo sia la normalità. Le
odiano perché semplici azioni di buon senso come quelle della giovane capitana
distruggono il loro castello di carta fatto di realismo capitalista e
incapacità di ribellarsi alle ingiustizie in nome di un banale, banalissimo,
principio di umanità. Le odiano perché smontano il principio thatcheriano
secondo cui esistono solo gli individui (e tutt’al più le famiglie) e lo Stato,
mentre in mezzo non ci sarebbe nulla. Le odiano non perché odiano i ricchi, ma
perché mettono in discussione la ricchezza come sistema, come meccanismo di
sopraffazione e disciplinamento degli altri – dal loro vicino di casa
disoccupato al bambino senegalese dimenticato da dio – costringendo da un lato
i ricchi di tutto il mondo a fare i conti con se stessi, a guardare in faccia
tutto il male e la disperazione che hanno provocato, e dall’altro i piccolo
borghesi, fintamente solidali con i propri connazionali più poveri, a
considerare la povertà come un prodotto di questo sistema e non come un
problema individuale del singolo a cui papà-Stato dovrebbe mettere una pezza
con qualche sussidio da fame senza intaccare il sistema stesso.
Odiano Carola, insomma, perché sanno che non riusciranno mai a essere come
lei, perciò non resta che abbandonarsi a una triste e piatta realtà da cui non
possono e non vogliono più liberarsi e che finiscono per legittimare. Facendo,
come Italo Calvino aveva ben descritto ne Il sentiero dei nidi di ragno,
quello che hanno sempre fatto i fascisti: utilizzare la miseria per perpetuare
la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
*Antonio Mosca, classe 1993, calabrese, studente di giurisprudenza a Reggio
Calabria.
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